Relazione di don Pietro Cantoni al convegno
Il ritorno degli angeli oggi. Tra devozione e mistificazione
1-2 giugno 2006, Abbazia di Santa Maria Nova, Campagna (SA)
Fino a qualche tempo fa si poteva parlare di una situazione di crisi della credenza negli angeli e quindi anche della riflessione teologica su di loro, cioè dell’ “angelologia”. Oggi il panorama è assai cambiato. Gli angeli sono anzi diventati il simbolo e il sintomo del mutamento di clima culturale (ma anche questo appartiene ad una funzione che è a loro connaturale…). Una delle opere più famose che fa stato – dal punto di vista della sociologia della religione – di questo fatto, si intitola, emblematicamente, “Il brusio degli angeli” [1]. Qui l’angelo infatti si presenta per quello che è: il guardiano della soglia, l’intermediario tra due mondi, quello visibile e quello invisibile. E ciò accade anche quando non si crede (erroneamente) ad una sua effettiva, reale e personale esistenza e lo si ritiene semplicemente un archetipo mentale, un genere letterario o quant’altro… In questo senso veramente “angelo necessario” [2].
I problemi per il credente (e, a maggior ragione, per il non credente) sono due: ci sono, cioè “esistono”, non solo come vaghi simboli e miti, ma come persone reali anche se non fisicamente percepibili? E, se ci sono, a che cosa servono? Cioè: che cosa cambia nella mia vita se credo all’esistenza degli angeli? Io inizierei dal secondo dei quesiti. Siamo infatti abituati a impostare così i problemi da una certa mentalità. Ci interessa ciò che serve. Siamo portati a giudicare tutto dal punto di vista dell’utile e dell’utile immediato.
Incomincio da qui, ma per contestare questo punto di partenza e proprio per questo l’angelo mi viene in soccorso. Con i problemi della fede (e non solo con quelli…) dobbiamo rovesciare il discorso. Non ci credo perché serve, ma certamente serve perché ci credo. Dio non rivela cose inutili. In effetti il mistero di Dio e della sua provvidenza appare in ben altra prospettiva se lo vedo circondato dalle schiere degli angeli adoratori e messaggeri. Così come il mistero del male acquisisce spessore e profondità nuove se ammetto che la sua “centrale” si situa in una dimensione “altra” rispetto a quella soltanto umana. Ma è l’uomo soprattutto, la sua natura, la sua posizione e il suo compito nell’universo, che risultano singolarmente illuminati una volta che li si comprende come strutturalmente inseriti in una tale misteriosa compagnia. L’angelo, anche in questa prospettiva, è sintomatico: è il testimone e il custode di quelle attività della creatura intelligente – quindi anche dell’uomo – che nell’insieme di tutte le prestazioni straordinariamente efficaci e redditizie di cui l’ingegno è capace, appaiono come assolutamente in-utili, tali da non servire propriamente a nulla: la contemplazione e l’adorazione… Ad un’esistenza che si dispiega nel tempo e che con il tempo tende ad identificarsi, esse paiono di primo acchito come una colpevole perdita di questo stesso tempo, quindi della propria vita. Ma il tempo vissuto così è in realtà sonno e l’angelo che sovrasta il tempo e lo avvolge con la sua cura amante è la creatura che per eccellenza veglia, il “vigilante” [3].
In uno dei più famoso testi angelologici dell’Antico Testamento, Is 6,1-4, i ” serafini [seraphîm]” dalle sei ali non fanno che lodare Dio proclamando l’uno all’altro “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria”… È questa la fonte del Trisághion, il canto con cui si apre l’anafora della liturgia cristiana (nella liturgia romana è il Praefatio che introduce al Canone o Prex eucharistica), la preghiera di lode e di rendimento di grazie che costituisce il culmine del culto eucaristico e quindi di tutto il culto cristiano. È una costante in tutti i riti liturgici.
Gesù per affermare e rivendicare la grandiosa dignità dell’uomo che deve essere rispettata anche quando è bambino – quindi immagine vivente di fragilità e impotenza – ricorre proprio a ciò che il suo angelo compie di più significativo: egli ha lo sguardo fisso sul volto di Dio… “ Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli ” (Mt 18,10).
San Giovanni Crisostomo ritiene addirittura che gli angeli si differenzino tra di loro sulla base della lode che cantano e quelli del Trisághion sarebbero i più elevati in grado rispetto agli angeli inferiori del Gloria in excelsis [4].
Erik Peterson ci ha donato uno studio profondo, con la ricchezza e ampiezza di documentazione che contraddistinguono la sua teologia, dove gli angeli sono considerati come i modelli della lode e i nostri co-liturghi nel culto eucaristico. Egli attira soprattutto l’attenzione su un passo della Lettera agli Ebrei: “Voi vi siete […] accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione, al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele ” (Eb 12,22-24), e commenta: “[…] quando ci vien detto […] che noi ci siamo avvicinati all’adunanza festiva a cui partecipano le miriadi di angeli, cittadini della città celeste, e le anime dei giusti arrivati alla perfezione, dovremmo rappresentarci questo “avvicinamento” cultuale alla festività celeste, considerando la liturgia che l’ ekklesia celebra sulla terra come partecipazione al culto che nella città celeste è celebrato dagli angeli. Considerate sotto questo aspetto, le parole della lettera agli ebrei assumerebbero un significato particolarmente pregnante” [5]. Non è dunque un caso che il Sanctus o Trisághion sia sempre preceduto da un riferimento agli angeli: “È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno. […] per Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode: Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo” [6]. D’altronde sant’Ignazio di Loyola nel Principio e Fondamento, che è come l’ouverture dei suoi Esercizi Spirituali, pone lo scopo della vita dell’uomo nel “lodare, adorare e servire Dio nostro Signore” [7]. È quello che fanno da sempre gli angeli.
Esistono?
Rimane il problema che non possiamo eludere e non è giusto lasciare nell’ombra ambigua e complice di un discorrere che eviti per principio di pronunciarsi sul reale. Si tratta di esistenze reali o di puri codici simbolici? È certo che la Rivelazione parla di angeli, ma è un fatto di linguaggio o anche di contenuti? Prima però di affrontare direttamente il problema dal punto di vista della Rivelazione, poniamoci anche questa ulteriore domanda: essa è proprio l’unica fonte della nostra conoscenza del mondo angelico?
Un dato balza agli occhi significativo: la prima cultura che ha ignorato o respinto la realtà di esseri spirituali ultramondani è quella del razionalismo europeo del XVIII secolo, la cultura dell’Illuminismo, perché la credenza in esseri intermedi è universale, nel tempo e nello spazio, e si può constatare che questo interesse non abbandona mai completamente neppure l’Occidente illuminista e post-illuminista. Accanto infatti alla corrente fredda del razionalismo troviamo – contemporanea – una corrente calda morbosamente attirata da tutto ciò che è ” occulto ” e in cui gli spiriti e le tecniche per evocarli ed entrare in rapporto con loro giocano un ruolo decisivo: “Ernst Bloch ha distinto nella storia del marxismo una “corrente fredda” che sottolinea il materialismo e il razionalismo, e una “corrente calda” che insiste sul novum radicale dell’utopia rivoluzionaria. Un’analoga distinzione sembra presente nella storia della spiritualità massonica, dove coesistono una “corrente fredda” razionalista e scettica, con una gamma di variazioni che va dal deismo illuministico all’ateismo, e una “corrente calda” irrazionalistica e interessata a tutti i tipi di occultismo” [8]. Sembra dunque che la ragione non riesca a disfarsi definitivamente dell’angelo e che la sua lotta con l’angelo (ben diversa nella sostanza da quella di Giacobbe narrata in Gn 32,23-33) sia altrettanto difficile da vincere in modo definitivo e netto di quanto non lo sia quella contro Dio. Anzi per qualche aspetto sembra che la credenza negli spiriti sia addirittura più resistente di quella in Dio.
