Libro di don Cantoni getta luce su un dibattito controverso
di Antonio Gaspari
ROMA, sabato, 21 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Il Concilio Vaticano II, considerato a ragione un “evento epocale” per la Chiesa cattolica, è oggetto di un intenso dibattito.
A cinquanta anni dalla sua apertura ci sono persone che lo criticano aspramente, c’è chi lo critica perchè avrebbe interrotto e negato la tradizione, c’è chi lo critica perchè avrebbe impedito nuove e più radicali innovazioni, e c’è chi come il Pontefice Benedetto XVI che ha messo il Concilio Vaticano II al centro della riflessione per l’anno della Fede.
Fin dalla Sua lezione il Pontefice ha manifestato l’intenzione di “affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del Concilio Vaticano II” che ha definito “uno straordinario evento ecclesiale”.
Secondo Benedetto XVI “i documenti conciliari non hanno perso di attualità”, ma anzi si rivelano “particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata”.
In questo contesto si comprende perchè la Nota con Indicazioni Pastorali per l’anno della Fede, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, pone al centro della riflessione proprio il Concilio Vaticano II:
Per cercare di comprendere meglio i vari punti di vista, ZENIT ha intervistato don
Pietro Cantoni, autore del libro Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo, (Sugarco, Milano 2011)
Del Concilio Vaticano II sono molto note soprattutto le posizioni estreme, quelle che il pontefice Benedetto XVI ha indicato come mosse da un «progressismo sbagliato», oppure da un «anti-conciliarismo» radicale. Può illustraci le ragioni di queste due posizioni e perché secondo Lei sono entrambi sbagliate?
Cantoni: Dopo ogni grande concilio c’è sempre un periodo di crisi. È questo uno dei grandi insegnamenti che ci vengono dalla storia della Chiesa. Papa Benedetto XVI, nel famoso discorso tenuto alla curia romana il 22 dicembre 2005, che è un po’ il punto focale del mio libro, prende proprio un esempio dal “postconcilio” del primo concilio ecumenico della Chiesa cattolica, il grande concilio di Nicea del 325. Cita san Basilio che descrive la situazione creatasi come “una battaglia navale nella notte”. Una battaglia dove nessuno dunque vede dove sta l’avversario e dove – nella confusione che ne segue – ci attacca senza criterio. Qui lo sforzo del papa è quello di fare chiarezza; per rimanere nella metafora, di illuminare la battaglia nella notte in modo che gli schieramenti appaiano per quello che veramente sono, cioè appaia chiaro dove sta la verità e dove sta l’errore. Per Benedetto XVI il punto centrale è costituito dall’interpretazione dell’ultimo concilio. Da una parte c’è un’interpretazione errata, secondo cui l’ultima assise conciliare sarebbe paragonabile ad una “costituente”, cioè ad un’assemblea che ha il compito di stilare una nuova carta costituzionale. Ovviamente qui si tratterebbe della Chiesa. Detto al di fuori e al di là di ogni linguaggio “diplomatico”: si tratterebbe del tentativo di rifondare a Chiesa, evidentemente – fa notare il Papa – su altre basi rispetto a quelle poste da nostro Signore Gesù Cristo. Chi poi avrebbe mai dato a codesta costituente il mandato di rifare la costituzione? Certo nessuno ha mai detto a chiare lettere di voler fare una cosa del genere, ma tante espressioni che sono circolate in questo postconcilio e che continuano ancora a circolare conservano questo terribile, velenoso, “sapore”. Si parla e si scrive della “Chiesa del concilio”, spesso contrapposta ad una Chiesa di prima del concilio. Da più parti si è insistito su di una nuova “ecclesiologia”, anzi addirittura si è preteso che, con il concilio, sia nata veramente, per la prima volta, una vera e propria ecclesiologia. Questa operazione ha goduto di una copertura terminologica, in quanto si è insistito sul linguaggio adottato dal magistero, come linguaggio nuovo, “pastorale”, contrapposto a “dogmatico”. Nel mio libro ho raccolto una serie di pronunciamenti del magistero, ininterrotta, dalla fine del concilio fino ai nostri giorni, in cui questi errori sono denunciati e stigmatizzati. Finalmente il papa ha compiuto un passo avanti: li ha per così dire riassunti e ha aiutato a comprendere che in essi sta un problema assolutamente fondamentale per la nuova evangelizzazione. L’intenzione della Chiesa celebrando il concilio ecumenico Vaticano II non fu quello di “cambiare tutto”, di dare origine ad una nuova Chiesa, ma quello molto più modesto, ma nella sua concretezza, molto più vero e quindi influente, di realizzare una “riforma nella continuità”. Tante cose sono cambiate: prima di tutto il linguaggio. Si tratta indubbiamente di una “concilio pastorale”. Ma “pastorale” non va assolutamente inteso come contrapposto a dogmatico. Detto in altri termini: la Chiesa non ha rinunciato ad insegnare e ad insegnare con autorità.
Il Pontefice Benedetto XVI, ha più volte sottolineato che bisogna guardare al Vaticano II secondo i criteri di un “ermeneutica della continuità”.- Che cosa intende dire e perché questo punto di vista sarebbe differente da quello di “rottura”, progressista o tradizionalista?
