di don Emanuele Borserini
Tre giorni, un’unica celebrazione
Il Triduo pasquale, come dice la parola stessa, è un tempo composto da tre giorni che celebrano la Pasqua: essi sono venerdì, sabato e domenica. Questi giorni sono però da considerare con il computo antico della giornata per il quale essa va da vespro a vespro. Ecco perché ne fa pienamente parte anche la serata che per noi è ancora giovedì. Il giovedì santo di per sé è ancora Quaresima, si chiama infatti “Giovedì della Settimana santa”, ma la sera, assumendo questo modo di contare, è già venerdì. Nel resto dell’anno liturgico questo sistema è rimasto in vigore solo per la domenica e le solennità che infatti hanno i Primi e i Secondi Vespri. Un giorno allungato che prefigura la “Domenica senza tramonto” (Prefazio delle Domeniche del Tempo Ordinario X) in cui entreremo definitivamente nel riposo di Dio (cfr. Sal 94). Questo permette la celebrazione della prima Messa festiva già il sabato sera o la vigilia della festa. Una Messa che non è “prefestiva” come si trattasse di un accomodamento per chi non ha tempo (o voglia) di andarvi la domenica ma è a pieno diritto una celebrazione domenicale. le parole che usiamo devono esprimere correttamente la nostra fede; come avvenne nel 1962 riguardo alla terminologia “Messa privata”, oggi ci vorrebbe un documento che proibisca di dire “prefestiva”. Certamente ha un carattere vigiliare e, anzi, sarebbe molto utile recuperare questo aspetto per fare ogni settimana memoria della celebrazione centrale di tutto l’anno liturgico, la Veglia pasquale. Nell’antichità cristiana la veglia alla domenica era un concetto importante perché la domenica era il giorno della celebrazione dell’Eucaristia, un giorno atteso lungo tutta la settimana e atteso svegli. Era un modo di vivere la liturgia lontano anni luce dal nostro ma è quello vero!
Nel senso più ampio del suo significato, possiamo dunque racchiudere sotto la dicitura Triduo pasquale tutto il tempo che va dai Vespri del giovedì santo ai secondi Vespri della domenica di Pasqua. In questa estensione, oltre alle tre celebrazioni della Cena del Signore, della Passione e della Veglia pasquale vengono comprese anche la Liturgia delle Ore e tutte le devozioni e pie pratiche che si svolgono in questo arco di tempo. Tra esse non rientra la Messa crismale anche se la sua connotazione sacerdotale è fortemente legata alla Messa in Coena Domini. Questa solenne celebrazione si chiama così perché al suo interno il Vescovo consacra gli oli santi, in particolare il Crisma che è l’unico che necessita del Vescovo mentre gli altri possono essere preparati anche dal singolo sacerdote qualora ne avesse necessità. Essa esprime la comunione e l’unità della Chiesa locale; come del resto la preghiera per il papa e il vescovo espressi nominalmente in ogni preghiera eucaristica. La Chiesa locale in cui si manifesta ed è presente la Chiesa universale non è solo un utile raggruppamento territoriale, è un dato teologico e celebrarne l’unità ci fa bene. La Chiesa si incontra dunque tutta insieme (anche se simbolicamente attraverso i suoi sacerdoti) in questo rito che prelude al momento più importante della sua vita liturgica.
In senso stretto, invece, il Triduo pasquale è una e unica solenne celebrazione che si attua in tre momenti diversi: la cena del Signore, l’azione liturgica della morte del Signore e la grande Veglia pasquale. Non è la preparazione alla Pasqua, come fosse il triduo in onore di una festa della Madonna o di un Santo. I tre momenti hanno la stessa solennità anche se il venerdì essa si manifesta in modo del tutto articolare con l’assenza totale di solennità. Tuttavia, è proprio l’unicità rituale di questo giorno lo rende a modo suo solenne e, anche solo vedendo la chiesa completamente spoglia come non mai, si percepisce che ci deve essere qualcosa di straordinario.
Tre giorni, un unico mistero
Fra questi tre momenti dell’unica celebrazione detta Triduo Pasquale c’è una chiara unità liturgica: la liturgia è il memoriale (tema espresso soprattutto dalla Messa in coena Domini) della morte (su cui si incentra l’azione liturgica del Venerdì Santo) e della risurrezione (annunciata e accolta nella Veglia pasquale) del Signore. Questo raggiunge il suo apice nella Messa ma anche gli altri sacramenti non dobbiamo dimenticare che sono operanti in virtù del mistero pasquale del Signore di cui attualizzano un aspetto specifico. Profondamente unito è il Triduo pasquale perché profondamente uniti sono i momenti del mistero pasquale vissuto da Gesù.
