Catechesi liturgica 17 marzo 2013
“Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito” (Preghiera eucaristica III).
Per uno stile di vita liturgico
di Emanuele Borserini
Introduzione
L’incontro di oggi si pone in diretta continuità con il primo nel quale si era messo in evidenza che, guardando seriamente alla vita umana, le sue strutture portano necessariamente a riconoscere nella liturgia un qualcosa di veramente conforme alla vita stessa. Affinché però questo non resti solo una constatazione di fatto, proviamo ora a trarne le dovute conseguenze facendo il percorso inverso: a partire dalla liturgia, se davvero è così importante come abbiamo visto negli incontri precedenti, vediamo come si può conformare ad essa la nostra vita cristiana. Il principio dell’Incarnazione e l’importanza dei sensi nell’esercizio della conoscenza da parte dell’uomo fanno della liturgia il luogo privilegiato in cui conoscere Cristo e disporsi a seguirlo, a lui con-vertirsi, che letteralmente significa dirigersi verso una precisa direzione, muoversi verso di essa e lasciarsi muovere da essa.
Come sempre, incominciamo a dire qualcosa sul titolo che abbiamo scelto. “Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito”: sono le parole della seconda epiclesi della Preghiera eucaristica III. Per comprenderle bisogna fare una piccola digressione sulla struttura delle preghiere eucaristiche sperando che non sia tediosa. Abbiamo già visto la struttura generale della Messa che è sostanzialmente divisa in una liturgia della parola e una del sacrificio, le quali non sono due mense ma le due forme della stessa e unica mensa imbandita da Cristo davanti ai suoi discepoli prediletti che siamo noi. Egli è la Parola del Padre incarnata e si presenta a noi proprio come parola e come carne per farsi mangiare totalmente da noi e così fare di noi sé stesso vivente nel mondo. Le due parti della Messa rispondono storicamente alle liturgie della sinagoga e del tempio di Gerusalemme, ma più profondamente sono il riflesso della vita terrena del Signore costituita dalla predicazione del Vangelo che si conclude e si invera nel sacrificio della sua vita. La preghiera eucaristica costituisce il centro di tutta la Messa perché essa veramente ripresenta l’unico perfetto sacrificio di Cristo. Il suo centro è dunque l’ “anamnesi”, cioè il momento in cui il sacerdote agendo in persona Christi (nella persona di Cristo) pronuncia le sue stesse parole sul pane e sul vino ed essi, pur conservando gli accidenti cioè l’apparenza di pane e vino, diventano il suo corpo e il suo sangue. Per questo si parla tecnicamente di “transustanziazione”, una parola difficile ma che tutti avete sentito: l’apparenza rimane la stessa ma la sostanza, ciò che quelle cose sono, cambia, tant’è che non parliamo più di pane e vino ma di corpo e sangue, anche se ciò che si presenta agli occhi è pane e vino, non corpo e sangue. Per questo nei più bei canti eucaristici proclamiamo: Visus tactus gustus in te fallitur sed auditu solo tuto creditur (“La vista, il tatto e il gusto qui sbagliano, solo l’udito può credere con certezza”, San Tommaso d’Aquino, Adoro te devote), Prestet fides supplementum sensuum defectui (“La fede sia di sostegno al difetto dei sensi”) e Sola fides sufficit (“Basta la fede”, San Tommaso d’Aquino, Pange lingua). Se quello dell’anamnesi è il momento in cui accade qualcosa, non possiamo dimenticare la condizione fondamentale per cui ciò avviene: l’azione dello Spirito Santo. Come Gesù stesso era sospinto dallo Spirito (cfr Lc 4, 1) così è lo stesso Spirito che lo rende oggi presente per noi. Questa condizione è rappresentata liturgicamente dall’ “epiclesi”, cioè la preghiera presente in tutti i sacramenti con cui si invoca lo Spirito Santo. Egli è la Persona della Trinità che ha il preciso compito di renderci possibile il contatto con Cristo, il quale non è più fisicamente tra noi e così, attraverso Cristo, raggiungere il cuore del Padre (cfr Gv 13; 14; 15; 16). Nel Simbolo di fede la Chiesa è strettamente collegata allo Spirito Santo perché entrambi hanno questo preciso compito. I sacramenti sono l’operare continuo di Cristo vivo attraverso la sua Chiesa, “sacramento universale della salvezza” (LG 48) e ogni sacramento avviene per l’invocazione dello Spirito Santo. Troviamo nelle preghiere eucaristiche sempre una doppia epiclesi: la prima sul pane e sul vino, la seconda sulla comunità celebrante. Questa struttura della liturgia ci dice che la Messa non è un atto privato del sacerdote che offre qualcosa di suo a Dio, fosse anche in nome della comunità, ma un fatto che riguarda tutti e ciò che viene offerto con quei segni è Cristo e con Cristo ognuno di noi. Inoltre, ci dice che lo Spirito Santo è il vero fautore della liturgia e di tutta la vita cristiana, colui che le rende possibili. Senza il dono dello Spirito non ci sarebbe Chiesa, non ci sarebbe liturgia, non ci sarebbe alcuna preghiera e nessuna possibilità di rapporto con Dio: “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (Rm 8, 26).
