di don Emanuele Borserini
Quello del tempo sembra proprio essere il tema che percorre e unisce tutte le parti della Liturgia della Parola di questa III Domenica del Tempo Ordinario. Ognuna di esse, infatti, presenta un chiaro riferimento cronologico: nella prima lettura “ancora quaranta giorni” (Gn 3,4), nel Salmo responsoriale “il tuo amore che è da sempre (Sal 24), nell’epistola “il tempo ormai si è fatto breve” (1Cor 7,29), nel Vangelo “il tempo è compiuto” (Mc 1,15). Il tempo, ce ne rendiamo conto facilmente, è una dimensione fondamentale dell’uomo, nessuno gli può sfuggire ed è forse l’unica cosa che, con il suo inesorabile scorrere, livella tutti gli uomini, ricchi e poveri, buoni e cattivi. Nessuno lo porta avanti o indietro a proprio uso e consumo. Ma pur nella sua apparente assoluta sovranità, non è nemmeno sufficiente a spiegare se stesso, abbiamo un disperato bisogno di qualcosa che gli dia una direzione diversa dalla distruzione a cui sembra portare tutto ciò che esiste. “Passa la figura di questo mondo” dice la seconda lettura, eppure qualcosa dovrà pur resistere! Il senso del tempo viene da fuori di esso, da qualcosa che sembra negarlo e invece lo esalta, lo rende profondamente logico: l’eternità. Noi siamo strutturalmente temporali, tanto che possiamo solo immaginare cosa indichi veramente questa parola: è qualcosa di radicalmente diverso dal tempo. Ma possiamo pensarli così: nel tempo le “cose” sono una dopo l’altra, nell’eternità invece sono una dentro l’altra, tutte contemporanee. Se il tempo è il giro di un orologio, l’eternità ne sarà il centro su cui le lancette sono imperniate: rispetto al centro, tutti i punti della circonferenza sono simultanei direbbe San Tommaso d’Aquino.
Tuttavia, c’è un momento in cui queste due dimensioni così diverse si incontrano, l’eterno entra nel tempo, il cielo scende sulla terra: è la liturgia. Quando una liturgia si apre è come se il tempo in qualche modo si fermasse e tutto ciò che è attuale e scontato decadesse in un istante. Può sembrare contraddittorio ma la liturgia è strettamente legata alla santificazione del tempo proprio in virtù della sua atemporalità. Osservando le lunghe teorie di santi che circondano le antiche basiliche bizantine ci rendiamo facilmente conto che la prospettiva è falsata, i loro piedi non poggiano su un vero basamento e dietro ad essi non c’è uno sfondo, ma solo oro, tanto oro. E questo non perché gli artisti dell’epoca non conoscessero le regole del disegno prospettico ma perché avevano chiara la coscienza che quando si entra in chiesa si entra in un’altra dimensione, un’altra prospettiva, un altro tempo.
Il tempo ormai si è fatto breve
Per questo motivo spesso la liturgia ci può apparire inattuale. E lo è, ma nel vero senso della parola. Per comprendere cosa significhi che è atemporale o inattuale dobbiamo fare un piccolo sforzo ed entrare nel significato del memoriale. In termini molto poco accademici, potremmo dire che ogni volta che partecipiamo alla liturgia noi siamo come presi dal nostro tempo attuale e messi davanti all’evento imperituro della salvezza: l’unico e irripetibile mistero pasquale del Signore. Dice don Divo Barsotti nel modo sorprendete e quasi scontato delle anime innocenti: “l’atto con cui Dio si rivela e si comunica al mondo non continua e non si ripete: rimane!” (Divo Barsotti, “Il mistero della Chiesa nella liturgia”). Con la venuta nel mondo di Gesù Cristo l’eternità e il tempo sono ormai inscindibilmente uniti pur rimanendo radicalmente diversi perché “prima che Abramo fosse, Io sono” (Gv 8,58). Nella liturgia noi vediamo con i nostri stessi occhi questo mistero. L’immagine liturgica più eloquente è quella del minuscolo e quasi invisibile rito offertoriale durante il quale il sacerdote versa qualche goccia d’acqua nel vino del calice dicendo “L’acqua unita al vino sia il segno della nostra unione alla vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”. In quelle gocce d’acqua ognuno di noi è come strappato dal proprio banco dove siede comodo e viene scaraventato dentro al vino che diventerà presto il sangue di Cristo, inserito nel suo unico e imperituro sacrificio.