Ci sono anche altri simboli all’interno della liturgia che esprimono questa unità. Guardiamo a due elementi che si possono cogliere facilmente. Anzitutto l’altare: esso è un piano sempre ricoperto dalla tovaglia come la tavola dell’ultima cena, dovrebbe essere di pietra come il sepolcro e sopra di esso o in prossimità di esso sta la croce come se fosse il monte Calvario. In un unico oggetto sono rappresentati tutti i tre i momenti del mistero pasquale. Ecco perché l’altare è simbolo di Cristo stesso e viene baciato dal sacerdote all’inizio e alla fine della Messa, incensato per ben due volte e anche fuori dalla celebrazione non dovrebbe mai diventare un semplice supporto per ammennicoli vari che nulla hanno a che vedere con questa profonda dignità. L’altro simbolo è l’uso frequentissimo di caratterizzare in modo preciso la croce liturgica attraverso l’apposizione di una raggiera all’incrocio dei suoi bracci oppure dietro la testa del crocifisso. Nel momento stesso in cui Gesù muore sulla croce si inaugura (cfr. l’Orazione dell’azione liturgica del Venerdì Santo) la pasqua di resurrezione.
L’unità, però, è teologica più che liturgica: la cena istitutiva del memoriale, la morte e la risurrezione. Per questo motivo dove si celebra la Messa in coena Domini è obbligatorio celebrare anche la Passione e una celebrazione pasquale della notte o del giorno, che sia, mentre la Veglia pasquale può essere omessa. Sembra paradossale che la “madre di tutte le veglie” (Sant’Agostino, Sermo 219) non sia obbligatoria ma ciò che conta è la presenza di una celebrazione della risurrezione.
La Messa nella Cena del Signore
L’anno liturgico ci fa rivivere tutta la vita di Gesù: questa celebrazione vespertina ci riporta all’ultima cena quando egli ci lasciò il dono dell’Eucaristia. Questo è il mistero centrale che viene commemorato. Accanto ad esso ci sono altri due misteri che gli sono inscindibilmente connessi: il sacerdozio ministeriale deputato a “fare” l’Eucaristia per tutti e la Chiesa come comunità di fratelli che si amano e si servono a vicenda la quale “è fatta” dal’Eucaristia. Andiamo così alle fonti della nostra liturgia perché proprio in quell’occasione il Signore lasciò alla Chiesa il suo memoriale, il simbolo liturgico della la “nuova ed eterna alleanza” (Preghiera eucaristica). il contesto era quello della pasqua ebraica descritta dalla prima lettura in cui il concetto di memoriale era fondamentale: chi la celebrava era perfettamente consapevole di essere stato lui stesso liberato dall’Egitto e di aver passato lui il mar Rosso, non solo i suoi padri. Esattamente così è anche per noi: ogni volta che celebriamo l’Eucaristia noi siamo come strappati al nostro banco e siamo scaraventati sul Calvario davanti alla croce del Signore. Vi partecipiamo. L’evento imperituro del sacrificio di Gesù è presente tanto nell’ultima sua cena, come anticipato, quanto nella nostra Messa, come commemorato. Quale grande grazia riceviamo! Ecco perché l’Eucaristia è sempre una festa. E il Triduo pasquale ha inizio proprio in questo clima di festa. Tuttavia, già la prima antifona della Messa ci ricorda su quale dramma riposi la nostra possibilità di fare festa oggi: la croce del Signore, unica cosa di cui ci possiamo vantare (cfr. Gal 6,14).
All’inizio della Messa nella Cena del Signore si può fare anche un piccolo rito di presentazione degli oli benedetti dal Vescovo nella Messa Crismale. Senza darvi troppo risalto perché non è questo il centro della celebrazione, è tuttavia un’ottima occasione per una catechesi liturgica attraverso di essi: sulla Chiesa locale, sui sacramenti, sul sacerdozio, sulla misericordia di Dio …
Il Salmo responsoriale nasconde nella sua poesia un’esaltazione della liturgia. Il salmista si chiede come fare a rendere grazie a Dio in modo corretto per tutti i benefici che gli ha concesso e si da una risposta molto semplice: con la liturgia! Il termine stesso eucaristia significa ringraziamento, inoltre essa è descritta con il gesto dell’elevazione del calice e dell’invocazione del nome di Dio, un gesto di per sé performativo cioè che per il solo fatto di essere posto opera qualcosa. Su questa linea è anche l’orazione sulle offerte che ci ricorda la performatività della liturgia la quale per il solo fatto di essere celebrata opera la nostra salvezza. A noi però resta l’arduo compito rendere effettiva nella nostra vita quotidiana questa verità.