L’angelologia cristiana ha elaborato una argomentazione razionale che, se non pretende propriamente di “dimostrare” l’esistenza di esseri intermedi tra il mondo materiale e Dio, presume però di essere in possesso di ragioni probabili molto forti, di argomenti di convenienza assolutamente persuasivi. Si tratta di una riflessione sulla completezza dell’universo. Nel mondo da noi sperimentabile troviamo una realtà materiale, cioè corporea. Questa è una evidenza primaria. La riflessione filosofica però, soprattutto a partire da Platone, ha capito che la spiegazione ultima del mondo materiale e quindi la ricerca delle sue cause prime richiedeva che si uscisse da esso, anche se questo comportava l’improba fatica e il rischio di abbandonare il facile soccorso della percezione sensibile. Si tratta della famosa “seconda navigazione” platonica [9]. Per mezzo di essa Platone approda al mondo delle idee, situato emblematicamente nell’hyperouránion (l’al di là del cielo, cioè l’oltre il mondo). La natura delle idee rimane misteriosa: una cosa però risulta evidente, l’uomo si trova come posto nell’interstizio tra due dimensioni dell’essere perché pur essendo corporeo è in grado di accedere ad un mondo – il mondo delle idee – che non è manifestamente tale. Il panorama dell’universo si troverebbe così adeguatamente suddiviso in questo modo: mondo materiale, mondo materiale-spirituale (uomo) e mondo solo spirituale o divino. Il pensiero cristiano non ha potuto accettare questo schematismo senza integrarlo e ripensarlo in modo radicale, perché Dio riconosciuto come creatore non può più essere concepito come una componente, fosse pure la più importante, del mondo. Dio è strutturalmente oltre! È l’ “Id quo maius cogitari nequit” e quindi anche il “Quiddam maius quam cogitari possit” secondo le geniali e pregnanti espressioni di sant’Anselmo d’Aosta. Se l’ordine e l’armonia dell’universo suggeriscono la presenza di una realtà solo materiale, di una solo spirituale, e di una “mista”, la realtà solo spirituale necessaria alla completezza dell’universo non può essere puramente e semplicemente identificata con Dio. Esiste dunque un mondo solo spirituale creato, e questo è appunto il mondo degli angeli. Esso si differenzia da Dio ad un livello metafisico più elevato delle creature corporee in quanto a lui non compete la composizione di materia e forma, ma solo quella di essenza ed atto d’essere. Questa originale posizione di san Tommaso, il Doctor angelicus, assicura all’angelo una radicale incorporeità [10]. Da questo punto di vista l’angelo, ripensato in chiave cristiana – oltre ad essere il custode della soglia tra visibile e invisibile – si presenta anche come il garante dell’assoluta trascendenza di Dio. Rettamente compreso ci impedisce di pensare Dio in modo ingenuamente e grossolanamente onto-teologico, cioè come quel Super-ente, che – essendo il massimo degli essenti – rimane pur sempre un Essente tra gli essenti [11]. In realtà solo a Dio compete l’identità di essenza ed essere, Egli è dunque l’ Essere-sussistente-per-sé e non un essente, fosse pure il più grande, il superlativamente tale, l’Ens realissimum, perché in questo caso sarebbe pur sempre un qualcosa-che-esercita-l’atto di essere, quindi un qualcosa-che-ha-l’essere e non lo è.
San Tommaso, in ossequio al suo caratteristico “intellettualismo” [12], sviluppa l’argomentazione puntando soprattutto sulla necessità che esistano sostanze intellettuali e che a queste sostanze intellettuali corrispondano come oggetto proprio realtà incorporee. “È necessario ammettere delle creature incorporee. Infatti ciò a cui mira principalmente Dio nella creazione è il bene, che consiste in una rassomiglianza con lui. Ora, l’effetto assomiglia perfettamente alla causa quando la imita proprio in ciò che serve ad essa per produrre l’effetto: come quando un corpo caldo rende caldo un altro corpo. D’altra parte Dio produce la creatura per mezzo dell’intelletto e della volontà […]. Quindi la perfezione dell’universo richiede che vi siano delle creature intellettuali. Ma l’intellezione non può essere l’atto di un corpo né di alcuna facoltà corporea: ogni corpo infatti è limitato nello spazio e nel tempo. Ne segue quindi che, perché si abbia la perfezione dell’universo, è necessario ammettere l’esistenza di qualche creatura incorporea. […] … per il fatto stesso che l’intelletto è superiore al senso si deve ragionevolmente concludere che esistono delle sostanze incorporee, conoscibili solo dall’intelletto” [13]. “All’anima umana […] si addice di essere unita al corpo poiché è imperfetta, ossia in potenza, in quanto sostanza intellettiva: essa infatti […] non possiede per natura la pienezza della conoscenza, ma deve acquistarla dalle realtà sensibili per mezzo dei sensi corporei. Ora, se si trova in un dato genere alcunché di imperfetto, bisogna che preesista un modello perfetto di quello stesso genere. Vi saranno quindi delle sostanze intellettive, perfette quanto alla loro natura intellettiva, che non hanno bisogno di ricavare la loro conoscenza dalle realtà sensibili” [14].
L’oggetto proprio dell’intelletto umano, che è facoltà intellettiva di uno “spirito incarnato”, è la quidditas rei materialis, l’essere delle realtà materiali. Questa facoltà però si apre su orizzonti più vasti: suo oggetto adeguato è l’essere in quanto tale, che non è – di suo – corporeo e, nemmeno – di suo –, in quanto atto di ogni atto e perfezione di ogni perfezione, limitato [15]. L’essere però nella sua assoluta purezza e quindi nella sua realtà di Essere-sussistente-per-sé, Ipsum esse per se subsistens, è posto strutturalmente al di fuori della portata dell’intelletto creato. “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18). Egli può essere conosciuto da parte di un intelletto creato in virtù delle sue forze naturali solo come causa dell’essere di ogni realtà creata, quindi solo in obliquo, non come oggetto, ma come causa dell’oggetto. Se dunque al di fuori dell’essere dei corpi non esistesse altro essere se non quello infinito e per sé sussistente di Dio (cioè non come atto limitato da una data essenza, da un determinato modo di essere) l’intelletto si troverebbe come sprovvisto di un oggetto a lui connaturale. “Per il fatto stesso che l’intelletto è superiore al senso si deve ragionevolmente concludere che esistono delle sostanze incorporee, conoscibili solo dall’intelletto” [16]. Si potrebbe obiettare che l’intelletto umano può, riflettendo su sé stesso, conoscersi come facoltà di una sostanza incorporea, l’anima. Non si terrebbe però in conto che l’anima è sostanza incompleta, in quanto parte, anche se parte determinante (forma corporis), di quella sostanza che è l’uomo. L’intellettualità creata trova la sua relativa perfezione solo nella facoltà intellettiva di una sostanza incorporea, rispetto alla quale così la conoscenza dell’uomo si trova correttamente situata: “L’uomo esercita la conoscenza dis-correndo e ricercando, mediante una luce intellettiva offuscata dal suo contesto spazio temporale [per continuum et tempus obumbrato], in quanto prende cognizione a partire dai dati recati dai sensi e dal fantasma: infatti la ragione, cioè il modo umano di conoscere, sorge all’ombra dell’intelligenza [ratio oritur in umbra intelligentiae]. Invece l’Angelo partecipa di una luce intellettiva pura, senza mescolanza, sicché conosce pure senza un procedere inquisitivo, in modo divino, secondo Dionigi” [17]. Tuttavia natura non facit saltus e così come l’angelo conosce anche le realtà corporee, l’intelletto umano può avere una qualche conoscenza delle sostanze incorporee che non si risolve esclusivamente nella conoscenza naturale di Dio, che è strutturalmente negativa (di Lui “quid non sit cognoscimus, quid vero sit penitus manet ignotum – che cosa non sia lo sappiamo, che cosa sia ci rimane del tutto sconosciuto” [18]) e dell’anima umana che – come abbiamo visto – non è sostanza perfetta.
Certamente parlare di possibilità di una qualche conoscenza naturale degli angeli non significa – prima di tutto – negare che a questa conoscenza sia estraneo l’apporto della grazia divina, sia in quanto tenue e fragile memoria di una “rivelazione primordiale”, soprannaturale nella sua origine e quindi anche nei suoi pur lontani effetti, sia attraverso aiuti e interventi di cui proprio gli angeli sono gli abituali mediatori. Non sono mancati teologi che hanno ricondotto il fenomeno del politeismo pagano ad una esagerata e pericolosa divinizzazione di esseri angelici: gli “dei” dei popoli sono angeli che, volenti (gli angeli malvagi) o nolenti (gli angeli buoni [19]), sono stati fatti oggetto di un culto di adorazione [20]. Divinizzazione tanto più pericolosa in quanto il mondo angelico si trova diviso e dilacerato al suo interno – esistono infatti spiriti buoni ma anche cattivi – e il fascino dell’angelo quando non si è indotti a o non si vuole andar oltre la sua persona, finisce per diventare un ostacolo e quindi anche una tentazione sub specie boni sul cammino di quella ricerca di Dio che è il cuore autentico di ogni religione naturale: “Perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi” (At 17,27). Non significa neppure immaginare un rapporto così netto e determinato con questo mondo da poter dar vita ad una “scienza” in senso vero e proprio, tale da potersi sviluppare in modo assolutamente autonomo rispetto alla rivelazione e quindi alla teologia. Se non confondiamo conoscenza con scienza e verità con certezza ci rendiamo conto che un pur tenue e liminare “sentore” e un confuso presagire di presenze attorno e al di sopra di noi costituiscono comunque un certo sapere, anche se non si possono mai risolvere in un compiuto comprendere. L’angelo allora, oltre che custode della soglia tra visibile e invisibile e garante dell’assoluta trascendenza di Dio, si fa anche annunciatore ed interprete del mistero. È colui che continuamente ci ricorda che “un minimo che si possa avere di conoscenza delle cose più alte è molto più desiderabile della conoscenza più sicura di quelle inferiori” [21], educatore al mistero, mistagogo.