Ad indicare cosa la Scrittura intenda per memoriale può bastare la perentoria certezza con cui Mosè nel suo secondo discorso presenta il Decalogo al popolo di Israele dopo la lunga rievocazione dell’attraversata del deserto: “Il Signore non ha stabilito questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che siamo qui oggi tutti vivi” (Dt 5, 2-3). Questa coscienza è espressa anche dalle parole della consacrazione del vino nella preghiera eucaristica I: il Signore accepit hunc praeclarum calicem, prese non il calice che aveva davanti allora ma “questo glorioso calice”, questo che anche noi abbiamo davanti, questo! Insieme alle parole del canone leggiamo quelle dell’orazione sulle offerte della II Domenica del Tempo Ordinario: “ogni volta che celebriamo questo memoriale del sacrificio del tuo Figlio, si compie l’opera della nostra redenzione”. C’è una perfetta identità tra gli eventi universali della salvezza e la loro celebrazione hic et nunc, adesso qui. Ma non si annulla solo la distanza tra passato e presente, avviene un’altra cosa altrettanto straordinaria. La liturgia è, secondo una definizione ossimorica e meravigliosa, “memoria del futuro”. Essa infatti, facendo memoria di un evento che nel tempo si è già consumato e rendendolo operante nell’oggi, mostra come tutta la storia andrà a finire perché nell’eternità passato, presente e futuro non sono uno dopo l’altro ma uno dentro l’altro. Celebrare la liturgia non è fare un ricordo dei bellissimi esempi di un Cristo vissuto tanti ani fa per provare a diventare più buoni ma con i piedi nel tempo mettere la testa nell’eternità, anticipare e produrre il futuro.
Con la liturgia noi siamo sottratti al nostro oggi passeggero per essere messi dentro all’oggi eterno di Dio e questo avviene per una forza che viene dall’alto, non certo per l’energia con cui noi ricordiamo perché la liturgia non è una magia. Può darne un’idea la descrizione delle messe di san Filippo Neri lasciataci da un suo contemporaneo: “gli astanti molto ben si accorgevano che più tosto agebatur quam ageret” (Pier Giacomo Bacci, “Vita di San Filippo Neri fiorentino”). Questo mistero stupendo di attiva passività rappresenta e celebra la struttura di ogni incontro con Dio che sarebbe di per sé assolutamente passivo perché Dio è già perfetto ma è anche attivo perché quel Tutto vuole avere necessità di noi. E non è solo un’illusione, davvero il Signore vuole agire attraverso di noi, tanto che san Paolo ci avvisa che “il Signore sta per schiacciare Satana sotto i vostri piedi” (Rm 16,20): è lui che lo vince ma lo vuole fare con i nostri piedi. Ogni volta che vengono celebrati i misteri del Signore l’inferno trema perché si affretta la sua sconfitta definitiva. Con la liturgia, io smetto di essere da solo a combattere la mia piccola battaglia contro il Nemico ed entro nel grande esercito di Dio.
Ancora quaranta giorni
Quello che facciamo qui sulla terra non è che l’inizio di una liturgia eterna. Facciamo un “gioco”, come direbbe Romano Guardini, che prepara a quella realtà. Ma come per i bambini il gioco che imita i grandi è la cosa più seria che fanno e davvero li prepara a diventare tali, così è per noi la liturgia. Il tempo del cristiano, si dice spesso, è una sorta di “già e non ancora”. E non è solo una questione cronologica, è ontologica perché Cristo è il nostro orizzonte di cammino ma anche di senso: il Signore è l’inizio e la fine ma è soprattutto il principio e il fine. I giorni tra la prima e l’ultima venuta di Gesù sono i tempi ultimi, i tempi ormai brevi in cui la liturgia ci da il già per vivere il non ancora. La liturgia è come una sosta in questo cammino: “Pregate, fratelli e sorelle, perché il sacrificio della Chiesa, in questa sosta che la rinfranca nel suo cammino verso la patria, sia gradito a Dio Padre onnipotente”, dice infatti una delle formule possibili per l’esortazione a pregare nell’Offertorio. La liturgia è il cielo sulla terra, l’irruzione dell’eterno nel tempo, la manifestazione del principio e del fine sul cammino tra l’inizio e la fine. Questo compimento non lo attende soltanto la Chiesa ma anche tutto intero il cosmo perché Cristo è il “sacramento universale di salvezza”, dice la colletta del martedì della II settimana di Pasqua. Per questo ogni più semplice celebrazione liturgica è un evento che sconvolge tutto l’universo.
