Catechesi liturgica 25 novembre 2012
“Sia dunque che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa,
fate tutto per la gloria di Dio” (1Cor 10,31).
La forma liturgica della vita
di Emanuele Borserini
Fare una catechesi liturgica non è, o meglio, non è più una cosa facile. La difficoltà, ma forse anche la bellezza, della catechesi liturgica è stata ben descritta da un grande teologo del ‘900 che si è occupato in modo molto profondo di liturgia, Romano Guardini. Egli afferma nel libro “Lo spirito della liturgia. I santi segni” che tra la liturgia e altri processi formativi “vi è una differenza simile a quella che passa tra una palestra ginnica dove ogni attrezzo, ogni esercizio è calcolato e l’aperta campagna o la foresta. Là tutto è sviluppo consapevole delle forze, qui tutto è vita naturale, crescita delle intime energie della natura con la natura”. La liturgia è vita. Da questo tutto sommato semplice postulato vorremmo incominciare ad accostarci alle nostre catechesi liturgiche. Una precisazione terminologica va fatta sin d’ora: l’aggettivo liturgica applicato al sostantivo catechesi si può intendere sia in senso oggettivo sia strumentale. È possibile fare una catechesi che ha come oggetto la liturgia per illustrarne i vari aspetti ma anche utilizzare la liturgia per veicolare le altre verità della fede. In realtà i due aspetti non sono in alcun modo in contrapposizione, al contrario, si richiamano a vicenda e sono necessari l’uno all’altro. Possiamo facilmente intuire come non comprendere i segni della liturgia non permetta ad essa nemmeno di essere a sua volta strumento per comprendere la fede; ma anche fare l’errore di non inserirla nel contesto ampio della fede porta all’impossibilità di comprenderla. È un circolo virtuoso che ha, alla fine e al di là di ogni ragionamento che possiamo fare, il solo scopo di aiutarci a conoscere e amare il Signore (cfr. il Principio e fondamento degli Esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola). Conoscere e amare perché la fede cristiana non è, come molti ci vorrebbero far pensare, una serie di dottrine ma un rapporto con una persona, Gesù (cfr. Benedetto XVI, Deus Charitas est 1). Un rapporto dinamico che può crescere ma anche affievolirsi e che come tutti i rapporti umani vive nella necessità della comunicazione, si basa quindi non sulla teoria ma sulla pratica. Ecco perché spesso si parla in modo molto pertinente di “azione liturgica”. La vita non è fatta delle idee ma dai rapporti e dalle azioni. La vita è liturgia. Proviamo a vedere insieme come.
La citazione della lettera ai corinzi che abbiamo scelto come titolo per l’incontro di oggi è presa dal capitolo decimo il quale è sì di stampo morale, contiene infatti molte esortazioni pratiche, ma il discorso di Paolo è ben radicato proprio nella liturgia. Infatti, per giustificare le sue indicazioni egli fa riferimento alla partecipazione all’Eucarestia. E proprio questa compenetrazione tra la morale e la liturgia ci permette di iniziare a porre il nostro discorso. La morale, non è, contrariamente a quanto molti sostengono, una estrinseca imposizione da parte della Chiesa la quale vorrebbe così, dicono loro, controllare la gente, ma è la via proposta a tutti affinché ognuno possa portare a compimento tutta la propria umanità in Cristo. Così la liturgia non è un mondo a sé che ci sta di fronte per opprimerci ma è profondamente rispondente alla nostra natura umana e la porta a compimento. Per questo possiamo dire che l’invito a fare tutto per la gloria di Dio non è soltanto un’esortazione alla preghiera continua ma anzitutto la constatazione che nessun atto umano è posto a caso. Poiché, infatti, la grazia non elimina la natura (non tollit, spiega San Tommaso) ma la porta a compimento (perficit, sempre l’Aquinate), bisogna che anche il dono della preghiera continua si innesti in una natura che sia già in potenza in grado di ricevere tale dono e possieda le strutture per far crescere il seme della grazia. Ebbene, ciò che vorremmo oggi mettere in evidenza è proprio che la natura umana possiede le strutture che le permettono di comprendere e vivere pienamente la liturgia. L’uomo è distinto dall’animale per due caratteristiche: la ritualità e il simbolismo. Detto in termini molto semplici, si tratta di considerare che molti dei nostri comportamenti non sono propriamente utili, ma servono solo a significare qualcosa d’altro. Per vedere quanto questa capacità sia insita e propria dell’uomo basta pensare che anche i regimi che si professavano atei o comunque avversi alla religione non hanno mai potuto eliminare dal loro modo di esprimersi la dimensione liturgica, semplicemente hanno sostituito alcune forme, ma la dinamica è sempre la stessa e ineliminabile. Pensiamo alle processioni con la dea ragione impersonata da una prostituta inscenate durante la Rivoluzione Francese, le parate militari comuniste, la ritualità strutturale della massoneria. Un piccolo inciso che anticipa alcuni temi che tratteremo in seguito si può qui aggiungere per osservare che in realtà queste liturgie civili sempre scimmiottano quelle cristiane, il che la dice lunga anche sulla genuina umanità propria della liturgia cristiana.