Cantoni: La “battaglia nella notte” così illuminata, perde i caratteri di terribile confusione e rientra nei connotati, per tanti versi noti e prevedibili, di una nuovo capitolo di storia della Chiesa che – come tutti sanno – conosce sempre la contrapposizione tra verità ed errore, tra ortodossia ed eresia. Dire che quello che è successo al Vaticano II è una riforma nella continuità è fare un’affermazione per tanti versi banale, perché significa affermare che l’evento non esce dagli schemi conosciuti dalla buona teologia cattolica: cioè quelli di cambiamento dogmatico, senza che questo sia un cambiamento sostanziale, cioè una “corruzione”, una “rottura”. Il compito di chiarire in che modo e in che misura ciò sia stato possibile è compito della teologia, quando essa è quello che dovrebbe essere, cioè una riflessione sulla fede non prodotta da chi fa teologia, ma ricevuta dalla Chiesa, il soggetto che sta a monte a tutto questo processo, soggetto nei cui confronti il teologo conserva una sostanziale responsabilità.
Che cosa ha fatto di buono il Concilio Vaticano II?
Cantoni: In un momento della storia in cui pareva che la Chiesa fosse ormai relegata in un angolo, senza più nessuna energia e nessuna possibilità di influire realmente nelle dinamiche della cultura e della vita, Giovanni XXIII ha preso la veramente coraggiosa decisione di indire un concilio e di imprimere a questo concilio un indirizzo ben preciso: riannunciare il Vangelo al mondo. Cambiando se ne necessario il linguaggio, il modo di proporre il messaggio, ma conservando scrupolosamente il messaggio di sempre. Questo è il senso autentico di una parola che è risuonata su mille bocche: “aggiornamento”. Per usare una metafora: si trattava di togliere la polvere che, a causa dell’inevitabile effetto del tempo e anche dell’incuria degli uomini, si era accumulata su un tesoro e che impediva ad esso di brillare in tutta la sua forza e interezza. Si trattò di un atto coraggioso perché “spolverare”, soprattutto quando questo è fatto su materiale delicato, comporta il rischio di rompere… Di compromettere cioè l’integrità di ciò che si vuol rinnovare. Ma la necessità percepita di una “nuova evangelizzazione” premeva alle porte con una urgenza che non poteva essere trascurata. Purtroppo l’operazione provvidenziale avvenne alla vigilia di un sommovimento delle coscienze, della cultura e della vita dell’uomo, di cui facciamo ancora fatica a cogliere la portata: il famoso ’68. Ecco perché ho messo in connessione nel mio libro il discorso del dicembre 2005 con una conversazione che il papa a tenuto a Auronzo di Cadore nel luglio del 2007 dove avanza questa interpretazione della crisi che immediatamente seguì il concilio.
In che modo il beato Giovanni XXIII e Paolo VI riuscirono a superare le grandi difficoltà di quegli anni?
Cantoni: Furono anni difficili, anzi difficilissimi. È difficile dare una risposta esauriente a questa domanda, se non facendo notare l’enorme difficoltà che allora il Papato si è trovato ad affrontare. La sfida era tale da scuotere le fondamenta di tutto l’edificio della Chiesa. Pensare di spiegare tutto sulla base di qualcosa di sbagliato all’interno dei documenti del magistero conciliare, oltre che gravemente erroneo, è – direi – piuttosto ingenuo. Denuncia di non aver capito la portata e la “novità” di quella radicale crisi culturale che è stata (sarei tentato di dire che è) il ’68.
Cosa sarebbe la Chiesa, l’autorità del Pontefice e la Fede, se venissero accettate le tesi di rottura? Che cosa accadrebbe cioè se non fosse vera la tesi della continuità?
Cantoni: Credo che la risposta sia semplice. Se nel concilio – come alcuni vorrebbe dire, altri soltanto “insinuare” – ci fossero delle eresie, la conclusione sarebbe in fondo veramente semplice. Vorrebbe dire che tutti i vescovi, con il Papa in testa, nella loro qualificante maggioranza, hanno firmato un documento eretico, cioè sono diventati eretici. Prevengo subito un’obiezione – che per tanti versi è la “solita” obiezione: ma molti, forse la maggioranza, addirittura la totalità, potrebbero non essersene resi conto… Il problema è che qui quello a cui noi dobbiamo guardare non è l’intenzione soggettiva, che solo Dio conosce fino in fondo, ma quella intenzione percepibile e giudicabile oggettivamente, consegnata in un documento e un documento ufficiale di portata difficilmente sopravvalutabile. Qui, come ho scritto altrove, non ci troveremmo davanti alla medievale “Quaestio de papa haeretico” (questione del papa eretico), ma a una ben più inquietante “Quaestio de magisterio haeretico” (questione del magistero eretico).
Quali fini conta di raggiungere con la pubblicazione di questo libro?
Cantoni: Quello di gettare luce su una questione che è oscura e che molti vogliono mantenere nella sua oscurità. Gettare una luce che non è la mia, ma che è quella che viene dal magistero di chi lo Spirito Santo ha posto alla guida della Chiesa: il Papa.
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