“Fate questo in memoria di me”
Il Signore ha detto durante l’ultima cena, e noi lo risentiamo in ogni santa Messa: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22, 19). Ma cosa significa? È chiaro che anzitutto egli intendesse la ripetizione liturgica, nel senso di continuare a ripetere questo stesso gesto. Ma sappiamo che la potenza della liturgia è la potenza del simbolo stesso, per cui ogni gesto e ogni parola vanno sempre al di là della loro apparenza. Allora, rispondere al comando del Signore significa fare anche ciò che nel gesto è simboleggiato, anticipato, fatto già realtà, cioè l’offerta della sua vita al Padre. Possiamo così passare, in perfetta continuità, dall’offerta liturgica a quella della vita intera. Quella del cristiano non è un’offerta in un modo indeterminato, non si spende la vita per qualcuno o per il bene comune (che già sarebbe molto), ma la si offre al Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. “Fate questo in memoria di me” ci dice anche che l’offerta liturgica è primaria e, di conseguenza, è primario il soggetto dell’offerta liturgica che è Cristo Gesù: solo in lui con lui e per lui anche noi possiamo fare l’offerta della nostra vita, nella liturgia anzitutto e poi continuando la liturgia in ogni istante della vita stessa. Esattamente come per primo ha fatto lui. Come il grande attore si identifica con il personaggio che interpreta, così nella Messa il Signore si vuole identificare con ognuno di noi e se lui ha dato la vita per noi così noi la dobbiamo dare a lui per gli altri.
Se dunque non ci uniamo a quel sacrificio, esso per noi non vale a nulla. Significherebbe sprecare il preziosissimo sangue di Gesù con cui siamo stati rendenti, perché “voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia” (1Pt 1, 18-19). La vita cristiana è una liturgia perché non è altro che fare ciò che ha fatto Gesù: “Vi ho dato l’esempio perché come ho fatto io facciate anche voi” (Gv 13, 15). Come lui si è sacrificato per noi anche noi dopo aver celebrato questo sacrificio non possiamo che fare lo stesso. La vita cristiana è una liturgia continua, una preghiera continua. Proprio come fu quella del Signore che i vangeli ci presentano spesso in preghiera anche di notte, in particolare quello di Luca sembra divertirsi a sottolineare come il suo rapporto continuo con il Padre gli permettesse di dormire durante la tempesta quando tutti sono in preda al panico (cfr Lc 8, 23) e pregare di notte quando tutti dormono (cfr Lc 6, 12). Del resto, la notte è il momento in cui sopraggiungono le tenebre simbolo del male ma è anche il momento della solitudine e della tranquillità: a noi scegliere quale qualifica assegnarle nella nostra vita. Interessante è il passo di Lc 6, 12: “In quei giorni Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione”; che in latino suona in modo molto più eloquente: Et erat pernoctans in oratione Dei. Forzando forse un po’ il testo ma l’assonanza non si può non vedere, possiamo dire che Gesù “pernottava” cioè trovava il suo luogo di riposo proprio nella preghiera. E la Liturgia delle Ore avalla questa caratteristica liturgica della notte ponendoci sulle labbra nella Compieta, cioè l’ultima preghiera prima del sonno, le parole di Gesù sulla croce, le parole dell’offerta totale della sua vita, la consumazione finale della sua liturgia: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23, 46). Per fuggire le tenebre del male non possiamo farcela da soli, l’unica possibilità è il totale affidamento a Dio, uscire da noi stessi e protenderci verso di Lui, questo è anche il senso letterale dell’adorazione. L’affidamento a Dio è un atto veramente liturgico che ha la sua condizione di possibilità nella celebrazione liturgica.