Cristo è il centro dell’universo perché è colui che sta all’inizio e alla fine, l’alfa e l’omega. Seguendo ciò che il Signore stesso dice di sé nell’Apocalisse queste due lettere che sono la prima e l’ultima dell’alfabeto greco vengono incise dal sacerdote sul cero durante la grande Veglia pasquale. “Il Cristo ieri e oggi: Principio e Fine, Alfa e Omega. A lui appartengono il tempo e i secoli. A lui la gloria e il potere per tutti i secoli in eterno”: mentre vengono proclamate queste solenni parole, il celebrante vi incide anche il numero dell’anno corrente. La signoria di Cristo celebrata viene così applicata alla drammatica realtà del tempo e dello spazio in cui l’uomo si trova a vivere. Egli è entrato nel tempo una volta con il suo corpo fisico, vi entra continuamente e vi rimane con il suo corpo sacramentato e tornerà a chiudere definitivamente quel tempo in un modo misterioso ma che è certo che avverrà.
Aspettiamo il Signore, egli tornerà, ma non ci abbandona perché in modo sacramentale è continuamente presente nell’Eucarestia e questa presenza reale non è che il culmine degli innumerevoli modi in cui egli si rende presente per noi perché è un Dio verace colui che si presenta da sempre come il Dio fedele e ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20). Quello che si presenta davanti a noi è un mondo disperato che sembra chiedere molto ma in realtà ha bisogno di una sola cosa per vivere: la speranza che la sua vita abbia un senso. Noi non vendiamo illusioni approfittando di questo bisogno estremo dell’uomo ma dobbiamo fargli conoscere quella speranza che ha un volto e un nome preciso: Gesù Cristo nostro Signore ed “egli è Dio e vive e regna con Dio Padre nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli”.
Il tempo è compiuto
Sul tempo si gioca oggi una sfida determinante per noi. Sono ormai molti e non certo i più sprovveduti a lasciarsi ammaliare da quelle false spiritualità non cristiane che propongono una visione della vita basata su un tempo circolare che eternamente ritorna sempre uguale e da cui non si può che uscire, rigorosamente da soli. Passata l’ebbrezza della tentazione di dominio assoluto su questa circolarità, però si ripiomba inevitabilmente nello sconforto. Del resto, non possiamo nemmeno limitarci a contrapporre una semplice linearità del tempo che comunque non rende ragione di sé al cuore dell’uomo. Ebbene, la liturgia ci fornisce la vera risposta: il tempo è come un grande anno liturgico, una spirale di approfondimento continuo e progressivo del mistero di Dio fino alla sua piena manifestazione quando “lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2). Il tempo è una cosa sacra, consacrata da tre appuntamenti ben precisi: la creazione, la vita di Gesù e la sua parusia. All’inizio “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16), alla fine il Signore Gesù ricapitolerà (cfr. Ef 1,10) tutto in sé e al centro del tempo e dello spazio egli è venuto a dire la parola definitiva sul tempo con la sua resurrezione. Lo sguardo avanti, verso il tempo ma anche oltre il tempo, fisso su Gesù (cfr. Eb 12,2) è un elemento che potrà essere di grande incisività in un mondo sempre meno fiducioso e sempre più cinico perché ha in testa solo la morte, di Dio certamente, come ha insegnato Nietzsche, ma che ben presto si rivelata essere anche quella dell’uomo.
