di don Emanuele Borserini
Oggi proveremo a fare un esercizio tipico del primo Oratorio di San Filippo Neri: il “ragionamento sul libro”. Per guidare i suoi figli spirituali sulle vie dello Spirito, il padre Filippo che ben conosceva i loro cuori e aveva una fantasia inesauribile metteva in pratica molti espedienti. Uno di questi era la lettura insieme delle lettere che i primi missionari gesuiti inviavano dalle Indie oppure di un buon libro per poi condividerne le impressioni e così esortarsi vicendevolmente all’amore di Dio. Anche noi, desiderando elevare la mente e il cuore a Dio, ci faremo aiutare da due testi scritti, anche se non sono un vero e proprio libro ma la buona provenienza è assicurata. Si tratta di due documenti di papa Francesco: la circolare della Congregazione per il Culto divino sullo scambio della pace nella Messa e il Messaggio per la Quaresima di quest’anno. Li ho scelti perché il primo è il documento liturgico più importante che è stato prodotto nel tempo trascorso tra gli incontri dell’anno scorso e questi; il secondo perché racchiude molti spunti interessanti e utili per interpretare il tema della pace e perché è il sussidio che tutti dovremmo tenere accanto alla Parola di Dio nella nostra preghiera quaresimale.
Abbiamo dunque davanti anzitutto un documento liturgico della Santa Sede che si occupa di tornare a disciplinare un evidente punto problematico del rito della Messa. Già da questi primi dati esterni possiamo ricavare un’osservazione interessante: non parliamo di un libello devozionale ottocentesco ma di un documento del 2014 che reca la firma di papa Francesco. Per contemplare la Verità è necessario un primo passo: il distacco dalla vacuità delle chiacchiere. Ebbene, anche papa Francesco, ovviamente attraverso i suoi collaboratori, si occupa di liturgia e vedremo che lo fa in modo chiaro e determinato, inserendosi nella lunga linea del Magistero dei suoi predecessori. Un insigne teologo e liturgista ha commentato che questa circolare della Congregazione per il Culto divino è “poco opportuna e male argomentata”. A queste apparenti deficienze risponde lo stesso documento invitando a formulare delle appropriate catechesi liturgiche. Quello che stiamo cercando nel nostro piccolo di fare. Ricordiamo poi che il Magistero non deve argomentare, questo è il compito della teologia, esso deve fornire alla riflessione alcuni punti fermi per aiutarla ma non si sostituisce allo sforzo razionale che le compete. Inoltre, coloro che si scandalizzano della scarsità argomentativa di questo caso sono gli stessi pronti ad insorgere ed accusare il Magistero di ingerenza quando provasse a dire qualcosa in più. Ecco perché è invece opportuno e appropriato il rilancio che questo testo fa al di là del livello degli argomenti storici e teologici. Esso, infatti, fa appello piuttosto al buon senso e restituisce all’evidenza il primato che le spetta sopra ogni ragionamento. È chiaro che un problema c’è ed è quello dell’allontanamento della prassi celebrativa dal senso più profondo di questo rito. Davanti ad un problema la tentazione che ci viene è sempre quella della fuga che poi si declina nelle due reazioni opposte: taluni preferiscono non vederlo e si illudono che tutto vada bene così com’è, altri presi da uno zelo che non gli è richiesto scelgono di liquidare insieme al problema anche l’oggetto problematico. Ci rendiamo facilmente conto dell’insufficienza di queste soluzioni. Ed ecco che invece, come sempre, la Chiesa ci invita ad andare oltre, a superare la tentazione, ad approfondire invece di risolvere: un problema si può sempre vedere anche sotto la specie dell’occasione. Anche nella vita spirituale ci sono continuamente intoppi, ma ogni volta il Signore ci dona la grazia di entrare più in profondità nel rapporto con lui. Giobbe avrebbe potuto liquidare Dio insieme alle sue prove e invece va oltre e fa la sua meravigliosa professione di fede: “io ti conoscevo solo per sentito dire ma ora i miei occhi ti hanno veduto” (Gb 42,5). Con i forti richiami della Parola di Dio e le precise indicazioni che la tradizione della Chiesa ci consegna, la Quaresima è davvero un tempo propizio per approfondire il nostro rapporto con Dio.
I riti della comunione
Il tema della pace ricorre più volte nel corso del rito eucaristico e possiamo facilmente notare come sia collocato in modo strategico. Lo troviamo infatti all’inizio e alla fine: nel saluto, in particolare quello del Vescovo che dice semplicemente come il Risorto che appare ai discepoli “la pace sia con voi” e nel mandato che, con varie parole accompagnatorie, sempre conclude “andate in pace”. All’interno di questa inclusione, la pace riemerge al centro dei riti di Comunione con il gesto di cui stiamo parlando. Questo primo sguardo strutturale ci permette di intravvedere la portata di questa parola per comprendere il mistero che si celebra. Il documento fa un’affermazione importante: “l’Eucarestia è per sua natura sacramento della pace”. Ecco perché è importante prendersi cura anche del gesto che la esprime.