Romano Guardini molti anni fa tenne un intervento volutamente provocatorio in cui si poneva delle serie domande sulla possibilità stessa di fare liturgia nel nostro tempo. Egli diceva: “L’atto liturgico, e con esso tutto ciò che va sotto il nome di liturgia, non è così fortemente legato al contesto storico, antico o medievale o barocco, per cui sarebbe più onesto rinunciarvi completamente? Non sarebbe meglio ammettere che l’uomo di questa era industriale e scientifica, con la sua nuova struttura sociologica, non è più capace di atto liturgico?”. Il problema si pone perché la preghiera comunitaria della Chiesa è cosa ben diversa dalla preghiera privata di individui credenti, l’atto liturgico comporta un nuovo genere di coscienza, una disponibilità verso Dio, una consapevolezza intima dell’unità di tutta la persona, corpo e anima, con il corpo spirituale della Chiesa presente in cielo e in terra. Comporta pure il riconoscimento che i sacri segni e le azioni della Messa – stare in piedi, in ginocchio, cantare – sono in sé preghiera. Lo spirito del mondo moderno sta minando le basi che rendono possibile questa coscienza liturgica. E anche noi siamo sempre in qualche misura prodotti della nostra cultura. Le nostre strutture concettuali, le nostre percezioni della realtà, sono formate dalla cultura nella quale viviamo, che ci piaccia o no. Come fare allora ad uscirne? Ad affermare ancora la possibilità attuale della liturgia?
“Per Cristo, con Cristo e in Cristo”
Diamo uno sguardo a un testo liturgico importantissimo che sentiamo in ogni Messa: la dossologia che conclude la preghiera eucaristica. Dossologia deriva da doxa che in greco significa gloria. È dunque una preghiera che vuole proclamare la gloria del Signore, dare a lui gloria: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unita dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”. Per ipsum significa per mezzo di Gesù, cum ipso significa vivere in compagnia di Gesù, in ipso significa essere una cosa sola con lui, uno nell’altro anche con i fratelli. La dossologia esprime il fine della Messa, di tutto il creato e di tutta la vita: onore e gloria al Padre nell’unità dello Spirito e per la mediazione di Cristo. Spiegando il famoso detto “la gloria di Dio è l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo è vedere Dio” (Sant’Ireneo, Adversus haereses IV), Joseph Ratzinger, in “Introduzione allo spirito della liturgia”, dice che parte irrinunciabile della retta adorazione è vivere secondo la volontà di Dio. La vita diventa vera solo se riceve la sua forma dallo sguardo rivolto a Dio. Dobbiamo essere come i profeti dell’Antico Testamento la cui missione era propriamente quella di guardare alla realtà con lo stesso sguardo di Dio e per questo conducevano una vita tutta simbolica, quindi liturgica. Ricordando una bella omelia di un santo sacerdote per la festa dell’Assunta di qualche anno fa, penso che le nostre chiese ci offrano un modo interessante di sperimentare questa conversione dello sguardo. Diceva che noi cristiani siamo troppo abituati a guardare in basso, al massimo riusciamo a guardare all’altezza dei nostri occhi dove sono appesi i quadri della Via crucis, invece un cristiano dovrebbe guardare in alto dove c’è la cupola che rappresenta la gloria dell’Assunta, o in generale scene di Paradiso. Il culto serve a questo: a consentire tale sguardo e a donare così quella vita che diventa gloria per Dio. “La gloria di Dio è l’uomo vivente” e la liturgia è il momento in cui la possibilità di essere tale gloria diventa visibile e reale, essa prepara e accoglie tutto ciò che della nostra vita dà gloria a Dio.