La famosa sentenza di sant’Agostino: “esse angelos novimus ex fide – che esistano gli angeli, lo conosciamo per fede” [22] va dunque presa cum grano salis (come anche quella che, mentre distingue in modo netto e irriducibile il nome “angeli” come nome di funzione e quello di “spiriti” come nome indicante la natura, sembra quasi separarne i contenuti [23]). È certo che “gli angeli non possono essere di per sé oggetto di scienze sperimentali”, questo però non significa affatto escludere che “l’esistenza e la presenza degli spiriti nel nostro mondo” siano “percepibili per vie in qualche modo “esperienziali”. Se l’ambito dell’esperienza fosse di per sé limitato alla sola percezione dell’immediatamente sensibile, gli angeli sarebbero completamente al di fuori di ogni possibile esperienza. Le cose, però, non stanno così: infatti si è soliti parlare di esperienze morali, intellettuali, estetiche, affettive, esistenziali, e via dicendo, che pur avendo un qualche aggancio con il sensibile, di per sé debordano l’ordine dei sensi esterni e interni, per arrivare ad altre sfere raggiungibili solo all’uomo nella sua unità, appunto allo “spirito umano”. Senza poter certo dire che l’angelologia sia una scienza “sperimentale” alla stregua della fisica, della chimica o della biologia, quindi riconoscendo che come scienza si colloca all’interno della metafisica, delle scienze della religione e della teologia, tuttavia è possibile dire che la conoscenza degli angeli è conoscenza “esperienziale”, vale a dire basata su elementi acquisiti per esperienza nel senso più ampio appena esposto. A questo, infatti, rimandano i dati alla nostra portata, non solo quelli tramandati dalla storia delle religioni, specie quelli contenuti nel messaggio biblico, ma anche quelli odierni, oggetto in senso lato della fenomenologia della religione. Si pensi ad esempio all’esistenza di una diffusa devozione agli angeli e in particolare agli angeli custodi. Questi dati implicano sempre un contatto, un rapporto con esseri invisibili, del quale si reclamano effetti nell’ordine dell’esperienza. In realtà, la fede negli angeli, così come nata storicamente nelle varie religioni, ma soprattutto nel popolo ebreo e nel cristianesimo, è legata ad esperienze di tipo morale ed esistenziale, non senza una certa possibilità di contatto o di dialogo personale con questi esseri. I racconti dell’AT e poi in particolare dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli, sono a questo punto specialmente espliciti. Certamente, l’abituale mancanza di esperienze personali può far pensare che esse siano impossibili o non esistano di fatto, secondo un giudizio che non valorizzerebbe l’esperienza di coloro che assicurano di averle avute. […] È vero che le informazioni su queste esperienze sono alle volte non solo false ma anche fallaci, ma è anche vero che nella lunga tradizione cristiana sono innumerevoli le testimonianze di un rapporto con gli angeli” [24]. Si ritrova qui il caso particolare di un problema generale, quello della critica kantiana all’apertura metafisica dello spirito umano. Un caso particolare ma significativamente emblematico. Se all’intelletto non corrisponde nessuna intuizione e quindi nessun oggetto proprio, se l’essere dunque non è un “predicato reale” ma solo il darsi di qualcosa nell’orizzonte della nostra esperienza sensibile [25], allora “esperienza” coincide con “esperienza sensibile” e non c’è né può esserci – a priori – nessuna esperienza spirituale. L’esperienza dell’essere però, come dato originario, atto primo e fondante non può essere elusa e la metafisica cacciata dalla porta rientra sempre da qualche finestra. Con questo necessario ritorno della metafisica ha a che fare anche il riannunciarsi di un “brusio” di angeli… Non è certamente un caso che la riflessione angelologica abbia sempre accompagnato le vicende della metafisica, soprattutto nella stagione della scolastica medioevale e quindi ancora in tutti quegli indirizzi che a quell’esperienza si ispirano. La riflessione sullo spirito umano, la sua natura di “spirito incarnato” e la molteplice attività che, in conformità con questa natura, ne scaturisce è accompagnata ed essenzialmente aiutata dalla contigua riflessione sulla natura e l’agire degli “spiriti puri” [26].
Che cosa dice la Bibbia?
La Bibbia ci parla degli angeli? Certamente, ma le sue posizioni – secondo la critica razionalista – vanno interpretate, fortemente ridimensionate e in definitiva completamente depotenziate. In un celebre saggio del 1960 Romano Guardini riassume efficacemente la posizione della critica razionalista e liberale sugli angeli:
“Se sugli angeli della Sacra Scrittura interrogassimo uno storico delle religioni di convinzioni razionaliste o un teologo liberale probabilmente ci spiegherebbe che essi sono una forma di credenza negli spiriti, come si trova presso i popoli più diversi che, ai primordi della civiltà, sono incapaci di spiegare il comportamento delle cose per cause naturali; così avrebbero pensato degli esseri, che dirigerebbero i processi naturali, e questa rappresentazione sarebbe durata a lungo. Oppure direbbe che il pensiero religioso sente la necessità di inserire fra la somma divinità e la varietà del mondo terrestre, degli esseri che servono da intermediari; essi sarebbero più in alto dell’uomo, ma al di sotto di Dio. Motivi simili ricorrerebbero anche nell’Antico e nel Nuovo Testamento e il risultato sarebbe la rappresentazione degli angeli. Vi si aggiungerebbe che le Scritture bibliche avrebbero subìto l’influsso delle civiltà in cui era molto sviluppata la rappresentazione di tali esseri-mediatori: gli Assiri, i Babilonesi, soprattutto i Persiani, e questa influenza si sarebbe ripercossa nella dottrina biblica sugli angeli. Se poi si chiedesse perché Gesù ne parla, la risposta sarebbe che Egli viveva nella storia del suo popolo e subiva gli stessi influssi. In certi punti della sua dottrina Egli sarebbe giunto fino a conquistare concetti religiosi assolutamente puri; nel resto, Egli avrebbe pensato come tutti ” [27]. L’esperienza della presenza degli angeli è messa in discussione come possibilità dalla svolta kantiana e il conseguente dubbio sull’autentico significato da dare ai testi biblici è insinuato sulla base di quattro fondamentali argomentazioni:
1. Prima di tutto il ricorso a esseri personali di natura spirituale risponde ad uno schema esplicativo dei fatti naturali che caratterizza l’uomo “primitivo”: oggi il progresso scientifico e tecnico raggiunto rendono tali spiegazioni assolutamente obsolete.
2. Il pensiero religioso, nella misura in cui si fa un’idea forte della trascendenza dell’assoluto principio divino nei confronti del mondo, sente la necessità di porre degli esseri intermedi che facciano da mediatori.
3. Nella Bibbia ebraica – e di conseguenza nelle Scritture cristiane – il dato di una molteplicità di esseri intermedi è mutuato dalle culture circostanti il popolo di Israele, in particolare a partire dall’esilio. Si tratta dunque di un apporto “estraneo”.
4. È vano fare appello alle parole di Gesù, perché anche Gesù pensa – tranne le idee veramente fondamentali del suo messaggio – come gli uomini del suo tempo.
Di fronte a queste obiezioni, prima ancora di sforzarsi di rispondervi, è importante cogliere l’atteggiamento di fondo che le guida. Davanti al tema dell’angelo – che, pur non essendo un punto centrale del mistero cristiano e non occupando quindi i primi posti nella gerarchia delle verità, costituisce comunque una verità della nostra fede [28] – l’atteggiamento di fede svela le sue risonanze più profonde e nascoste. L’uomo di fede si trova come scosso e contrariato nel suo sentire, cioè nel suo sensus fidei e anche semplicemente, ma non banalmente, nel suo buon senso. Quel buon senso proprio dei semplici a cui non compete di dire con precisione la propria fede – non sono teologi – ma che spesso la sanno confessare con straordinaria e disarmante efficacia. L’atto di fede – come l’atto del capire e del conoscere, è un evento, dunque qualcosa che “succede”, che si verifica quindi in un contesto ed è accompagnato da un abituale corredo di caratteristiche e presupposti. Proprio il confronto con il tema dell’angelo ne svela particolarmente la sua natura più profonda. Credere comporta un certo distacco da quell’egoismo che ci lega a ciò che possiamo vedere, sentire, toccare e gustare: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Non è negare il sensibile, ma esercitare libertà nei suoi confronti: in questo senso il rifiuto di una vita improntata al puro edonismo e quindi un certo esercizio di ascesi fanno parte integrante di quel contesto in cui e di cui vive la fede. Solo chi ha in qualche modo sperimentato quella sazietà dell’anima che dà il “sentire e gustare internamente” [29] ammette come ovvio e scontato che altri abbiano fatto esperienze analoghe anche in un grado incomparabilmente maggiore e si stupisce dello stupore dell’incredulo. Qualunque ideologia che ci rinchiuda nello spazio dell’esperienza sensibile è insieme espressione e causa di incredulità… La fede non è poi qualcosa di trovato o scelto dall’io, ma è dono che pone l’io nel contesto di quella comunità di credenti che è la Chiesa: “avete obbedito di cuore a quell’insegnamento che vi è stato trasmesso” (Rm 6,17), l’atto di fede ha per soggetto un “noi”, che è il “noi” della Chiesa.
