Nella vita di san Filippo Neri c’è un avvenimento che, benché in gran parte avvolto nel mistero («Secretum meum mihi, secretum meum mihi» ripeteva incessantemente Filippo), lascia intravedere le sorgenti della vita del santo.
Solo alla fine dei suoi giorni egli rivelò qualcosa della straordinaria esperienza mistica avuta quando ancora era laico, neppure trentenne, e della quale portò indelebile il segno per sempre.
Al cardinale Federico Borromeo, suo amico e penitente, confidò che supplicava «lo Spirito Santo perché gli desse spirito». «Allora – attesta il Borromeo – mi disse il Padre che sentì questo moto che sempre poi gli è durato». Quale fosse questo “moto”, è riferito da numerosi testimoni oculari: il p. Antonio Gallonio, per esempio, testimonia:«Intesi dire dal p. ms. Filippo, in questa sua ultima malattia che lo congiunse a Christo, che la palpitatione che sentiva, la quale chiamava “infermità sua”, l’haveva portata cinquant’anni. Questa era quello affetto del core che lo faceva esultare in Dio vivo, sì che poteva dire col Profeta: “cor meum et caro mea exultaverunt in Deum vivum”. Questo stesso affetto di core lo rapiva talmente in Dio, che li faceva gridar più volte: “vulneratus charitatis sum ego”. Per questo eccesso di cuore la fiamma et lo spirito de Iddio gli soprabbundava talmente che pareva li volesse uscir fuor del petto, non potendosi contener dentro quei termini che la natura gli haveva prefissi».
La straordinaria effusione di Spirito Santo che gli aveva dilatato il cuore – come poté constatare l’autopsia – fino a staccare alcune costole dallo sterno perché il cuore potesse avere spazio, e che lo aveva infiammato di un tale amore da costringere spesso Filippo a gridare nell’estasi: «Non posso più, mio Dio, non posso più», è stata collocata, sulla base delle scarne confidenze dello stesso Filippo, nell’imminenza della Pentecoste del 1544 (il Concilio di Trento stava per iniziare) e localizzata nelle catacombe di San Sebastiano, le sole allora accessibili, dove Filippo sovente si recava a pregare passandovi, pare, anche qualche notte.
Quel luogo misterioso e solitario gli evocava la storia suggestiva delle prime generazioni cristiane, l’eroica professione della fede, la lunga schiera dei martiri, la Roma sacra di Pietro e di Paolo, imporporata di sangue cristiano: un motivo che rimase in lui sempre vivo e che gli ispirò sentimenti, propositi, indicazioni di vita per sé e per coloro che lo seguivano.
Nel quarto centenario di quello straordinario avvenimento, il venerabile Pio XII, antico chierichetto della “Chiesa Nuova”, scriveva al Preposito dell’Oratorio di Roma: «E’ richiamo e conforto inatteso alla tenera pietà da Noi nutrita fin dall’infanzia per il caro San Filippo Neri la imminente data, quattro volte centenaria, del singolare carisma di carità onde l’Apostolo di Roma fu privilegiato da Dio con la visibile dilatazione del cuore: prodigio nuovo, col quale piacque alla divina Bontà di confermare sensibilmente la santità del Suo servo e in particolar modo il suo impeto di amore per il divin Maestro Gesù, per la sua Madre Maria e per la salute delle anime».
Apostolo di un’evangelizzazione davvero nuova che cambiò il volto spirituale di Roma, impegnato come pochi altri in un’instancabile attività apostolica, Filippo Neri è conosciuto da molti per le sue allegre “bizzarrie”, ma non tutti giungono a cogliere in lui la sorgente profonda che alimentò tutta la sua vita e il suo operare.
Il santo – che il beato Giovanni Paolo II definì “profeta della gioia cristiana” – è uno spirito altamente contemplativo; ed è motivo di stupore che un uomo così pienamente inondato del fervore dello Spirito e spesso rapito in estasi prolungate, fosse anche capace di ogni genere di burle suggeritegli dallo spirito del ragazzo fiorentino che in lui sopravviveva.
La sua esistenza trascorse in un clima di calde amicizie, ma il santo conservò sempre, nelle sue scelte, uno spirito di indipendenza, un amore atavico alla libertà, una costante riluttanza a far parte di qualsiasi costringente struttura. Il gusto della libera solitudine, dell’indipendenza da costrizioni e convenzioni, della gioiosa libertà che la povertà consente, dominarono costantemente il suo comportamento. Amore di libertà e accettazione docile d’un ordine, festosità schietta e amore di solitudine, gusto dell’amicizia e riservatezza delicata, ardore mistico contemplativo e tensione continua all’apostolato: ecco Filippo Neri.
Innamorato della preghiera intima e solitaria, egli visse ed insegnò nell’Oratorio la preghiera più fraternamente comunitaria; fortemente ascetico nella sua penitenza anche corporale, visse ed insegnò l’impegno della mortificazione spirituale, improntata alla gioia e alla serenità del gioco; appassionato lettore di libri – lo testimonia la sua cospicua biblioteca personale – ed interessato alla storia, alla filosofia, alla teologia, alla letteratura ed ai testi di spiritualità, abbandonò da giovane gli studi perché un Crocifisso nell’aula delle lezioni attirava tanto il suo sguardo ed il suo cuore da non consentirgli di seguire i discorsi dei docenti; predicatore instancabile della Parola divina, fu così parco di parole da ridursi addirittura a poche frasi o al silenzio, negli ultimi anni, quando la commozione più non gli permetteva di affrontare, negli incontri dell’Oratorio, un argomento spirituale.
I suoi figli lo amarono intensamente. Una bella lettera di Francesco Maria Tarugi, da lui “pescato” dal mondo dei cortigiani e plasmato in vero discepolo di Cristo, ne è una delle numerose testimonianze. Fu scritta ai confratelli romani da Avignone, quando già il Tarugi, divenuto per ordine espresso del Papa arcivescovo della città, aveva lasciato Roma, dove Padre Filippo lo avrebbe voluto suo successore: «…Anchorchè io sia per tanto spatio di paese assente, io mi vi ritrovo [nella famiglia oratoriana che si stringe intorno a Filippo, e nella “cappelletta di mezza scala”] con la fede et amor verso il mio caro Padre, perché credo haver luogo particolare ne la sua mente […]. Io vorrei farmi la cella nel più intimo del cuor del Padre, perché, credo, vi ritroverei Gesù […] Et quando il Padre giubila, et il cuor gli salta, per soverchio amore, dentro dal petto, iubilerei et salterei ancor io. Et quando si comunica sarei commensale di quel banchetto et sazierei la mia fame. Et quando pone la bocca al calice, mi laverei in quel sangue del quale, però, una gocciola è mia, per giustizia, essendomi stata promessa da Sua Paternità Reverenda. Godetevi cotesta felicità la quale ho potuta io goder per lungo tempo…».
L’Osservatore Romano – 26/05/2013