La radicale diversità della concezione cristiana del tempo rispetto alle culture precedenti la possiamo constatare anche in un dato archeologico molto interessante. Le grandi basiliche paleocristiane si chiamano così perché derivano la loro struttura dall’edificio pubblico romano che era identificato con questo nome. Si trattava di grandissimi spazi rettangolari coperti e caratterizzati dalla presenza di due absidi sui lati corti, l’ingresso sul lato lungo, un peristilio interno e molte absidiole minori o altri spazi ricavati lungo le pareti interne. Erano spazi strutturalmente policentrici ed entrandovi si doveva avere come la sensazione di entrare un circolo senza una precisa direzione. In ognuno di questi spazi lungo le pareti si poteva trovare una diversa attività sociale: una transazione economica, una causa giudiziaria, un comizio politico … Sicché erano anche fortemente polifunzionali. Quando il cristianesimo ereditò e accolse questa struttura che ben si adattava per le sue riunioni, la trasformò immediatamente e con tutta naturalezza informandola della sua concezione spaziotemporale. Ecco dunque che la basilica cristiana si presenta con una sola abside su un lato corto, l’ingresso sul lato opposto e una precisa convergenza verso l’altare. All’interno di essa tutto andava dunque a suggerire l’idea di un cammino con un preciso inizio, la porta, e una precisa direzione, l’Oriente – Cristo. Lo spazio della celebrazione del culto cristiano è stato giustamente definito da Severino Dianich in una conferenza di qualche tempo fa uno “spazio temporalizzato”: c’è un inizio e una fine. Ma non solo, soprattutto c’è un principio e un fine: il Signore Gesù Cristo.
Il tuo amore che è da sempre
La parusia è la pienezza della liturgia perché, essendo la liturgia l’evento pasquale in mezzo a noi, è naturalmente ordinata a compiersi nel ritorno glorioso del Signore risorto. Essa viene celebrata finché il Signore ritornerà, donec venias conclude l’acclamazione “Mistero della fede” che segue la consacrazione. Ma c’è di più, l’Eucarestia che è l’apice di tutta la liturgia è “escatologia realizzata” (Joseph Ratzinger, “Escatologia. Morte e vita eterna”) perché il fine di tutta la creazione, Gesù, è lì realmente presente. Centrale è dunque la celebrazione annuale della Pasqua che da origine a tutto il cammino dell’anno liturgico. Dall’attesa dell’Avvento, passando per il mistero dell’Incarnazione, raggiungiamo la celebrazione del senso di tutto, la risurrezione del Signore; nelle Domeniche del Tempo Ordinario continuiamo a celebrare la sua opera di salvezza invocandone il ritorno fino alla festa della sua sovranità già instaurata. Al termine di un anno ricominciamo, ma non daccapo! Il cammino nel mistero d’amore di Dio continua e si approfondisce. Così anche la domenica, Pasqua della settimana, da ordine e senso a tutti gli altri giorni. Sine dominico non possumus dicevano i martiri di Abitene, uccisi nel 303-304 perché non volevano e non potevano rinunciare alla celebrazione del giorno del Signore e noi “dobbiamo custodire la domenica e la domenica custodirà noi!” (CEI, “Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia”). La domenica è il giorno del Signore ma anche della Chiesa, dell’uomo e della famiglia. Comprenderlo ci sarà d’aiuto contro la schiavitù dell’utile a cui ci stiamo sempre più assoggettando. Il riposo si identifica oggi semplicemente con il tempo libero cioè un tempo non qualificato in sé ma identificato solo dall’assenza di impegni esponendosi così a diventare il tempo del consumo. Il riposo, invece, è il tempo della contemplazione, dell’interiorità, della gratuità, dell’incontro con gli altri e con il bello. Tutte cose che sono intrinsecamente inutili dal punto di vista della produttività ma ci riempiono il cuore. E il cuore conta molto più delle tasche nella ricerca del senso della vita. La liturgia non sottrae nulla alla carità perché “solo l’aver tempo per Dio ci dà tempo per l’uomo” (Joseph Ratzinger, “Dogma e predicazione”). Questo è il riposo, l’otium, non un vuoto far niente. Il giorno del riposo di Dio in cui tutti siamo invitati è il giorno eterno con lui, l’eterna liturgia del cielo, la “domenica senza tramonto” come lo descrive il Prefazio delle Domeniche del Tempo Ordinario X.