Continua infatti Guardini: “Ci si stupisce sempre che, a spiegazione del pensiero biblico, si adducano tutti i motivi possibili, salvo i più ovvi. Vale a dire: se persone di un certo rango religioso, come i maestri dell’Antico e del Nuovo Testamento – per non dire Gesù stesso – parlano degli angeli, lo fanno per la semplice ragione che gli angeli esistono. Lo hanno sperimentato e questa esperienza attesta la realtà; allo stesso modo che un discorso sulle aquile si basa sul fatto che la gente ha visto delle aquile con i suoi occhi. Suona molto strano che un dotto del diciannovesimo o ventesimo secolo, che forse non ha mai fatto personalmente vere esperienze religiose, né sta nella autentica tradizione religiosa, voglia giudicare che cosa significa quando il Genesi o Isaia o Gesù stesso parlano di angeli. È bene ricordarsi di tanto in tanto delle gerarchie dello spirito…” [30].
A Guardini fa eco un altro teologo contemporaneo, il Card. Giacomo Biffi:
“Non ho mai capito l’allergia “a priori”, che si riscontra in molti teologi, ad ammettere gli angeli, se non identificandola come una “zona di incredulità” sussistente per incoerenza in una mentalità che dovrebbe essere tutta permeata dalla fede. Una volta appurata nella fede l’esistenza del mondo invisibile, “a priori” non ho obiezioni da opporre non solo agli angeli, ma nemmeno agli arcangeli, ai cherubini, ai serafini a chi sa quali altre creature siano state pensate e volute dalla divina fantasia. O l’universo è vuoto, e allora si capisce che sia sordo e muto; o c’è la possibilità che sia popolato, e allora mi aspetto che ci siano molti esseri in grado di porsi in ascolto delle nostre voci e in grado di farci arrivare la loro. Il credente è uno che si attende molte sorprese. Una volta conosciuta l’esistenza di un Dio che è fantasioso e onnipotente, cioè “capace di tutto”, la ragionevolezza sta nell’aspettarsi che la divina immaginazione a poco a poco si manifesti, oltrepassando sempre ogni previsione e stupendo sempre la nostra connaturale propensione per ciò che è consueto, prevedibile, convenzionale. L’uomo nativamente “religioso” “a priori” non esclude niente. Sa che, se è arduo dimostrare l’esistenza di qualche cosa, è ancora più arduo dimostrarne apoditticamente l’inesistenza. L’uomo “areligioso” è quello che possiede la più arrischiata e irragionevole delle certezze: la certezza di ciò che non c’è. E’ una certezza che conviene solo a Dio: solo colui che è onnisciente può elencare le cose che non ci sono. Sicché paradossalmente potremmo dire che l’uomo areligioso possiede la più arbitraria e ingiustificata delle fedi. E, ancora paradossalmente, soltanto da una divina rivelazione potrei avere la notizia indubitabile che oltre la zona accessibile alla mia conoscenza naturale non ci sia niente”. [31]
Certamente la Bibbia ha bisogno di una interpretazione. Leggere la Bibbia “alla lettera”, fidandosi di un senso che sarebbe sempre ovvio e immediato, è una illusione. Non è neppure la lettura antica o tradizionale, ma qualcosa di moderno e di legato anch’esso – come la lettura razionalista – all’Illuminismo. Il “fondamentalismo”, che utilizza il metodo del letteralismo biblico, come corrente all’interno del Protestantesimo è nato con John Nelson Darby (1800-1882), mentre il nome risale all’inizio di questo secolo. Quando per es. leggiamo: “il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gn 2,7), dobbiamo far intervenire una pre-comprensione metafisica di Dio, per cui, escludendo da Dio tutto ciò che è corporeo, leggiamo le espressioni che lo fanno come un vasaio che plasma il suo manufatto alla stregua di espressioni simboliche. Per scoprire però subito che esse non cessano di essere profonde. L’uomo ha due componenti: una terrestre, che viene dalla materia informe (fango) e una celeste, che viene direttamente da Dio (soffio) e che ha una analogia con quel “soffio” divino che appare già nell’Antico Testamento come una realtà personificata in Dio. Soffio è indizio di vita e di movimento. Soffio, vento, è la realtà materiale più… immateriale, cioè più “spirituale”. A volte per rendersi pienamente conto del significato esclusivamente simbolico di una data rappresentazione c’è voluto un certo itinerario di indagine scientifica, come l’affermarsi della teoria Copernicana (pure molto antica) su quella Tolemaica. Ciò non toglie che il senso simbolico fosse già presente e spessissimo anche l’intuizione della provvisorietà della visione scientifica corrente. Qualcuno ha voluto confinare gli angeli nell’ambito precario di una immagine del mondo destinata ad essere coinvolta nell’aggiornamento scientifico, per cui la loro funzione sarebbe ormai solo simbolica e anche questa da rivedere con il mutare della sensibilità dell’uomo moderno. Ecco per es. la posizione di un campione del razionalismo biblico dell’Ottocento – David Friedrich Strauß (1808-1874) –: a noi “mediante la concezione copernicana è stato tolto il luogo in cui l’antichità giudaica e cristiana pensava posto il trono di Dio” [32]. Nell’universo ripensato da Copernico e da Newton non ci sarebbe più posto per il trono di Dio e nemmeno per i suoi angeli… Il problema però è che non c’è nessuna ragione metafisica per interpretare l’angelo (buono o cattivo) come un simbolo, la metafora di qualcosa. Mentre Dio non può avere un corpo e quindi sedere su un trono, può benissimo aver creato dei puri spiriti ed esserne “circondato”, cioè essere oggetto della loro adorazione amante, costituire con loro una famiglia di amore e servirsi della loro opera per guidare le sorti del mondo. Non c’è neppure nessuna ragione scientifica per operare questa de-mitologizzazione. La scienza non può certamente provare che gli angeli esistono, ma non può neppure dimostrare che non ci sono… Se poi andiamo a riesaminare la posizione dei demitologizzanti ad oltranza ci accorgiamo facilmente di un fatto paradossale: dietro l’immagine innocente di un mero problema di metodo e di adattamento ai progressi della scienza e del costume, ci sono delle posizioni teoriche antitetiche alla fede e alla retta ragione: per es. il manicheismo e la gnosi. Se infatti il demónio è solo cifra del male e l’uomo il male lo ha già trovato nel mondo, allora il male è opera di Dio, quindi o principio divino assoluto accanto al principio del bene, oppure componente negativa di Dio, “volto malvagio”, “ombra” che preesiste in Dio dall’eternità… [33]. Davanti a testi che ci parlano di angeli e demóni occorrono dunque dei criteri. Non possiamo muoverci in essi arbitrariamente. Il criterio, lo abbiamo già visto non può essere quello fondamentalista. Esso annulla il problema eliminando (o occultando) l’alterità della forma. Il racconto richiede di essere decodificato. In base a quale chiave di comprensione? È nota l’infelice espressione di Bultmann: “Non ci si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici, e nello stesso tempo credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli propostoci dal Nuovo Testamento” [34]. Qui il criterio è la concezione del mondo dell’uomo moderno, frutto del progresso scientifico tecnico. Andrebbe osservato subito che la “concezione dell’uomo moderno” è in continua evoluzione e Bultmann sarebbe sorpreso nel vedere quanti uomini del nostro tempo accendono tranquillamente la luce elettrica, si siedono davanti al televisore, usano abitualmente il computer e, nello stesso tempo, frequentano l’astrologo e credono ai folletti e alle fate… [35]. Ma a lui va concessa una attenuante: la sua conferenza è del 1941. Ben altra responsabilità hanno coloro che continuano ad accreditare oggi la favola dell’uomo moderno.