La seconda lettura ci ricorda un altro aspetto della liturgia: la sua connessione intrinseca con l’evangelizzazione. Anche senza predicare, con la celebrazione stessa si annuncia il Signore. Anzitutto perché egli si rende presente e operante ma anche perché la sua bellezza si mette in connessione con il cuore dell’uomo attirandolo senza che egli nemmeno lo voglia.
Il Vangelo ci propone la contemplazione di un momento dell’ultima cena: la lavanda dei piedi. E poco dopo essa viene rappresentata. Si tratta pur sempre di un rito, pertanto, piuttosto che fare una squallida sceneggiata, è meglio ometterla poiché non è obbligatoria. Si tratta di un’icona forte della Chiesa dove l’autorità è servizio e il Primo si è fatto ultimo. Per quanto riguarda la modalità con cui realizzare questo gesto, i libri liturgici parlano solo di uomini e da nessuna parte è scritto che debbano essere dodici.
Per l’Offertorio il Messale, unico caso in tutto il libro, propone esso stesso un canto “Dov’è carità e amore”. Pertanto se ne deve trarre la conseguenza che questo è un canto d’Offertorio e non di Comunione dove, invece, normalmente viene eseguito.
L’orazione dopo la Comunione richiama il banchetto, aspetto che la Messa non ha mai perso pur utilizzandolo come simbolo di un’altra cosa, il sacrificio della croce. Questa orazione lo presenta peraltro come immagine del cielo a cui attraverso la liturgia accediamo, anzi, che ci viene incontro perché la liturgia è il cielo sulla terra.
La riposizione dell’Eucaristia e la spoliazione dell’altare sono due riti fortemente legati anche se soltanto il primo è obbligatorio. Quando, come in altri casi, incontriamo la “liturgizzazione” di una semplice incombenza da sacrestia, è come se la Chiesa richiamasse la nostra attenzione dicendo che essa nasconde un significato che va oltre la mera necessità. Lo sposo se ne va dal cenacolo ma non ci abbandona e in noi deve nascere lo stesso anelito della sposa del Cantico dei Cantici. Inoltre, l’altare della riposizione non va chiamato sepolcro perché non ha niente a che vedere con esso.
Questa celebrazione non si conclude perché è solo il primo momento del Triduo pasquale, infatti l’assemblea si scioglie in silenzio. Un silenzio che è rito come la pausa è musica. Così anche l’adorazione che siamo invitati a continuare non deve assolutamente essere solenne ma silenziosa.
L’Azione liturgica della Passione e morte del Signore
Il vescovo per questa celebrazione non porta l’anello e il pastorale perché lo sposo e pastore oggi muore. È interessante che il Vescovo lungo tutto il giorno non porti l’anello non solo durante l’azione liturgica, così la liturgia informa anche la vita quotidiana.
L’inizio avviene in silenzio perché la celebrazione continua dalla sera precedente e il primo gesto è la prostrazione: è l’unica rimasta nei riti latini insieme a quella della sacra Ordinazione mentre nell’antichità e in Oriente è più diffusa. Già questo unicum è segno di un momento veramente particolare che si sta vivendo. Inoltre è segno visibile della kenosi di Dio sulla croce, come il fatto di inginocchiarsi alle parole dell’Incarnazione durante il Credo la notte e il giorno di Natale è segno della kenosi di Dio nell’Incarnazione. Questo termine apparentemente difficile viene usato così com’è perché racchiude in sé sia il campo semantico dell’abbassamento sia soprattutto quello dello svuotamento: c’è un mistero veramente imperscrutabile nell’avvicinarsi di Dio a noi che non può essere che adorato con tutta la nostra capacità di abbassamento e svuotamento davanti ad esso fino a toccare la faccia a terra.
