Il Timone, novembre 2007
don Pietro Cantoni
“Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto” (Dt 18,15).
Nel libro del Deuteronomio, che è l’ultimo del Pentateuco e chiude quindi la collezione dei cinque libri che costituiscono la Torah – la “Legge” – c’è una promessa diversa da quelle che troviamo negli altri libri della Bibbia. Ad essa invita a guardare Joseph Ratzinger, nel libro Gesù di Nazaret per capire meglio la figura di Gesù così come ci è presentata dai Vangeli.
“Voi chi dite che io sia?” (Mt 16,15). Chi è Gesù di Nazaret? Questa è la domanda a cui vuole rispondere il testo; la stessa domanda a cui intendono rispondere i Vangeli. Per capire un libro, la prima cosa da mettere in chiaro è la ragione per cui è stato scritto. Il Deuteronomio è una raccolta di tre grandi discorsi di Mosè, l’uomo attraverso cui viene data da Dio al popolo di Israele la Legge, cioè l’insegnamento e la norma per cui un insieme di uomini diventa “popolo di Dio” che lo deve onorare e adorare in una terra da lui donata. È alla fine del secondo che Mosè comunica al popolo questa promessa di Dio: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto” (Dt 18,15).
Potrebbe sembrare che la promessa riguardi soltanto l’istituzione del profetismo. Molti sono infatti i veri e grandi profeti che sorgeranno a guidare, con la Parola di Dio, il popolo nelle sue vicissitudini: pensiamo soltanto ad Isaia, Geremia, Ezechiele… In realtà proprio alla fine del libro del Deuteronomio, in una sezione che è certamente tardiva rispetto al tempo del grande legislatore (narra infatti la morte di Mosè) troviamo questa “malinconica” considerazione: “Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia” (Dt 34,10). In quel tempo dunque – che è anche quello della definitiva rielaborazione e stesura del testo del Deuteronomio – in cui i profeti ci sono già stati e la terra promessa già conquistata, perduta e ritrovata, “Si era reso ormai evidente che l’occupazione della Palestina non era coincisa con l’ingresso nella salvezza, che Israele attendeva ancora la sua vera liberazione, che era necessario un esodo più radicale e che per questo c’era bisogno di un nuovo Mosè” (Gesù di Nazaret, pp. 23-24). La grandezza di Mosè stava nel suo parlare a tu per tu con Dio. Come se Dio fosse suo amico. Su questo eccezionale rapporto di Mosè con Dio, non solo di sottomissione ma anche di amicizia e straordinaria intimità, si è sviluppata nella patristica cristiana e poi anche nella scolastica una lunga discussione sulla portata e sui limiti di un rapporto mistico con Dio in questa vita. Un rapporto fatto cioè non solo di concetti elaborati a partire dall’esperienza terrena, ma consistente in un contatto diretto o quasi diretto frutto di una esperienza non riconducibile a quella della vita comune.
Questa straordinaria relazione con Dio, pur essendo tale che “Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es 33,11) aveva però dei limiti ben precisi: “(…) tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. (…) Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,20-22).
La promessa che Mosè comunica al popolo di un profeta simile a lui non si è dunque realizzata nel profetismo di Israele. L’esodo che lui ha guidato non è stato definitivo, ma richiedeva un compimento. Ci voleva un “nuovo Mosè”. Simile a Mosè, ma che superava al tempo stesso radicalmente la sua limitata figura, come è nella logica di tutte le profezie dell’Antico Testamento. Questo nuovo Mosè è Gesù: “Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,17-18). Il Vangelo di Giovanni e non soltanto, tutto il “Vangelo quadriforme” annuncia questo compimento. Un compimento che va oltre quanto ci si poteva aspettare. Gesù infatti non è solo un profeta che annuncia la parola di Dio, ma è la stessa Parola fatta carne. In lui c’è in pienezza quella visione diretta di Dio che in Mosè avveniva solo “di spalle”. Lui parla non in dipendenza da una scuola, ma con una autorità che scaturisce da un suo sapere personale: “Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado” (Gv 8,14). Il suo esodo non è più soltanto terreno, ma è l’ingresso in una nuova creazione (cfr. Eb 9, 11-24): “Dove vado io, voi non potete venire” (Gv 8,21). Nessuno può entrarvi per forza propria, ma solo in quanto – nella fede in Lui – si lascia coinvolgere in questo santo viaggio che da Dio a Dio ritorna. Qualunque interpretazione dei Vangeli che trascuri questo centro diventa fatalmente contraddittoria e a nulla vale quella “plausibilità”, per quanto dotta ed erudita, che le può venire attraverso una lettura limitata e circoscritta dei dati. Tra i dati bisogna allora operare una scelta e l’interpretazione sfocia inevitabilmente nella confusione delle lingue. Come la costruzione della torre di Babele.