Al di là però di considerazioni circostanziali, resta il rilievo di fondo: è possibile elevare la concezione del mondo “dell’uomo moderno” a criterio ermeneutico decisivo del testo biblico e dei documenti della fede? Certamente la scienza rientra fra i momenti regolativi nell’interpretazione di questi documenti, ma non potrà mai costituire l’ultima istanza. É interessante vedere come Pannenberg – che pure vuole porsi nella linea della demitologizzazione più conseguente – sottopone oggi a critica l’argomentazione classica della scuola liberale per sbarazzarsi di angeli e demóni: “David Friedrich Strauß ha parlato, proprio a proposito della “attività mondana degli angeli” di una “contraddizione della concezione moderna della natura”, perché considera questi “fenomeni naturali, come lampo e tuono, terremoto, pestilenza, ecc.” non come “speciali manifestazioni di Dio”, ma li riconduce a “cause che si situano all’interno del contesto naturale”. Ora questa obiezione colpisce non solo l’operare degli angeli ma anche il particolare agire di Dio negli avvenimenti della natura e presuppone una concezione del contesto naturale come un sistema chiuso (in corrispondenza all’immagine meccanicistica del mondo) e vede nelle affermazioni teologiche sull’agire di Dio o degli angeli negli accadimenti del mondo, in ogni caso nei singoli eventi della natura, spiegazioni di procedimenti naturali che fanno concorrenza con le descrizioni scientifiche e i fattori da loro addotti” [36]. Sarebbe come se l’evento costituito dal presente testo, descritto narrativamente in questo modo: “Un autore ha scritto – verso la fine di aprile e i primi di maggio dell’anno 2006 – un articolo sulla natura e la spiritualità degli angeli” venisse adeguatamente demitizzato in questo modo: “Il testo nelle nostre mani mostra chiari segni di esecuzione da parte di un personal computer. Non c’è segno o modo in cui il segno è fenomenicamente dato, per quanto piccolo o insignificante esso possa apparire, che non si possa ricondurre alle tecniche di un programma di videoscrittura installato nella macchina, non c’è quindi bisogno di invocare nessun causalità esterna ad essa, ergo non esiste nessun autore estrinseco”. Ma il computer non può funzionare da solo! E neppure il mondo lo può… Invocare cause naturali, descrivere dettagliatamente queste cause non risolve ancora il problema se esse sono le sole cause, a meno che non si sia deciso a priori e arbitrariamente che la natura è un sistema chiuso… La causalità poi non si manifesta mai in modo univoco (causae ad invicem sunt causae) e le spiegazioni monocausali, sia in campo metafisico, che storico, sociologico, psicologico, ecc. sono sempre insufficienti.
Anche le altre obiezioni razionaliste crollano ad un esame più attento. Il fatto che la credenza negli angeli si sia rafforzata e sviluppata nel popolo ebraico nel periodo dell’esilio a contatto con culture dotate di un’angelologia e demonologia ricche e complesse [37] non dice nulla sul valore di queste concezioni una volta che esse sono state accolte nel canone delle Scritture. È vero che Dio ha eletto un popolo – e quindi la sua cultura e la sua lingua – perché fosse tramite della sua autocomunicazione al mondo, ma le culture non sono compartimenti stagni. Anzi: “La dignità di una cultura si mostra nella sua apertura, nella sua capacità di dare e di ricevere, nella sua capacità di svilupparsi” [38]. Se la rivelazione di Dio avviene mediante la storia e la cultura del popolo ebraico, essa non coincide con l’ebraicità in quanto fatto “originario”, perché tutti gli incontri interculturali e gli apporti che ne derivano appartengono a pieno titolo all’agire rivelativo di Dio. Non bisogna confondere il valore rivelativo di un dato biblico con la sua origine storica. Anche il pensiero che Gesù condividesse le concezioni degli uomini del suo tempo si scontra con controfatti decisivi. Vediamo infatti il rabbino Gesù di Nazaret che parla familiarmente di religione con una donna in pubblico (Cfr. Gv 4,1-42), che permette a dei bambini di ascoltare chiassosamente le sue lezioni, disturbando discepoli e ascoltatori (cfr. Mt 19,13-15 e par.), che tollera i comportamenti dei discepoli di non lavarsi le mani fino al gomito prima di mangiare (Mc 7,1-5) e di raccogliere spighe di grano in giorno di sabato (Mt 12,1-2), ecc. L’atteggiamento di Gesù è dunque tutt’altro che “conformista”. Sul punto in questione poi sappiamo che le opinioni degli ebrei al tempo di Gesù non erano unanimi: i Sadducei negavano, oltre alla resurrezione dei corpi, anche l’esistenza degli angeli (cfr At 23,8). È certamente vero che in Gesù c’è una certa condiscendenza – in armonia con la generale synkatábasis [39] di Dio in tutto l’arco della rivelazione – nei confronti delle opinioni e dei modi di fare e di comportarsi degli uomini presso i quali vive ed opera, ma essa, in ossequio al suo carattere definitivo ed escatologico, si manifesta in ciò che è del tutto accidentale e fondamentalmente innocuo. Accreditare però una credenza negli spiriti buoni e malvagi, con tutti i rischi di esagerazioni e anche di idolatria che essa può comportare, non si giustifica assolutamente qualora essa fosse del tutto priva di fondamento.
Ho lasciato in fondo l’obiezione fondata sulla necessità di mediatori secondo il sentire di una religiosità naturale tutta compresa dell’indicibile trascendenza di Dio, perché è più complessa e per tanti versi “seria”. È indubbio che il senso della trascendenza di Dio pone l’uomo ad una distanza infinita da Dio e quindi in una lontananza invalicabile… che ha bisogno di qualcosa di intermedio che faccia da tramite e da ponte. L’inaudito evento dell’Incarnazione sembrerebbe spezzare questa necessità e quindi o relegare gli esseri mediatori nello spazio delle immagini prefiguratrici destinate a svanire come le ombre della notte al sopraggiungere della luce del giorno, oppure accantonarle tra le inutili sopravvivenze di ciò che ormai è definitivamente superato: sopraggiunto infatti l’unico Mediatore (cfr. 1 Tim 2,5) tutti gli altri mediatori perdono ogni funzione ed interesse… Il Nuovo Testamento sembra invece testimoniarci il contrario, perché se i riferimenti angelologici e demonologici sono abbastanza rari nell’Antico Testamento, esplodono, per così dire nel Nuovo. Il fatto è che emerge un significato nuovo della mediazione: da evento puramente necessario, diventa cooperazione libera al piano di Dio, cooperazione funzionale al piano di Dio stesso in cui la libertà costituisce un elemento architettonico fondamentale. L’unico modo di salvare una libertà è quella di chiamarla alla libera cooperazione, rendendo questa possibile e seducente. Il modo divino di fare il bene è di farlo fare… Così l’unico Mediatore non esclude altre mediazioni, ma le promuove. Tale è il senso con cui la Chiesa chiama mediatrice Maria. Come Maria è mediatrice della grazia di Cristo e tutto il suo operare a favore degli uomini ha in Cristo il suo centro e il suo riferimento, così è per le mediazioni angeliche. Con l’avvento di Cristo esse non perdono la loro funzione, anzi essa si trova cristologicamente fondata.
Rimane che il dato rivelato ha bisogno di interpretazione e il caso dell’angelo è, anche qui, particolarmente significativo. Puri spiriti non possono essere pensati dagli uomini, in conformità con il loro connaturale modo di conoscere, se non sono anche immaginati. Come l’angelo pensa in modo puramente intellettuale anche una realtà corporea, così l’uomo non può pensare l’incorporeo in modo completamente avulso da una qualche rappresentazione. L’angelo allora sarà alato, cosparso di occhi, in forma di uomo o di animale, bambino o giovane, ecc. Questo fatto richiede di suo una qualche forma di “de-mitologizzazione”, cioè quel procedimento mediante il quale si prende una certa distanza da quell’immagine che pure costituisce l’imprescindibile medio della conoscenza umana dell’invisibile. E qui le forme di “demitologizzazione” sono essenzialmente due: quella che è momento di una interpretazione che spiega, interpreta ed approfondisce il dato, ma mai e poi mai lo elimina, e quella che invece presume di andare oltre il dato per raggiungere il suo “nucleo” permanente e puro in modo tale da essere poi in grado, partendo di lì, da quella conoscenza “angelica” non si sa bene come raggiunta, di riformularlo in altro modo. Non più dunque interpretazione, perché “L’interpretazione conserva responsabilità nei confronti della parola data e sempre di nuovo rimanda ad essa invece di abbandonarla” [40], ma riformulazione. È quella che Von Balthasar ha battezzato, parlando sempre di angeli, “demitologismo volgare” [41]. Essa nell’insieme dei dati rivelati e delle immagini in cui essi sono necessariamente avvolti quando si ha a che fare con ciò che è assolutamente incorporeo [42], crede di poter distinguere ciò che si può tenere e ciò che si può buttare, come se fossero “grossolanamente” degli oggetti che stanno l’uno accanto all’altro, anziché procedere per la via più difficile, ma adeguata all’oggetto, che consiste nell’approfondire. Questo approfondimento si può dare a diversi livelli di riflessione e può conoscere sviluppo, progresso e “storia”, unificata però dal dato che rimane sempre sé stesso come termine imprescindibile dell’interpretazione.
Strauß era fermamente convinto che “La vera critica del dogma è la sua storia” [43] e la storia del dogma conclude appunto che “Gli angeli non sono simboli, ma oggetti della fede” [44].
Chi sono e che cosa fanno?
Volutamente ho accomunato queste due ultime questioni perché se è vero che “angelo” è nome di funzione e non di natura, esso però indica qualcosa di essenziale che riguarda la posizione dell’angelo nel cosmo.