Tornando però al nostro argomento, iniziamo a prendere in considerazione la prima delle caratteristiche che distinguono l’uomo dall’animale: la ritualità. Possiamo osservare facilmente come la vita quotidiana sia retta da una serie di regole che ci permettono di non dover inventare continuamente il da farsi in ogni situazione: i saluti, la cortesia in genere, le regole di gioco, l’uso di abiti diversi per le diverse circostanze della vita, il linguaggio stesso che è fatto di una grammatica ma anche di regole non scritte ma chiare a tutti come alzare il tono della voce per porre le domande, le già citate cerimonie civili come le parate militari o una qualsiasi assise ufficiale … A proposito di quanto le cerimonie civili siano strettamente legate all’apertura dell’uomo verso Dio o almeno verso il sacro in generale, pare che la regina Elisabetta II abbia fatto spegnere le telecamere che trasmettevano la cerimonia della sua incoronazione al momento della deposizione della corona sulla sua testa in quanto lo riteneva un momento troppo sacro per essere profanato dalla televisione. Pensiamo anche a come una conversazione con una persona importante oppure una richiesta alla competente autorità si mantenga sempre entro certe forme: tanto più necessita di alcune forme la comunicazione con la persona più importante, il Signore dei signori (cfr. La chiamata del re degli Esercizi spirituali). Possiamo così dare una prima semplice ma veritiera definizione della liturgia come un modo per comunicare. Comunicazione che riguarda Dio. Romano Guardini, proprio a questo proposito descriveva la liturgia in termini di gioco: come i bambini giocando imparano a fare gli adulti, così noi nella liturgia in qualche modo giochiamo e ci prepariamo a quando vedremo Dio faccia a faccia e saremo sempre in comunicazione diretta con lui. Come ci alziamo al mattino, come mangiamo, come ognuno si pone in relazione con gli altri non segue forse delle regole spesso inconsce ma proprio per questo veramente strutturali? Le cose più ovvie della vita non sono le più stupide ma le più necessarie e spesso ci si accorge della loro importanza proprio quando vengono a mancare. L’esistenza delle regole non è dunque una limitazione della libertà come ci fa pensare il solo sentirne parlare a causa di alcuni eventi culturali di cui siamo inevitabilmente figli, al contrario è assolutamente necessaria alla vita stessa in quanto ci permette non solo di vivere bene ma propriamente di vivere. Allora, anche le regole di cui è costituita la liturgia non sono qualcosa di esterno e imposto da un’istituzione senza motivi pratici ma rappresentano proprio l’elevazione a Dio di questa caratteristica peculiare dell’uomo. La colletta del sabato della IV settimana di Quaresima dice “Signore, onnipotente e misericordioso, attira verso di te i nostri cuori poiché senza di te non possiamo piacere a te, sommo bene”; abbiamo questa grande potenzialità ma se non la usiamo per Dio non ci giova a nulla, consapevoli però che anche l’elevazione a Dio non è che dono di Dio stesso. Possiamo dire che facendo liturgia, l’uomo non fa che utilizzare per Dio una caratteristica umana tra le più umane e