“Per Cristo, con Cristo e in Cristo”: la forma della rivelazione del mistero di Dio stabilisce anche la forma della sua celebrazione che di conseguenza deve essere conforme non solo al contenuto ma anche al modo con il quale il mistero di Dio si è rivelato agli uomini. E Dio ci parla “per mezzo del Figlio” (Eb 1, 2). Dobbiamo quindi partire dalla consapevolezza che “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1, 18). Non ci è data altra via all’infuori di Gesù per dialogare con Dio: tutto si svolge per lui, con lui e in lui. La vita di grazia dipende totalmente dal Signore, con i nostri sforzi non potremmo raggiungere nemmeno il minimo grado di grazia perché “senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 5). Il Signore però non ci fa mancare questa grazia, egli l’ha meritata per tutti e a tutti la vuol donare largamente. Sta a noi chiederla. A molti santi il Signore stesso o la Madonna hanno mostrato in varie forme la quantità impressionante di grazie che Dio vorrebbe donare ma che nessuno gli chiede. La mediazione di Cristo è universale e oggettivamente efficace, Dio vuole che tutti siano salvi (cfr 1Tim 2, 4), ma soggettivamente noi la possiamo anche rifiutare. La colletta dell’Ascensione dice: “Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria”. La natura umana è stata portata da Gesù al Padre quindi Gesù ci ha aperto la strada per raggiungere pienamente il Padre e tutto ciò che facciamo per raggiungerlo con la preghiera e definitivamente con l’anima e il corpo è imprescindibile da Gesù. Ecco qui una prima risposta alle domande di Guardini riguardo l’irrinunciabile legame dei riti con i tempi in cui sono stati fissati. Gli influssi culturali e storici nei nostri riti non sono estrinseci ma assolutamente coerenti con essi perché Dio ha creato tutto in funzione di Cristo (cfr Col 1, 16) e la realtà tutta è o può diventare simbolo di Cristo. Gli ebrei uscirono dall’Egitto portando via le ricchezze di quel paese (cfr Es 3, 21-22), così la Chiesa esce dal paganesimo che la circonda portandone via le ricchezze. È la dottrina patristica e ribadita dal Concilio Vaticano II dei semina Verbi. I Padri della Chiesa hanno insistito molto sulla convergenza di tutto il creato verso il sacrificio di Cristo dicendo addirittura che Gesù non ha preso pane e vino perché li aveva a disposizione facilmente ma, al contrario, Dio li aveva creati proprio in vista dell’Eucarestia. Dunque, per la sua posizione nella creazione (cfr Gen 1, 27-28) l’uomo può offrirla tutta a Dio. Può fare un’offerta cosmica attraverso il poco che usa della creazione perché la liturgia è essa stessa cosmica. L’uomo è il luogotenente di Dio sulla terra, l’unico essere vivente che ha un rapporto diretto e cosciente con Dio, è l’apice e il capolavoro della creazione e per questo la rappresenta davanti a Dio e gliela porge tutta in offerta. Un’espressione tanto cara a don Divo Barsotti per descrivere la preghiera era: “assumere tutto”. Cioè accogliere tutto ciò che è creato e ciò sgorga dal cuore dell’uomo per portarlo a Cristo. Si tratta anzitutto di conoscerlo, poi amare ciò che si è conosciuto, offrirlo al Padre e, infine, chiedergli che in me anche si salvi. Significa abbracciare tutto e portarlo a Dio come Cristo sulla croce ha abbracciato tutto. Possiamo così sottrarre il mondo al dominio del diavolo sotto cui è caduto in seguito al peccato originale e riportarlo a Dio. Possiamo realmente collaborazione all’opera di santificazione che è propria dello Spirito Santo. Del resto, se davvero la liturgia è qualcosa di connaturale all’uomo, egli non può farne a meno e deve avere un oggetto a cui sia diretta la sua adorazione: se questo oggetto non è l’unico vero Dio, esso è il diavolo che gli si manifesta in innumerevoli forme. Le più comuni sono quelle identificate dalle famose tre “s”: soldi, sesso, successo; quindi il culto per la ricchezza fine a sé stessa, il desiderio incontenibile di dominio e l’idolo di sé stessi. Lo ha ricordato anche papa Francesco nella sua primissima omelia da Pontefice: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo” (Omelia della Messa con i Cardinali elettori, 15 marzo 2013). Questa verità è patrimonio del cristianesimo il quale però sempre l’ha vissuta in modo sereno e propositivo tanto che “la cultura atea dell’Occidente moderno vive ancora grazie alla libertà dalla paura dei demòni portata dal cristianesimo” (J. Ratzinger e V. Messori, “Rapporto sulla fede”, Paoline, Cinisello Balsamo 1985).