Dopo un’orazione molto semplice inizia subito la Liturgia della Parola tutta caratterizzata da un gioco di rincorsa tra kenosi e innalzamento. Il Vangelo è il racconto della Passione secondo Giovanni, mentre la Domenica delle Palme cambia secondo il ciclo annuale. Questo evangelista, a differenza degli altri, mette in evidenza come l’ora della croce sia la stessa in cui venivano immolati gli agnelli pasquali nel tempo di Gerusalemme perché è Cristo l’unico e il vero agnello, l’unico e il vero tempio, il centro della nostra liturgia, “altare, vittima e sacerdote” (Prefazio pasquale V). viene così illuminata anche la seconda lettura incentrata sul sacerdozio di Cristo.
La Parola di Dio ascoltata si fa poi preghiera nella solenne Preghiera universale. Questo rito che ha conservato la sua forma antichissima è il fondamento della comune preghiera dei fedeli la quale proprio da esso riceve dignità. La croce è il momento della massima impetrazione quando attraverso la lancia del cuore di Gesù il cuore di Dio è stato aperto e tale resterà per sempre, è dunque il momento migliore per sciogliere le nostre preghiere. Si prega per tutti, anche i non cristiani e l’elenco presentato dalle dieci intenzioni dovrebbe essere il modello di tutte le preghiere dei fedeli. La struttura è quella della colletta: invito a pregare, preghiera personale e orazione che raccoglie in una sola tutte le voci elevatesi al cielo dai fedeli.
Segue l’adorazione della croce. L’adorazione è un tipo di preghiera riservato solo a Dio ma è talmente legata alla sua opera di salvezza che la si può estendere anche ad essa almeno in questo giorno. Anche alla fine si farà genuflessione alla croce. La preghiera che accompagna il gesto è il canto dei cosiddetti “Lamenti” o “Improperi” in cui tutta la storia della salvezza è rievocata mettendola in bocca a Dio stesso, a lui che ci ha amati per primo e nella croce ce ne ha dato la prova definitiva. L’accoglienza della croce per adorarla si può svolgere in due forme: attraverso l’ingresso solenne in cui viene innalzata per tre volte come sarà il giorno successivo per il cero pasquale, oppure scoperta progressivamente per tre volte, segno eloquente della rivelazione definitiva dell’amore di Dio che sulla croce è avvenuta. Entrambi hanno degli ottimi spunti catechetici, basta scegliere quello più adatto all’assemblea. Le parole che accompagnano il rito annunciano: “ecco il legno della croce”. Anche se non è la reliquia della santa croce ma una qualsiasi immagine di essa si può dire che quello è il legno della croce per la potenza del memoriale liturgico, come nella Preghiera eucaristica I si può dire “questo glorioso calice” senza avere davanti il Graal (ammesso e non concesso che sia proprio quello il calice usato da Gesù).
La conclusione è ancora una volta in silenzio perché la celebrazione non è finita, non solo oggettivamente ma anche simbolicamente perché croce e sepolcro senza la risurrezione non sono nulla.
La Veglia pasquale nella Notte santa
La veglia pasquale giunge al termine di un giorno particolarissimo, un giorno a-liturgico ma denso e purtroppo dimenticato: il Sabato santo. Esso è il giorno del silenzio, della desolazione, per certi aspetti è anche peggio del Venerdì santo in cui la foga degli avvenimenti stordiva dal dolore, ma ora la quiete dopo la tempesta obbliga a prendere coscienza del dramma a cui abbiamo partecipato. L’attesa degli apostoli sgomenti dopo le fortissime emozioni dei giorni precedenti dovrebbe essere anche la nostra. Noi sappiamo come va a finire quel dramma ma la liturgia dovrebbe averci fatto talmente vibrare le corde profonde dell’anima da restare anche noi con il fiato sospeso lungo tutto questo giorno.