Il libro che conclude il canone biblico e la storia della salvezza è l’Apocalisse, la “Rivelazione”. Luogo dove il senso ultimo del piano di Dio e della storia è definitivamente svelato. Libro misterioso per eccellenza perché la storia è in corso e – quindi – il suo senso non ancora “consumato”. La visione dell’Apocalisse culmina nella Gerusalemme celeste che scende dal cielo, la “dimora di Dio con gli uomini” (21,3). La Città di Dio è descritta nelle sue componenti e nelle sue misure e ci è detto che il criterio di misura (métron) è uguale per l’uomo e per l’angelo: “misura di uomo che è anche quella di angelo” (21,17) [45]. È attorno a questo versetto che Bulgakov costruisce tutta la sua angelologia [46]. La storia della salvezza è unica per il mondo angelico e per il mondo umano e unico è il piano provvidenziale. Uomo e angelo sono inseriti in un’unica “Grande Storia”, la cui “misura”, senso e criterio, scopo e fine, è una Comunione di amore tra Dio e l’uomo, di cui l’angelo è partecipe e – assieme all’uomo – ministro (sýndoulos) [47].
Non è certamente un caso che il luogo dove la Chiesa si è espressa per la prima volta con autorità dogmatica solenne sugli angeli sia il simbolo di fede Firmiter: “Crediamo fermamente e confessiamo apertamente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente, immutabile, incomprensibile e ineffabile, Padre e Figlio e Spirito Santo […]. Unico principio dell’universo creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e materiali che con la sua forza onnipotente fin dal principio del tempo creò dal nulla l’uno e l’altro ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo terrestre, e poi l’uomo, quasi partecipe dell’uno e dell’altro, composto di anima e di corpo” [48].Il simbolo riprende e interpreta Gn 1,1: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Qui “cielo” non viene ad indicare il solo cielo fisico, ma prende il senso di “cielo spirituale” o “cielo noetico”, cioè il mondo angelico. Mondo angelico e mondo terrestre sono dunque strettamente legati e la particella “e” assume un significato assolutamente centrale, che è messo in luce proprio da Ap 21,17. “Omnino est simile de creatione et recreatione – la creazione e la nuova creazione sono del tutto simili” [49].
Gli angeli sono così i ministri e i messaggeri di Dio che collegano il mondo di Dio con il mondo degli uomini e sono al servizio del piano di Dio che vuole abitare con gli uomini e che culmina nell’Incarnazione… Se Giacobbe vede, nella sua famosa visione, una scala che congiunge terra e cielo su cui gli angeli salgono e scendono, questa scala diventa – nelle parole di Gesù – una immagine di lui e della missione a lui affidata dal Padre [50].
La Chiesa però ne sa sugli angeli di più di quello che insegna e – a maggior ragione – impone. Il luogo privilegiato di questo sapere è certamente la liturgia per la sua intrinseca connaturalità con il servizio angelico, gli angeli infatti – come abbiamo già esemplificato in partenza – sono “leitourghikà pnéumata – spiriti incaricati di un ministero [lett. liturgici]” (Eb 1,14). E dalla liturgia, così come dalla vita di preghiera e di devozione del popolo cristiano emerge la figura dell’angelo custode [51]. Essa però deve essere capita in tutta la sua reale portata e serietà. Innanzitutto la custodia dell’angelo non riguarda solo il singolo, ma si estende a popoli, città, regioni, chiese…, anzi a tutta la realtà del cosmo materiale (cielo e terra). Il rapporto poi che lega l’angelo con la realtà, individuale e associata, personale o materiale che è a lui affidata non è qualcosa di esteriore e giustapposto. Il suo ruolo di custode poi ha natura universale ed economica, si inserisce cioè non estrinsecamente all’interno di un vasto e sinfonico disegno unitario.
Se un uomo posto in una posizione di responsabilità deve scegliere a chi affidare questo o quell’incarico, si premura di designare la persona adatta. Studia quali sono le qualità, le caratteristiche e anche le aspirazioni del personale che ha a disposizione e sulla base di ciò opera la sua scelta. Limitata e condizionata da quello che di fatto trova. Incomparabilmente diversa, ma non senza similitudine, cioè analoga, è la situazione di Dio che sceglie i suoi collaboratori per ordinare la grande economia della creazione e della storia. Dio infatti non sceglie dei collaboratori preesistenti, ma bensì li crea. Essi sono dunque nati a collaborare con lui per questo o quel fine, il rapporto cioè che li lega al loro compito affonda le sue radici nella loro natura. Bulgakov (ma non è il solo) stabilisce un suggestivo rapporto tra il platonico mondo delle idee e il mondo angelico, da lui appunto chiamato “mondo noetico”: “Questo mondo dell’essere ideale-archetipico che Platone aveva intuito, distinguendo solo confusamente il suo vero posto in Dio e perfino confondendolo con la Divinità, è in realtà il mondo degli angeli nella sua relazione con l’essere, la scala di Giacobbe. Questo è il vero significato dell’idealismo di Platone” [52]. Nel mondo angelico dunque esiste il prototipo di ogni essere creaturale corporeo e il suo essere angelo scaturisce dalla sua natura e dall’idea che questa natura impersona. Tra l’angelo e la realtà che gli è affidata sussiste un rapporto di profonda simpatetica ed empatetica similitudine. Il mio angelo custode è allora definibile come il mio alter ego, il mio io celeste. Tutto questo però non all’insegna della pura necessità, ma soprattutto della libertà, perché il Dio tripersonale si circonda di persone per attuare la sua economia creatrice e redentrice al cui centro sta la persona increata, ma incarnata del Verbo, affiancato dalla persona della Madre che in-persona la perfezione del mondo corporeo così come Dio l’aveva originariamente voluta. Bulgakov trae da queste premesse delle conclusioni molto suggestive sulla pedagogia angelica: “Il più alto compito educativo e di tatto pedagogico consiste nello svegliare e nel custodire una felice iniziativa, fare in modo che tutto ciò che c’è di buono nell’uomo non sia suscitato dall’esterno, ma sorga da lui stesso, conducendolo per questa via a nascere e manifestarsi a se stesso. Diversamente non si raggiunge lo scopo stesso dell’educazione, che consiste nel fatto che l’educato diventi lui stesso un essere che agisce, e non uno strumento obbediente nelle mani dell’educatore. Il compito di quest’ultimo consiste nell’essere assolutamente impercettibile, confondendosi totalmente, unendosi con la volontà del discepolo. A questo compito corrisponde il modo d’azione dell’angelo custode, che sveglia in noi stessi il nostro io superiore. Questa pedagogia celeste è incessante, con molteplici forme, inesauribile. Come una madre tenerissima osserva il sorgere dei movimenti sia oscuri che chiari nell’anima del bambino, assalita nel corso della sua vita da elementi ostili, così l’angelo custode veglia sempre su di noi, e tuttavia non fa niente senza di noi, malgrado noi, ma “attende la nostra correzione volontaria e non ci costringe” (canone dell’angelo custode)” [53]. Ecco perché le suggestioni dell’angelo buono, e quindi anche quelle dell’angelo cattivo, si distinguono a fatica dai pensieri che provengono dalla nostra mente, dal nostro cuore e quindi dalla nostra natura e richiedono il carisma e l’arte del discernimento degli spiriti [54].