al contempo una di quelle che più lo dimostrano somigliante a Dio stesso: l’ordine. Il Padre ha creato e disposto tutto in modo perfetto e se ci pensiamo bene noi stessi ricerchiamo continuamente un ordine dentro e attorno a noi, con stili diversi certamente ma nessuno può vivere a lungo nel disordine: si tratta del riflesso nella natura umana dell’ordine divino. Non riusciremo mai a possederlo perfettamente perché ci è stato rovinato da quel disordine primordiale che è il peccato originale, tuttavia come ogni cosa buona non può che venire da Dio e portare a Dio. Non esiste sulla terra la liturgia perfetta (s’intende dal punto di vista formale perché la liturgia della Messa essendo lo stesso sacrificio di Cristo è sì perfetta per quanto riguarda la sostanza) ma tendendo ad essa ci possiamo avvicinare a Dio e questo è certamente uno scopo della stessa e un’altra sua definizione. La questione del peccato originale non ci deve scoraggiare ma al contrario sospingere a vivere ancora meglio la comunicazione con Colui che ha “redento l’uomo innalzandolo oltre l’antico splendore” (colletta del giovedì della IV settimana di Pasqua). In molte chiese si trova la scritta Dilexi decorem domus Domini/tuae presa dal Sal 25,8 perché l’uomo ricerca la bellezza e l’ordine, è assolutamente naturale che gli provochino piacere. Il fatto che il testo latino del salmo usi il perfetto dilexi non credo sia a caso ma è come dire che l’uomo ricerca non un ordine nuovo che deve lui stesso inventare ma, al contrario, egli lo ha già contemplato e apprezzato in Dio e lo riconosce in se stesso ancorché oscurato dal peccato. Possiamo fare anche alcuni esempi di comportamenti che assumiamo nella liturgia ai quali spesso non diamo molta rilevanza ma, come abbiamo detto, nessun atto umano è posto a caso. Pensiamo alle posizioni del corpo: stiamo seduti per ascoltare o guardare (le letture, l’omelia o la processione offertoriale), in piedi per ricevere i comandi (quelli del Vangelo oppure altri come “Andate in pace”, “Scambiatevi un segno di pace”, “Il Signore sia con voi”) e in ginocchio davanti a Gesù sacramentato; anche con il corpo esprimiamo la nostra fede, non solo con le parole (questo sarà l’argomento di uno dei prossimi incontri). Il sacro silenzio è necessario per entrare in sintonia con questo ordine che se è vero che si riflette nel nostro è altrettanto vero che sempre lo supera. Ecco che allora la preparazione e il ringraziamento prima e dopo la Messa non è solo una pia devozione ma si rivela strettamente necessario. Per l’importanza del silenzio si può fare riferimento anche ad alcuni testi del Vangelo: Mt 6,6 in cui Gesù contrappone gli strepiti dei pagani con il raccoglimento del suo discepolo e Mc 1,35 in cui Gesù prega nel deserto. Ma anche alla liturgia stessa: le celebrazioni più importanti e solenni dell’anno liturgico, quelle del Triduo pasquale, in particolare il Venerdì santo che inizia e finisce in silenzio. Il fatto che parlando di comunicazione si sia giunti a concludere sul silenzio credo possa essere utile da meditare in generale per la vita anche al di là del nostro argomento: spesso chiacchieriamo ma comunichiamo molto meno.