La Messa si può giustamente considerare come un unico rito ma al suo interno essa è comporta da numerosi riti con una loro precisa struttura che tutti insieme concorrono alla nostra fruttuosa partecipazione al mistero della salvezza. Senza mai perdere lo sguardo unitario, possiamo rilevare che questi singoli riti sono raggruppati nelle due grandi parti della Messa: la liturgia della parola e la liturgia eucaristica. Inoltre, all’interno di esse, sono raggruppati secondo le loro finalità: abbiamo così i riti iniziali, quelli conclusivi, quelli d’offertorio… E tra questi gruppi ci sono anche i riti di Comunione. Essi prendono il nome da quello più importante e che anche nel linguaggio comune è chiamato Comunione, cioè la manducazione del corpo del Signore. Questa coscienza quasi scontata ci fa capire quanto sia determinante anche solo nella nostra percezione questo rapporto intimo che giunge fino a cibarsi dell’Altro. A questo culmine tutti gli altri riti di Comunione sono orientati come preparazione o esplicazione. Tuttavia, possiamo fare una riflessione ulteriore: ognuno di questi riti è di per sé un rito di comunione cioè un gesto che esprime un aspetto della comunione. Essi, dice il documento, “esprimono l’amore vicendevole prima di comunicare al sacramento” dell’amore. Anche lo scambio di pace, quindi, non è solo un rito preparatorio alla comunione estrema della Comunione eucaristica ma un rito che ci parla di un aspetto non secondario della comunione a cui il Signore ci invita. Si tratta di un segno, sicché non c’è bisogno di dare la mano a tutti i presenti. Tuttavia, proprio perché è un simbolo liturgico non è solo informativo, cioè non rappresenta vagamente la pace, ma è anche performativo, perciò con la persona con cui lo si fa, si è messo veramente e definitivamente pace.
Per comprenderli meglio come riti della comunione passiamo sinteticamente in rassegna questi riti di Comunione: il Padre nostro con il suo embolismo e la sua dossologia, lo scambio della pace con la sua preghiera e il suo invito, la frazione del pane con il suo canto Agnello di Dio, l’ultima confessione “O Signore, non sono degno”, la Comunione, l’orazione dopo la Comunione.
Guardando al modello di preghiera che ci ha insegnato Gesù, il Padre nostro, noi vediamo che la prima parola è Padre e la seconda è nostro: apprendiamo dunque a pregare rivolgendoci a Dio come Padre e pregando con gli altri suoi figli, con la Chiesa. Il dialogo che Dio stabilisce con ciascuno di noi, e noi con lui, nella preghiera include sempre un “con”. Non si può pregare Dio in modo individualista. Nella preghiera liturgica e, formati dalla liturgia, in ogni nostra preghiera, non parliamo solo come singole persone, bensì entriamo nel noi della Chiesa che prega (cfr. Benedetto XVI, Udienza generale del 3 ottobre 2012) perché “il cristiano, anche quando è solo e prega nel segreto, ha la consapevolezza di pregare sempre in unione con Cristo, nello Spirito santo, insieme con tutti i santi per il bene della Chiesa” (Institutio generalis de Liturgia horarum, 9). Al Pater recitato o cantato tutti insieme segue l’embolismo, una preghiera affidata alla voce del sacerdote che chiede la liberazione dal male sviluppando l’ultima domanda del Padre nostro che è quella più delicata perché non coinvolge solo noi e Dio come le precedenti ma anche un altro grande e potente mondo che è quello del male. L’oscurità di questo elemento impone che non lo trattiamo con leggerezza ma al contrario che deleghiamo per qualche istante la preghiera al sacerdote che da Dio stesso è stato scelto perché si occupi a tempo pieno di queste cose delicate. Infine, poiché quella battaglia, seppur ancora in gioco per noi, sappiamo per certo che è già stata vinta dal Signore Gesù, l’assemblea prorompe in un grido di gioia concludendo tutto il rito con una dossologia: “Tuo è il regno tua è la potenza e la gloria nei secoli”. In latino è più evidente la sua caratteristica conclusiva perché inizia con quia, come a dire: ti chiediamo tutto questo perché tu hai vinto.
Questa struttura illumina anche il seguente rito della pace perché è una lode alla maestà di Dio che ha vinto la guerra contro il male per ottenerci, a prezzo del suo sangue, la pace. Esso è composto dalla preghiera di richiesta della pace al Signore che analizzeremo in seguito e la proclamazione “La pace del Signore sia sempre con voi” che suona come la risposta affermativa alla nostra preghiera da parte del Signore stesso. Se il celebrante lo ritiene opportuno, prosegue con l’invito a rendere visibile l’ottenuta pace del cuore con un gesto esteriore che può assumere varie forme non specificate dal messale. Anticamente era un vero e proprio bacio, poi nel tempo si è passati all’abbraccio conservando il bacio come gesto estremamente significativo ma diretto ad un oggetto liturgico, l’instrumentum pacis o osculatorium, fino a giungere alla semplice stretta di mano di oggi.