“L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”
In sostanza, siamo chiamati a diventare il sacrificio che celebriamo. Non siamo chiamati a fare cose diverse ma a farle in modo diverso. Santificare tutto significa offrire la realtà concreta e tangibile a Colui che è il “Tre volte santo” cioè l’assolutamente trascendente, Altro, ma per questo più vero dello sperimentabile, più concreto del visibile, “più intimo a me di me stesso” (Sant’Agostino, Confessiones): “Beati coloro che senza avere visto crederanno” (Gv 20, 29). Ciò esige che si abbiano spazi e pause durante la celebrazione per raccogliere le nostre emozioni e pensieri e fare un atto consapevole di offerta di sé. Dobbiamo innalzare i nostri cuori, come diciamo di voler fare nel prefazio, e metterli con umiltà sull’altare insieme al pane e al vino. Un momento privilegiato per farlo è rappresentato da un gesto quasi segreto della Messa ma importantissimo: l’infusione di alcune gocce d’acqua nel calice con il vino durante l’Offertorio. La preghiera che accompagna questo gesto dice: “L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”. Ecco lo scopo dell’Incarnazione: il Verbo di Dio ha assunto la nostra natura perché noi diventassimo partecipi della sua natura divina: “Voi siete dèi” (Sal 82, 6). La proposta del serpente ai progenitori non era follia, altrimenti non vi sarebbero cascati così facilmente (cfr Gen 3). Possiamo davvero essere “come Dio” ma solo lui può farci questo dono. Anche alcune delle orazioni sulle offerte lo ricordano e lo chiedono. Per esempio quella del Martedì santo: “Accetta con bontà, Signore, l’offerta dei tuoi fedeli: tu che ci rendi partecipi di questi santi doni, fa’ che giungiamo a possederli pienamente nel tuo regno”. Oppure quella della XII Domenica del Tempo Ordinario: “Accogli, Signore, la nostra offerta: questo sacrificio di espiazione e di lode ci purifichi e ci rinnovi, perché tutta la nostra vita sia bene accetta alla tua volontà”. Non ha dunque alcun senso portare all’altare durante la processione offertoriale nulla di più del necessario per il sacrificio: in esso c’è già tutto e se non ci fosse tutto sarebbe inutile stare lì in chiesa a perdere del tempo. In quei doni ci deve essere la nostra offerta, non dobbiamo ritenere di dover aggiungere alcunché.
Alle due epiclesi che abbiamo visto nell’introduzione corrispondono due offertori. Il primo, quello che comunemente siamo abituati a chiamare così, riguarda l’offerta della materia del sacramento, il pane e il vino “perché diventino il corpo e il sangue di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, che ci ha comandato di celebrare questi misteri” (Preghiera eucaristica III). Il secondo è l’offerta di Colui che in quei doni era significato ed ora è presente ed è la vera unica offerta gradita a Dio, cioè il suo Figlio unigenito dicendo “guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione” (Preghiera eucaristica III). In mezzo c’è stata la consacrazione. Louis Bouyer lo spiega in questi termini: “L’offertorio è tutto il vecchio testamento quando si offrivano a Dio povere realtà indegne. La consacrazione è la vita di Gesù che svuota i sacrifici antichi e si fa lui realtà degna del vero e unico sacrificio. La comunione è tutto il nuovo testamento in cui Gesù è sempre con noi” (Le Mystère et le monde). Meravigliose sono le parole che il Canone Romano usa in questo secondo offertorio: “Ti supplichiamo, Dio onnipotente: fa che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull’altare del cielo davanti alla tua maestà divina, perché su tutti noi che partecipiamo di questo altare, comunicando al santo mistero del corpo e sangue del tuo Figlio, scenda la pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo” (Preghiera eucaristica I). L’identificazione tra l’offerta del pane e del vino e quella del Figlio è fortissima soprattutto se consideriamo che nel linguaggio giudeo cristiano dell’ambiente in cui ha avuto origine il Canone l’angelo è un modo di definire Gesù stesso. Egli con le sue mani presenta la nostra offerta al Padre, la assume e la rende a lui gradita. Su questo doppio binario si costruisce e vive l’intera liturgia: la realtà tangibile che è segno e veicolo della realtà vera, la quale non è di questo mondo ma ci raggiunge attraverso di esso.