Angelo buono – angelo cattivo: il mondo angelico è diviso. “Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli” (Ap 12,7). Quando? In un tempo che è un non-tempo, al di là e prima della storia, nella meta-storia di un prologo in cielo che però segna tutto il suo corso fino alla fine. Se l’esistenza degli angeli è legata strutturalmente alla creazione e allo scopo della stessa, allora questa “guerra” avrà a che fare con la “misura” della Città di Dio, con il métron “che è dell’uomo e anche dell’angelo” (Ap 21,17). Molti teologi hanno identificato il motivo del peccato e della caduta degli angeli malvagi nel rifiuto del piano economico di Dio culminante nell’Incarnazione, almeno intravvista per previa comunicazione divina [55]. John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) ci ha lasciato sul peccato dell’angelo uno splendido brano che io definirei di “teologia narrativa”. Al di là certamente (ma non al di fuori…) delle sue intenzioni, l’Ainulindalë, cioè “la musica degli Ainur”, pur essendo un brano di pura narrazione fantastica, si presta a comprendere in profondità quello che successe in quel non tempo che segnò la storia, ma – provvidenzialmente – non ne mutò il corso (“non prevalsero” Ap 12,8). Dio (Ilúvatar) prima di creare il mondo lo fa cantare, in una sublime sinfonia di cui Lui è il direttore, dagli Ainur (gli angeli). Uno di essi, Melkor, tutto preso dalla bellezza del suo canto, tralascia di seguire docilmente la direzione e quindi di subordinarsi all’armonia dell’insieme. “Col progredire del tema, nel cuore di Melkor sorse l’idea di inserire trovate frutto della propria immaginazione, che non erano in accordo con il tema di Ilúvatar […]. Alcuni di questi pensieri li contessé ora nella sua musica, e attorno a lui fu subito discordanza, e molti che vicino a lui cantavano si scoraggiarono, il loro pensiero fu deviato, la loro musica si fece incerta; altri però presero a intonare la propria a quella di Melkor, anziché al pensiero che avevano avuto all’inizio. Allora la dissonanza di Melkor si diffuse vieppiù, e le melodie che prima s’erano udite naufragarono in un mare di suoni turbolenti” [56]. La musica di Ilúvatar è disturbata dalla dissonanza di Melkor, a cui altri si uniscono. Disturbata ma non distrutta, perché Ilúvatar non cessa di promuovere la sua melodia, che si fa sempre più possente e finisce per assorbire anche le note sgraziate del ribelle piegandole a servire, nonostante loro, alla sua grazia ineffabile e invincibile. “E sembrò alla fine che vi fossero due musiche che procedevano contemporaneamente di fronte al seggio di Ilúvatar, ed erano affatto diverse. L’una era profonda e ampia e bella, epperò lenta e impregnata di un’incommensurabile tristezza, onde soprattutto ricavava bellezza. L’altra aveva ora acquisito una coerenza sua propria; ma era fragorosa, e vana, e ripetuta all’infinito; e aveva scarsa armonia, ma piuttosto un clamoroso unisono come di molte trombe che emettessero poche note. Ed essa tentava di sovrastare l’altra musica con la violenza della propria voce, ma si aveva l’impressione che le sue note anche le più trionfanti fossero sussunte da quella e integrate nella sua propria, solenne struttura” [57]. A un certo punto, con un accordo profondo e penetrante che si ripercuote nell’universo intero, Ilúvatar pone fine alla Musica e alla contesa e dichiara agli Ainur che le cose da loro cantate si realizzeranno e loro le vedranno e anche a Melkor dice “t’avvederai che nessun tema può essere eseguito, che non abbia la sua più remota fonte in me, e che nessuno può alterare la musica a mio dispetto. Perché colui che vi si provi non farà che comprovare di essere mio strumento nell’immaginare cose più meravigliose di quante egli abbia potuto immaginare” [58]. La Musica dunque è cessata in cielo, ma sulla terra essa continua a realizzarsi nel tempo e i due temi si intrecciano, si sovrappongono e anche noi – aiutati dai nostri amici celesti – ci sforziamo di cantare il canto di Dio, il “canto nuovo”, senza lasciarci distrarre dalle mille dissonanze che da più parti incalzano e tentano di conquistarci, fedeli a quel tema – lo stesso per noi e per loro – che ha la sua remota fonte in Dio e culmina nella gloria del Signore Gesù e di Maria, regina del cielo e della terra.
Note
[1] Peter L. Berger, Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea [1969], Il Mulino, Bologna 1995.
[2] È il titolo di un noto libro di Massimo Cacciari: L’angelo necessario, Adelphi, Milano 1992, 3a ed.
[3] L’espressione ricorre tre volte nella sezione aramaica di Daniele: “Mentre nel mio letto stavo osservando le visioni che mi passavano per la mente, ecco un vigilante [‛yr], un santo, scese dal cielo” (Dn 4,10; 14.20) e significa letteralmente: ‘colui che sta sveglio’. Sant’Efrem Siro la usa di preferenza (invece di malakā) per indicare l’angelo: cfr. Winfrid Cramer, O.S.B., Die Engelvorstellungen bei Ephräm dem Syrer, Ateneo S. Anselmo (Dissertazione), Roma 1964, vol. I, pp. 91-99. Ecco un esempio di come sant’Efrem valorizza poeticamente questa etimologia: ” Fratelli miei, svegliamoci dal sonno, in modo che i vigilanti si rallegrino del nostro star desti … la desta guerra dei nostri litigi ha addormentato i cristiani che una volta vigilavano nelle loro guerre ” (Sermo de fide 6, 1.2.7.8, cit. in: Ibid., p. 95).
[4] “Si noti come il dispiegamento della liturgia terrestre sia quasi un riflesso visibile – un simbolo efficace – della liturgia celeste degli angeli. Questa unità dei due culti la liturgia in sé la esprime nel Prefazio, quando invita la comunità ecclesiale a unirsi ai Troni e alle Dominazioni, ai Cherubini e ai Serafini, per cantare l’inno serafico, il Trisagion: “Rifletti su chi ti è al fianco e con chi ti appresti a invocare Dio: con i Cherubini. Immagina in quale coro fai ingresso. Che nessuno si associ con negligenza a questi inni sacri e mistici. Che nessuno abbia pensieri terrestri (sursum corda), ma che, allontanandosi da tutte le cose terrestri e trasportandosi interamente in cielo – come rimanendo al fianco dello stesso trono della gloria e volando con i Serafini -, si canti l’inno santissimo del Dio della gloria e della maestà” [San Giovanni Crisostomo, Omelie sull’incomprensibilità di Dio, IV, 408-420: Sources Chrétiennes 28bis, pp. 261-263]. Altrove il Crisostomo sottolinea che il Gloria in excelsis è il canto degli angeli inferiori, e perciò i catecumeni vi si possono associare. Ma il Sanctus è il canto dei Serafini, e introduce fino al santuario della Trinità; dunque “è riservato ai soli iniziati, ai battezzati” (Ho. Col. 3,8; P.G. LXII, 363)” (Jean Daniélou, Gli angeli e la loro missione secondo i Padri della Chiesa, trad. it., Gribaudi, Milano 1998, pp. 78-79).
[5] Erik Peterson, Von den Engeln [Das Buch von den Engeln. Stellung und Bedeutung der heiligen Engel im Kultus, 1935], in: Theologische Traktate (Ausgewählte Schriften, 1), Echter Verlag, Würzburg 1994, p. 198; trad. it.: Il libro degli angeli, C.L.V. – Edizioni liturgiche, Roma 1989, p. 11 (ho leggermente corretto basandomi sull’originale).
[6] “Vere dignum et justum est, aequum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine, sancte Pater, omnípotens aetérne Deus: per Christum Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Caeli caelorúmque Virtútes, ac beáta Séraphim, sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces, ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes: Sanctus, Sanctus, Sanctus, Dóminus Deus Sábaoth” (Missale Romanum, ed. 1570, Praefatio communis; ed. 1970 Praefatio communis II).
[7] Esercizi Spirituali, n. 23.
[8] Massimo Introvigne, Il cappello del mago. I nuovi movimenti magici, dallo spiritismo al satanismo, Sugarco, Milano 1990, p. 39. Tutta questa importante opera di Introvigne può essere considerata come la dimostrazione fattuale di questo assunto. L’esito della secolarizzazione non è stato la scomparsa della magia e quindi di una certa differenziata credenza negli “spiriti”, ma la sua ricomparsa in forme massificate e confuse.
[9] Cfr. Fedone, 97 c-99 d.
[10] Cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 50, a. 1; q. 51, a. 1; Summa contra gentiles, l. II, cap. 46; Compendium theologiae, capp. 73-75; De spiritualibus creaturis. Sul punto si veda anche Antonio Rosmini, Teodicea (Opere 22), Città Nuova, Roma 1977, pp. 352-358.
[11] Cfr. Martin Heidegger, Die onto-theo-logische Verfassung der Methaphysik [1957], in: Idem, Identität und Differenz, Neske, Stuttgart 1999, 11ª ed., pp. 31-67.
[12] Per cogliere il carattere assolutamente non razionalistico dell’ “intellettualismo” di san Tommaso rimane fondamentale: Pierre Rousselot, s.j., L’intellectualisme de Saint Thomas, Beauchesne, Paris 1924, 2a ed.
[13] Summa theologiae, I, q. 50, a. 1 c.
[14] Ibid., q. 51, a. 1 c.
[15] Diversa e opposta è la posizione di Heidegger per cui “das Sein selbst im Wesen endlich ist – l’essere stesso è essenzialmente limitato” (Was ist Metaphysik [1929], Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M. 1986, 13a ed. p. 40).
[16] San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, q. 50, a. 1 c.
[17] In II Sent., dist. 3, q. 1, a. 2 c.; cfr. anche dist. 39, q. 3, a. 1 c.
[18] Idem, Summa contra gentiles, l. III, cap. 49, n, 8.
[19] Nell’Apocalisse gli angeli, davanti al gesto di adorazione, insistono nel proclamarsi con gli uomini co-servitori, syndoúloi (cfr. Col 1,7; 4,7) dello stesso piano provvidenziale di Dio: “Allora mi prostrai ai suoi piedi per adorarlo, ma egli mi disse: “Non farlo! Io sono servo (sýndoulos) come te e i tuoi fratelli, che custodiscono la testimonianza di Gesù. È Dio che devi adorare”” (Ap 19,10; 22,9).