L’inizio della celebrazione è ancora una volta in silenzio perché continua dal giorno precedente, infatti non c’è il segno di croce ma solo il saluto liturgico che pur nella continuità annuncia l’avvento di qualcosa di nuovo. Il primo rito è il Lucernario in cui si benedice il fuoco nuovo, un antico rito ebraico di apertura del Sabato celebrato al tramonto del venerdì. Semplice e solenne è la cerimonia di preparazione del cero pasquale che segue in cui, in obbedienza a ciò che il Signore stesso dice di sé nell’Apocalisse, l’alfa e l’omega cioè la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco vengono incise dal sacerdote sul cero dicendo: “Il Cristo ieri e oggi: Principio e Fine, Alfa e Omega. A lui appartengono il tempo e i secoli. A lui la gloria e il potere per tutti i secoli in eterno”. Mentre vengono proclamate queste solenni parole, il celebrante incide sul cero anche il numero dell’anno corrente: la signoria di Cristo celebrata viene così applicata alla drammatica realtà del tempo e dello spazio in cui l’uomo si trova a vivere. Il cero pasquale è il simbolo di Cristo risorto, luce della vita che vince le tenebre della morte, per questo vengono conficcati in esso anche cinque grani d’incenso che rappresentano le cinque piaghe del crocifisso che con la sua morte ha distrutto la morte. Durante la processione d’ingresso del cero pasquale in chiesa abbiamo una catechesi visiva di come Cristo sia “Luce del mondo”: nonostante tutta la ritrosia del mondo ad accoglierlo, pian piano, fiammella per fiammella, attraverso la nostra fede la luce di Cristo si propaga e vince. Inoltre questa processione dietro al cero-Cristo mostra ciò che dirà di lì a poco il solenne canto del Preconio dirà mettendo in collegamento il cero pasquale direttamente con la colonna di fuoco dell’Esodo che guidava il popolo di Israele: così Cristo guida la sua Chiesa che è il nuovo Israele.
Gli antichi rotoli del Preconio, detto anche Laus cerei o Annuncio della Pasqua, erano decorati con i disegni rivolti al contrario rispetto al testo in modo che lo scorrere del rotolo dal pulpito mostrasse ai fedeli le immagini delle parole latine proclamate: una catechesi liturgica ben più efficace del semplice celebrare in italiano senza mai spiegare niente dei riti che si compiono. In una delle tante lodi a questa notte santa il Preconio dice “O notte veramente gloriosa, che ricongiunge la terra al cielo e l’uomo al suo creatore”: la liturgia è davvero il cielo sulla terra!
La lunga Liturgia della Parola composta i nove letture si svolge anch’essa alla luce del cero pasquale perché anche l’Antico Testamento è sempre da leggere sempre in riferimento al cero-Cristo. Il canto festoso del Gloria che conclude questa prima parte della Liturgia della Parola è il secondo annuncio liturgico della risurrezione. La Colletta che parla di “spirito di adozione” e l’epistola esprimono il carattere battesimale di questa veglia. Poi, finalmente, l’Alleluia, il canto tipicamente pasquale, giunge come il terzo e definitivo annuncio della risurrezione del Signore. Nella liturgia episcopale è data molta enfasi al carattere di annuncio dell’Alleluia perché il diacono dice al Vescovo “Reverendissimo Padre, ti annuncio una grande gioia: l’Alleluia”. Come la presentazione della croce nell’azione liturgica della Passione, dovrebbe essere cantata per te volte alzando il tono. Ancora una volta vediamo come la mitezza di Cristo per virtù sua si afferma e regna.
Nell’antichità cristiana la notte di Pasqua era dedicata soprattutto al Battesimo dei nuovi cristiani i quali poi potevano per la prima volta partecipare all’Eucaristia. Era anzi la prima volta che ne vedevano la celebrazione, perché nelle altre domeniche, dopo aver ascoltato con tutti la Liturgia della Parola, i non battezzati erano pregati di uscire dall’assemblea. La Quaresima era valorizzata come tempo propizio per la preparazione dei catecumeni a diventare cristiani, segno di una liturgia vissuta. La Liturgia battesimale di questa santa notte è tutta costruita sul tema del rinnovamento radicale donatoci da Cristo con il Battesimo attraverso le immagini contrapposte di vecchio e nuovo, morire e risorgere, immersione ed emersione. Il suggestivo rito dell’immersione del cero nell’acqua battesimale è immagine di Cristo che feconda con la sua stessa vita la nostra rinascita. A conclusione di questo rito si compiono i Battesimi oppure la memoria di coloro che sono già battezzati con l’aspersione con l’acqua lustrale, termine che significa purificazione.
Infine, ecco finalmente la Liturgia eucaristica che si svolge normalmente ma in modo solenne.
Ovviamente non si possono spiegare tutti i numerosi e complessi riti del Triduo pasquale in un piccolo articolo. Ho cercato di cogliere qualche spunto di catechesi liturgica e di condividere i sentimenti che da sempre queste suggestive celebrazioni mi hanno suggerito al cuore. L’augurio che vi rivolgo è che la liturgia vi conduca per mano a partecipare pienamente, anche con le emozioni, al grande mistero che stiamo per celebrare.