Il Concilio Vaticano II insegna che tutte le nostre attività “sono offerte spirituali gradite a Dio attraverso Gesù Cristo; nella celebrazione dell’Eucaristia sono in tutta pietà presentate al Padre insieme all’oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, in quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo stesso” (LG 34). Tutto quello che facciamo, nella liturgia e nella nostra vita nel mondo, è al servizio della consacrazione del mondo a Dio. Testimoniare Cristo davanti al mondo significa “cristificare” la realtà che è un’operazione maieutica, consiste cioè nel tirar fuori l’immagine di Cristo che già c’è nelle persone e nelle cose in quanto “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16). La nostra testimonianza si espleta nell’evangelizzazione, la “nuova evangelizzazione”, che non è soltanto annunciare a parole ma testimoniare con tutto noi stessi di aver incontrato il Signore come gli apostoli. Per esempio Andrea di cui dice il Vangelo che “incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: Abbiamo trovato il Messia che significa il Cristo e lo condusse da Gesù” (Gv 11, 41, 42) . Per San Paolo il vero culto della nuova alleanza è l’annuncio stesso del Vangelo per questo parla di loghikè latreia (Rm 12, 1) e si presenta anzitutto come ministro della parola facendo di questo il suo “vanto” (cfr Rm 15, 16-17). Del resto, è chiaro dai vangeli che il ministero di Gesù è l’annuncio del Regno di Dio, in parole e in opere. Pensiamo alla struttura dell’ambone delle antiche basiliche come San Clemente a Roma in cui il Vangelo viene proclamato a sud dove il sole-Cristo è al suo apice e verso nord dove non è ancora giunto e sono le tenebre. La nostra fede è rapporto d’amore con una Persona e bonum diffudivum sui, si vuole espandere, a noi non resta che seguire questo moto dello Spirito santo.
C’è un punto in cui tutto questo si unisce: l’offerta della vita in modo perfetto perché scelta libera e volontaria si ha ovviamente con il martirio. Tuttavia, c’è una possibilità di compiere una vera offerta anche per chi non è chiamato a questo grado di testimonianza: l’offerta consapevole della propria vita nel momento della morte. Per giungere però a questa perseveranza finale è di norma necessario, salvo il caso di una grazia speciale, fare ogni giorno l’offerta della propria vita in unione a quella di Cristo in “sacrificio spirituale” (Rm 12, 1): il vero sacrificio di Gesù si è compiuto nel suo cuore ed è perfetto perché egli è insieme “altare, vittima e sacerdote” (Prefazio pasquale V) così anche noi uniti a lui possiamo diventare il sacrificio perfetto gradito a Dio come fu gradito quello di Gesù e, in segno di prefigurazione, “come hai voluto accettare i doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote” (Preghiera eucaristica I). In particolare la sofferenza se unita a quella di Cristo può diventare davvero salvifica, c’è un grande mistero di salvezza nel portare la croce insieme a Cristo. Del resto nessuno la può fuggire la croce, ma la può portare da solo o con Gesù, soffrire da solo o soffrire con Gesù, marcire da solo o portare frutto con il Signore come il chicco di grano (cfr Gv 12, 24). Il momento in cui questa offerta può essere fatta è il momento in cui la Chiesa offre al Padre il corpo di Gesù cioè la già vista seconda epiclesi, quindi ogni santa Messa. E da lì, in ogni momento della vita si può portare questo atteggiamento: “uno spirito contrito è sacrificio a Dio” (Sal 50). Ecco allora l’importanza del corpo nella liturgia perché ciò che si offre non è vagamente un bel pensiero astratto che poi non ci tocca più ma la vita e la vita è tutto per noi, anche la vita fisica se Dio la volesse. Ecco perché l’unica vera antropologia è quella cristiana che riconosce tutta l’importanza al corpo nel quale si riflette davvero l’immagine di Dio: gli angeli ci invidiano perché con il corpo possiamo avere in cibo l’Eucarestia. E abbiamo visto abbondantemente quanto l’uso del corpo e dei sensi nella liturgia sia fondamentale.