Vediamo ora la seconda caratteristica che distingue l’uomo dall’animale: il simbolismo. Tutta la realtà attorno a noi è simbolica, cioè non significa soltanto se stessa ma sempre rimanda a qualcosa di più. Oggi ci risulta difficile comprendere questa caratteristica a causa della cultura in cui viviamo immersi, ma il fatto che si percepisca poco non significa per nulla che sia scomparsa. Anche sulla differenziazione sessuale oggi si vuole discutere e fingere che non esista ma essa non verrà mai meno nella natura umana. L’antichità era permeata da questa mentalità, il Medioevo è il momento in cui essa raggiunge il suo apogeo e senza questa dimensione non esisterebbe nemmeno la letteratura, in particolare la poesia. Abbiamo anche in questo caso molti testi della liturgia stessa e pratiche della Chiesa che attestano come tutte le realtà fisiche non siano soltanto tali ma sempre segno di qualcosa. La colletta del lunedì della II settimana di Quaresima “O Dio che hai ordinato la penitenza del corpo come medicina dell’anima” sarebbe incomprensibile senza questo orizzonte. Il celibato sacerdotale oltre agli aspetti di convenienza pratica è un segno di come tutti saremo nel regno dei cieli in cui non si prenderà più né moglie né marito ma saremo come angeli (Lc 20, Mt 22 e Mc 12). L’abito sacerdotale con tutti i suoi rimandi al di là dell’utilità di una qualsiasi divisa. Il motivo per cui il sacerdote si riveste di abiti particolari quando presiede la liturgia (lo riprenderemo più avanti); in particolare la cotta ci può ricordare quanto detto sopra sulla coincidenza tra l’ordine di Dio e l’ordine che ricerchiamo nella vita e possiamo ritrovare solo in Dio, la preghiera di vestizione ad essa assegnata dice infatti: indue me, Domine, novum nomine qui secundum Deum creatus est … cioè rivestimi di quell’uomo nuovo che è nuovo per me ma in realtà risponde precisamente a ciò che Dio desidera per il mio bene; di più: il fatto che dica “rivestimi” significa che la nostra natura non sarà annientata ma portata a compimento proprio come abbiamo cercato di approfondire prima. Purtroppo, con l’oblio di questa forma mentis è diventata più difficile anche la possibilità di comprendere appieno le potenzialità della liturgia nella nostra comunicazione con Dio, il quale non ci vuole illudere con uno spettacolo ma veramente e sinceramente comunicare se stesso. Il Signore risorgendo ha dato origine a un mondo nuovo, un ordine nuovo che non è in contrasto con il nostro ordine, al contrario lo informa e lo suscita continuamente. Come, del resto, il corpo di Gesù risorto, attesta Gv 10,19, era talmente nuovo rispetto al nostro da poter entrare nel cenacolo a porte chiuse ma non tanto da non poter essere riconosciuto permettendo così ai discepoli di gioire. Se lo riconobbero significa che qualcosa di quel mondo nuovo a cui Egli ormai apparteneva era ad essi connaturale. Lo attestano alcuni testi liturgici: la colletta del martedì prima dell’Epifania che dice “fa che liberati dal contagio dell’antico male, possiamo anche noi far parte della nuova creazione”, cioè c’è qualcosa da lasciare ma la possibilità di accedere alla nuova creazione ci è data veramente e il prefazio del Tempo Ordinario IV che dice appunto “Egli, nascendo da Maria Vergine, ha inaugurato i tempi nuovi; soffrendo la passione, ha distrutto i nostri peccati; risorgendo dai morti, ci ha aperto il passaggio alla vita eterna; salendo a te, Padre, ci ha preparato un posto nel tuo regno”. E noi possiamo tendere al mondo nuovo perché Cristo ce lo ha aperto, non si tratta di una bella immagine ma è qualcosa di misteriosamente reale e operante. La liturgia non è che il mezzo per mettersi in comunicazione con esso. Pensiamo alla rappresentazione di molti santi nelle chiese (le iconostasi delle chiese orientali, le teorie di santi delle chiese bizantine, i soffitti delle chiese barocche): essa ci ricorda che in paradiso saremo in compagnia dei santi e degli angeli e lì, in chiesa, ci possiamo già mettere in sintonia con questa compagnia. Il principe di Kiev, secondo la leggenda, mandò emissari presso vari luoghi di culto per scoprire quale fosse la religione migliore, quando arrivarono a Costantinopoli dissero di non sapere più se si trovavano in cielo o in terra; il principe si convinse allora che quella cristiana fosse la vera religione perché è talmente bella che deve essere vera. Uno degli scopi della liturgia è proprio farci sentire in paradiso perché ci mette in comunicazione con esso e anche le immagini ce lo fanno capire. La scritta di molte chiese terribilis locus iste spesso accompagnata a hic domus Dei est et porta coeli (Gen 28,17) si riferisce al sogno di Giacobbe e viene apposta in chiesa perché quello è un luogo in cui la presenza