[20] Cfr. Hans Larsen Martensen, Christliche Dogmatik, trad. ted. dal danese approvata dall’autore, Hinrichs’che Buchhandlung, Leipzig 1886, 3a ed. [1849], pp. 118-121; Sergej Bulgakov, La scala di Giacobbe. Sugli angeli [1929], trad. it. dal russo, Lipa, Roma 2005, p. 46; L’echelle de Jacob. Des anges, trad. fr. dal russo, L’age d’homme, Lausanne 1987, p. 32. Martensen adduce – in appoggio alla sua interpretazione – Dt 32,8-9 nella traduzione dei LXX: “Quando spartiva, l’Eccelso, le nazioni, come disperdendo i figli di Adamo, ha posto i confini delle nazioni secondo il numero degli angeli di Dio [secondo la maggioranza dei codici seguita da Rahlfs e dalla Bibbia greca ortodossa, Wevers invece sceglie: dei figli di Dio; TM: dei figli di Israele], e fu parte del Signore il suo popolo, Giacobbe, porzione della sua eredità Israele” e non merita per questo la severa critica di Barth (Die kirchliche Dogmatik, vol. III/3, Theologischer Verlag, Zürich 1950, pp. 473-474), perché la variante è tutt’altro che trascurabile, sia dal punto di vista della storia dell’interpretazione che da quello strettamente testuale. Cfr. J. Daniélou, Op. cit., passim; Cécile Dogniez e Marguerite Harl (a c. di), La Bible d’Alexandrie, Le Deutéronome, Les Éditions du Cerf, Paris 1992, pp. 325-326; Luciana Mortari (a c. di), La Bibbia dei LXX. 1. Il Pentateuco, Ed. Dehoniane, Roma 1999, pp. 872-873.
[21] Ibid. q. 1, a. 5 ad 1. Qui l’Aquinate fa riferimento ad un famoso testo aristotelico, in cui lo Stagirita ci fa dono di un raro momento – nell’insieme delle sue opere esoteriche di scuola, per lo più molto aride – in cui traspare un fugace ma significativo slancio passionale ed affettivo: “Per quanto poco noi possiamo attingere delle realtà incorruttibili, tuttavia, grazie alla nobiltà di questa conoscenza, ce ne viene più gioia che da tutto ciò che è intorno a noi, così come una visione pur fuggitiva e parziale della persona amata ci è più dolce che un’esatta conoscenza di molte altre cose per quanto importanti esse siano” (De partibus animalium I, 5: 644 b 31-33). Sul punto si può vedere il mio: Liturgia: mistero, comprensione e partecipazione, in: Cristianità, anno XXII (2004), n. 322, pp. 12-18.
[22] Sant’Agostino, Enarratio in Psalmum 103, 1, 15: PL 37, 1348.
[23] “Angelus officii nomen est, non naturae. Quaeris nomen huius naturae, spiritus est; quaeris officium, angelus est: ex eo quod est, spiritus est, ex eo quod agit, angelus – La parola angelo designa l’ufficio, non la natura. Se si chiede il nome di questa natura si risponde che è spirito; se si chiede l’ufficio, si risponde che è angelo: è spirito per quello che è, mentre per quello che compie è angelo” (Ibid., 1348-49). Cfr. anche Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 329. Sergej Bulgakov, che ci ha dato una tra le più profonde riflessioni angelologiche della teologia moderna, è qui però troppo sbrigativo con sant’Agostino. Cfr. La scala di Giacobbe, cit., p. 148, n. 1; L’echelle de Jacob, cit., p. 129, n. 124. Anche in questo caso – come vedremo – si tratta di “distinguere nell’unito”.
[24] Arturo Blanco, Angeli, in: Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, a c. di Giuseppe Tanzella-Nitti e Alberto Strumia, Urbaniana University Press – Città Nuova, Roma 2002, vol. I, pp. 78-79.
[25] “Essere non è palesemente un predicato reale, cioè il concetto di alcunché che possa aggiungersi al concetto di una cosa. Esso è semplicemente la posizione di una cosa o di certe determinazioni come tali [Sein ist offenbar kein reales Prädikat, d.i. ein Begriff von irgend etwas, was zu dem Begriffe eines Dinges hinzukommen könne. Es ist bloß die Position eines Dinges, oder gewisser Bestimmungen an sich selbst]” (Immanuel Kant, Critica della ragion pura, B 626). Più avanti Kant dice ancora: “mediante il concetto l’oggetto viene semplicemente pensato come concordante con le condizioni universali di una possibile conoscenza empirica in generale, mediante l’esistenza viene invece pensato come contenuto nel contesto dell’esperienza complessiva” (B 628-629). Ci troviamo quindi davanti ad una tappa fondamentale del processo di Seinsvergessenheit (oblio dell’essere): l’essere è ormai ridotto a cosalità empirica, a puro dato di fatto sensibile, in procinto di essere definitivamente fagocitato dal pensiero nel fatale sviluppo dell’idealismo trascendentale.
[26] Cfr. per es. Joseph Owens, An Elementary Christian Metaphysics, Center for Thomistic Studies, Houston 1985, pp. 330-334.
[27] Romano Guardini, L’angelo. Cinque meditazioni, trad. it., Morcelliana, Brescia 1994, pp. 60-61. Sull’angelologia guardiniana si veda Silvano Zucal, Ali dell’invisibile. L’Angelo in Guardini e nel ‘900, Morcelliana, Brescia 1998.
[28] “L’esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 328).
[29] “Non è il molto sapere che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare le cose internamente” (sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 2).
[30] Ibid., pp. 61-62.
[31] Giacomo Biffi, La bella, la bestia e il cavaliere, Jaca Book, Milano 1984, p. 52.
[32] Die christliche Glaubenslehre in ihrer geschichtlichen Entwicklung und im Kampfe mit der modernen Wissenschaft dargestellt, Osiander, Tübingen / Köhler, Stuttgart 1840, vol. I, p. 671.
[33] Cfr. i miei: Il Demonio, in: Renovatio 21 (3, 1986), pp. 379-395; Demonologia e prassi dell’esorcismo e delle preghiere di liberazione, in: Fides Catholica. Rivista di apologetica teologica 1 (1, 2006), pp. 144-181.
[34] Rudolf Bultmann, Nuovo Testamento e mitologia [1941], trad. it., Queriniana, Brescia, 1970, p. 110.
[35]Cfr. per es.: Ferdinando Abbri, Immagini della natura e reincanto del mondo nella cultura nord-americana, in: Associazione Teologica Italiana, La creazione e l’uomo, Messaggero, Padova 1992, pp.145-156.
[36] Wolfhart Pannenberg, Systematische Theologie, vol. 2, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1991, p. 129.
[37] È certo per es. che i nomi degli angeli compaiono nella Bibbia e nella letteratura ebraica apocrifa solo nel periodo postesilico. “Dice rabbi Simon ben Lakish: “I nomi degli angeli sono stati anch’essi importati in questo modo dagli Israeliti al ritorno da Babilonia”” (Talmud di Gerusalemme, Roš Ha-šana 56d).
[38] Joseph Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2003, p. 62.
[39] Cfr. San Giovanni Crisostomo, In Gen. 3, 8 (hom. 17, 1), cit. in Dei Verbum, n. 13.
[40] Joseph Ratzinger, Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1993, p. 82.
[41] “Vulgär-Entmytologismus” (Hans Urs von Balthasar, Theodramatik, vol. II: Die Personen des Spiels, parte 2: Die Personen in Christus, Johannes Verlag, Einsiedeln 1978, p. 431).
[42] Anche nelle legittime opinioni teologiche che attribuiscono agli Angeli una qualche forma di strutturale legame con la materia, la scuola francescana nel suo insieme e ancora recentemente Karl Rahner, si tratta pur sempre di una materia ben diversa da quella del mondo della nostra esperienza: materia spiritualis.
[43] Op. cit., p. 71.
[44] André Caquot, Die biblische angelologie §1. Das Alte Testament, in: Georges Tavard, Die Engel (Handbuch der Dogmengeschichte, vol. II, fasc. 2b), Herder, Freiburg i. B. 1968, p. 2.
[45] “Métron anthrópou, hó estin anghélou“. La CEI traduce molto liberamente: “secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall’angelo”.
[46] Op. cit., trad. it., p. 169; trad. fr., p. 148.
[47] Vedi sopra, nota 19.
[48] Concilio ecumenico Lateranense IV (1215): Denzinger-Hünermann, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, Edizioni Dehoniane, Bologna 1995, n. 800. Cfr. anche Concilio ecumenico Vaticano I (1870), Costituzione dogmatica Dei Filius, cap. I: Ibid., n. 3002.
[49] San Tommaso d’Aquino, In I Sent., d. 17, q. 1, a. 1 ad 3.
[50] Giacobbe “Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa” (Gn 28,12); “In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Gv 1,51).
[51] Con solidissimo fondamento scritturale (Mt 18,10; At 12, 12-15; Dn 10,12-21) e patristico: J. Daniélou, Op. cit.
[52] Op. cit., trad. it., p. 54; trad. fr., p. 39.
[53] Ibid., trad. it., p. 34; trad. fr., p. 20.
[54] Cfr. Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, nn. 313-336.
[55] Cfr. il mio Appunti per una teologia del “primo peccato”, in: Sacra Doctrina 39 (1, 1994), pp. 25-50.
[56] John Ronald Reuel Tolkien, The Silmarillion, edito da Christopher Tolkien, Harper Collins, London 1999 (1977), p. 4; Il Silmarillion, trad. it., Bompiani, Milano 2002, p. 12.
[57] Ibid., p. 5; trad. it., p. 13.
[58] Ibid., pp. 5-6; trad. it., pp. 13-14.