“Pregate, fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente”
Tutto ciò è ben fondato anche teologicamente su quello che viene chiamato “sacerdozio comune” di tutti i battezzati, il quale consiste proprio nell’abilitazione ad offrire un vero sacrificio in unione all’offerta del sacrificio perfetto di Cristo per le mani del sacerdozio ordinato. Tutti siamo chiamati ad essere alter Christus non solo il sacerdote celebrante. Dice la traccia per l’omelia proposta dal rito dell’Ordinazione sacerdotale: “Mediante il vostro ministero il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto perché congiunto al sacrificio di Cristo, che per le vostre mani in nome di tutta la Chiesa viene offerto in modo incruento sull’altare nella celebrazione dei santi misteri” (Pontificale Romano, “Rito dell’Ordinazione dei presbiteri”). Nel popolo di Dio, cioè la Chiesa, c’è una radicale uguaglianza di tutti i suoi membri che precede tutte le differenziazioni anche sacramentali, esso è un popolo tutto di consacrati in virtù del battesimo (LG 9). Il rapporto tra sacerdozio battesimale e ministeriale è descritto dal saluto liturgico: “Il Signore sia con voi. E con il tuo spirito”. Non si tratta di un augurio generico all’anima del prete ma si riferisce allo spirito della sua ordinazione sacerdotale. Con esso il sacerdote augura all’assemblea di diventare veramente il corpo di Cristo ed essa gli risponde che non lo può essere senza il suo sacerdozio ordinato. Il frutto di questo augurio è l’unità che la preghiera eucaristica chiede allo Spirito Santo nella seconda epiclesi sull’assemblea (“ci riunisca in un solo corpo”). Uniti tra di noi e a Cristo possiamo nello Spirito Santo raggiungere il cuore del Padre che ci attende. Questa è la comunione a cui tendiamo. Tutte le attività di comunione svolte nella Chiesa sono al servizio della comunione eucaristica che è il momento di comunione più alto perché datoci da Gesù stesso: “l’Eucarestia è la catena d’oro che ci lega insieme e riporta i molti verso l’unità da cui abbiamo avuto origine: il Padre è uno, da cui, come sorgente, nasce il Figlio e dai due procede lo Spirito Santo” (Sant’Alberto Magno, “Trattato sull’Eucarestia”). Siamo riammessi così alla comunione trinitaria da cui veniamo e alla cui immagine siamo strutturalmente stati creati. Se vogliamo vedere la Chiesa dobbiamo accedere all’Eucarestia e per avere l’Eucarestia la Chiesa ha necessità del sacerdozio ministeriale per volere del Signore stesso.
La liturgia della vita è dunque offrire tutto al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo ma per avere Dio come Padre sono necessarie due cose: la Chiesa per Madre e, di conseguenza, i fratelli. Tutti possiamo essere “corredentori” per noi e per gli altri completando “nella mia carne le sofferenze di Cristo” (Col 1, 24) perché “le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura” (Rm 8, 18). Dice l’orazione sulle offerte della XXIV Domenica del Tempo Ordinario: “Accogli con bontà, Signore, i doni e le preghiere del tuo popolo e ciò che ognuno offre in tuo onore giovi alla salvezza di tutti”. In un dialogo di Mosè con Dio, il libro dell’Esodo ci presenta un interessante gioco di parole. Il Signore si rivolge a Mosè per avvisarlo del peccato di idolatria del popolo dicendo: “Va’, scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto, si è pervertito” (Es 32, 7). In seguito Mosè supplicando il Signore per il popolo dice: “Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente? ” (Es 32, 11). Allora, di chi è questo popolo? E chi lo conduce alla salvezza? Il popolo è evidentemente di Dio, ma egli stesso vuole che noi amiamo il popolo nel quale viviamo e la missione che ci affida è proprio quella di amarlo come se fosse nostro. Si tratta di amare la Chiesa, sentirla nostra, sentire un senso di appartenenza ad essa e di responsabilità verso tutti i suoi membri. Quella con cui veniamo ogni giorno in contatto è l’umanità che il Signore ci