di Dio si manifesta realmente nella santa Eucarestia nella quale davvero vediamo il Figlio dell’uomo, la vera scala verso il cielo (Gv 1,51). L’incensazione e l’uso del velo sul calice ci ricordano che il profano può e deve da noi essere continuamente innalzato al sacro insieme alle nostre preghiere (si pensi alle preghiere legate alle incensazioni Dirigatur Domine oratio mea sicut incensum in conspectu tuo oppure Incensum istud ascendat ad te Domine et discendat super nos misericordia tua); con l’incarnazione non c’è più alcuna dualità che separa schizofrenicamente l’anima dal corpo, il dentro dal fuori, possiamo osare dire nemmeno il sacro dal profano perché il profano deve essere continuamente innalzato a sacro e tutto va riportato a Dio da cui tutto viene. Poco dopo il suo sogno, Giacobbe si trova a vivere un altro episodio molto famoso della sua vita: la lotta con Dio (Gen 32,23-33). Attraverso le preghiere di vestizione che il sacerdote dovrebbe dire mentre assume i paramenti per la Messa vediamo come questo aspetto della battaglia entra pienamente anche nella liturgia. L’amitto è l’elmo della fede (Ef 6,17), il camice la veste bianca lavata dal sangue dell’agnello (Ap 7,14) che deve essere la nostra vera corazza, il cingolo come ogni cosa che cinge una parte del corpo (anche il colletto e la fascia dell’abito talare) rappresenta la purezza che si custodisce nella castità, il manipolo la ricompensa della fatica perché deriva dal fazzoletto che i romani usavano per detergere il sudore e le lacrime (Sal 125,5-6: “Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo”), la stola è la veste (in latino stola) dell’immortalità (1Cor 15) e il paramento identificativo del ministero ordinato (per cui non hanno capito nulla di tutto ciò i sacerdoti che, magari in buonissima fede, dicono di non usare la stola perché non si vede), la pianeta o la casula (che si equivalgono perfettamente) insistendo sul collo e sulle spalle è il giogo leggero di Gesù (Mt 11,30). Dunque, il prete parato è una catechesi visibile (una catechesi liturgica) della vita cristiana: essa è una lotta contro il male per cui Dio che lo ha già vinto ci ha dato l’elmo della sua grazia, indossata la veste bianca del battesimo, se la conserviamo pura con la penitenza, abbiamo in noi il germe della vita immortale che possiamo portare a compimento assumendo il giogo leggero di Cristo. Con questo buon equipaggiamento possiamo anche noi con il sacerdote salire i gradini dell’altare e presentarci davanti a Dio (si veda anche la descrizione di Ef 6,11-17). La liturgia celebra la vita cristiana e la storia della salvezza che sono una battaglia, per questo è una cosa estremamente virile ma è un argomento di cui si parlerà nei prossimi incontri. La chiesa struttura di mattoni è il tempio in cui Dio abita e la Chiesa popolo di Dio si raduna perché ognuno di noi è tempio dello Spirito Santo (1Cor 6,19) e insieme costruiamo la dimora di Dio (Ef 2): attraverso questa esperienza che la liturgia ci fa fare possiamo approfondire sempre di più che la vita cristiana non ci pone in una specie di schizofrenia per cui tutto ciò che è interiore è buono e ciò che è esteriore è cattivo, l’abbiamo fin ora detto più volte, al contrario c’è un continuo edificarsi a vicenda di dentro e fuori che viceversa può diventare anche un distruggersi a vicenda (con il peccato); ecco l’importanza della liturgia ben fatta anche per la preghiera personale. Il secondo prefazio della messa rituale del matrimonio descrive in linguaggio liturgico una verità attestata a più riprese dalla Sacra Scrittura (cfr. il libro del Cantico dei cantici): il matrimonio è immagine dell’amore di Dio per il suo popolo e dell’amore tra Cristo e la sua Chiesa. La liturgia sin dall’AT è la celebrazione delle grandi opere che Dio ha fatto per il suo popolo di generazione in generazione, di conseguenza, “la famiglia, luogo per eccellenza della generazione è la prima cellula liturgica” (Pont. Cons. per la Famiglia, Dichiarazione “Famiglia e procreazione umana” del 2006).
Il Signore stesso attesta la potenzialità simbolica della realtà in Lc 12,54-57: “Diceva ancora alle folle: Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo?”. I segni ci accompagnano sempre, siamo ipocriti se non riconosciamo che anche la liturgia fa parte di questa realtà. La conclusione di questa lunga rassegna di esempi è semplicemente la seguente: la liturgia non è una cosa lontana da noi ma risponde a una precisa esigenza del tutto umana secondo il progetto di Dio. Lo possiamo solo intuire se rimane a livello razionale ma vivendola in questa ottica abbiamo la possibilità di riceverne sempre più e sempre meglio i benefici e il Signore è lì che aspetta proprio che noi accogliamo le sue grazie.