affida. Davanti alla sofferenza e agli orrori del mondo molti chiedono: ma cosa fa Dio per queste persone? E la sua risposta è semplice: ho creato te! Altrimenti essere cristiano diventa solo identità sociologica di cui possiamo volentieri fare a meno. È un pensiero affascinante ma solo finché resta tale perché la realtà è che non tutti quelli che incontriamo sono sempre bravi, buoni e simpatici. Ciò che fa la differenza è allora l’amore, entrare nel cuore di Dio perché “Dio è amore” (1Gv 4, 8). Chi entra nel cuore di Cristo ha incominciato ad apprendere la lezione dell’amore. Sì, diciamo “incominciato” perché lungo tutta la vita siamo in formazione, in cammino di costante apprendimento, non finiremo mai di apprendere ad amare. Sarebbe, al contrario, superbia e quindi non-amore credere di essere già perfetti in esso. Nemmeno nell’infinito dove il Signore ci attende finiremo di imparare, anche lì continueremo a stupirci dell’infinito suo amore, dell’infinita fantasia con cui ci ama. L’amore trasforma il modo di vedere gli altri ma perché ciò avvenga dobbiamo accogliere Cristo nella nostra vita e lasciare che lui ci accolga nella sua perché non è possibile accoglierlo se prima non ci lasciamo accogliere. Infatti, poiché nemo dat quod non habet, per donare amore l’uomo deve riceverlo accostandosi alla sua fonte (cfr Deus caritas est 7) e questo avviene propriamente nella liturgia, la quale abbiamo visto anche attraverso le sue regole ci permette di comunicare con Dio, fonte dell’amore perché è Egli stesso amore. Potremo noi dire “Di tutti quelli che mi hai dato nessuno si è perduto” (Gv 17,12)? Gli altri sono Cristo per me e io sono Cristo per loro. La colletta del sabato della I settimana di Quaresima unisce mirabilmente liturgia e carità: “O Dio, Padre di eterna misericordia, fa’ che si convertano a te i nostri cuori, perché nella ricerca dell’unico bene necessario e nelle opere di carità fraterna siamo sempre consacrati alla tua lode”.
Conclusione
Per concludere, val la pena di leggere le preghiere liturgiche della II Domenica di Avvento che costituiscono un bel programma di vita cristiana. La colletta: “Dio grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il tuo Figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi alla comunione con Cristo, nostro Salvatore”. L’orazione sulle offerte: “Ti siano, gradite, Signore, le nostre umili offerte e preghiere; all’estrema povertà dei nostri meriti supplisca l’aiuto della tua misericordia”. Il postcommunio: “O Dio, che in questo sacramento ci hai nutriti con il pane della vita, insegnaci a valutare con i sapienza i beni della terra, nella continua ricerca dei beni del cielo”.
Il Vescovo mons. Charles Chaput in un suo intervento tenuto all’Istituto Liturgico dell’Università di St. Mary of the Lake, a Chicago ha tentato di dare una risposta alla sfida di Guardini cui abbiamo accennato sopra ed è pervenuto a questa conclusione: “Voi siete la risposta alla sua sfida. L’atto liturgico diventa possibile per l’uomo d’oggi quando fate della vostra vita una liturgia, quando la vivete liturgicamente, un’offerta a Dio nel ringraziamento e nella lode per i suoi doni e per la salvezza. Voi siete il futuro del rinnovamento liturgico. L’atto liturgico diventa possibile per l’uomo d’oggi quando considerate la vostra vita e il vostro lavoro nella luce del progetto di Dio sul mondo, alla luce della sua volontà che tutti gli uomini e le donne si salvino e giungano alla conoscenza della verità. Il mistero che celebriamo con gli angeli e i santi deve radicarsi profondamente nella nostra vita e personalità, deve portare frutto. Ciascuno di noi deve dare il proprio unico contributo al misericordioso disegno di Dio, cioè che tutta la creazione diventi adorazione e sacrificio a lode della sua gloria”.
Possiamo dunque concludere con una delle formule per il saluto di congedo della Messa proposte dal Messale Romano: “Glorificate il Signore con la vostra vita. Andate in pace”.