Quello della pace e quello della frazione del pane sono due riti diversi e consecutivi. Solo il secondo è accompagnato dall’invocazione a Cristo, il vero agnello sacrificale che ci salva, il primo invece si esegue in silenzio. Peraltro, “frazione del pane” era anticamente il nome stesso della Messa. Questo è l’unico gesto violento all’interno della ripresentazione incruenta del sacrificio di Cristo sulla croce e ce ne mostra il significato. Quel pane non è solo il corpo ma il corpo spezzato, sacrificato, totalmente offerto perché diventi nostro cibo vitale. Il rito, di per sé brevissimo dello scambio di pace, si risolve immediatamente in questo gesto cruento che ci riporta immediatamente alla realtà di ciò che stiamo celebrando. Se anche le strette di mano ci avessero per un attimo distratto e illuso della tranquillità della pace, questo rito ci fa riprendere le misure del vero. Certo che se, mentre il sacerdote, affrettandosi ormai alla conclusione della Messa, spezza l’ostia nascostamente e, se anche la mostrasse, noi saremmo girati a portare un saluto a chissà chi, diventa molto difficile cogliere l’unità e il senso dei due riti. Spezzata l’ostia, il sacerdote ne mette un frammento nel calice: è anche questo un gesto antichissimo di comunione. Nei primi secoli, il papa mandava una parte dell’eucarestia consacrata nella sua Messa, tramite i diaconi, a coloro che celebravano lontano. Poi incominciarono a farlo anche i vescovi fuori Roma, ma quando il cristianesimo uscì dalle città verso le campagne e le parrocchie aumentarono di numero, non fu più possibile. Tuttavia, rimase come segno liturgico di comunione di ogni assemblea con la Chiesa locale e universale tanto che nella Messa solenne nella forma straordinaria il suddiacono resta ai piedi dell’altare rivestito del velo omerale per tutta la preghiera eucaristica in memoria di quando i diaconi portavano il fermentum della messa episcopale.
L’Agnello invocato con il canto della frazione del pane è davvero lì presente e nella formula latina con cui il sacerdote lo presenta all’assemblea ripete due volte l’avverbio ecce per sottolineare questa realtà, segno di una presenza sempre più forte che desidera fare comunione con noi. Iniziata con la sua Parola, resa evidente dal suo sacrificio, ora la presenza del Signore è giunta alla sua pienezza: non è più davanti a noi ma vuole essere in noi. Davanti a un tale privilegio non possiamo non riconoscere la nostra radicale indegnità che più che morale è ontologica; cioè non dipende dai tanti o pochi peccati che abbiamo fatto ma è strutturale: noi non meritiamo niente da Dio, è lui che “ci amati per primo” (1Gv 4,19) e ci chiama a fare comunione con lui.
La Comunione eucaristica custodisce un altro gesto rappresentativo della comunione: la processione infatti mostra il popolo di Dio che tutto insieme e ordinatamente va a lui. Far parte del popolo di Dio significa essere in cordata: abbiamo bisogno gli uni degli altri, ci dobbiamo aiuto e abbiamo una responsabilità reciproca.
C’è poi il silenzio del ringraziamento in cui ognuno parla cor ad cor con Gesù, ma non perché finalmente si è liberato dell’impiccio dei fratelli ma per trovare la forza di tornare immediatamente a pregare con le loro stridule voci, le loro puzze, le loro antipatie.
Ecco dunque l’orazione Postcommunio in cui i nostri personali ringraziamenti sono raccolti dalle parole solenni della Chiesa come avviene all’inizio della celebrazione con la Colletta. Tutto per il cristiano tende non alla sottomissione degli altri o di Dio, che è in sostanza la magia, e nemmeno alla fusione indistinta con essi che sarebbe panteismo, bensì a una relazione precisa che risponde al nome di comunione: perdersi per trovarsi proprio come Gesù sulla croce.
Vi lascio la pace, vi do la mia pace
È importante nella liturgia comprendere il rapporto profondo tra i gesti e le parole. Molti addetti del settore si interrogano su quale dei due elementi sia sostanziale e quale esplicazione dell’altro; in realtà c’è una perfetta circolarità e solo tenendoli insieme si possono comprendere nell’unità del rito che vengono a produrre. Leggiamo dunque anzitutto la preghiera che accompagna il rito della pace.
Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli:
“Vi lascio la pace, vi do la mia pace”,
non guardare ai nostri peccati,
ma alla fede della tua Chiesa,
e donale unita e pace secondo la tua volontà.
Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.
La struttura è quella tipica delle preghiere liturgiche: il ricordo della parola di Dio e la richiesta conseguente. Anzitutto c’è la parola di Cristo da cui tutto nasce. Dice il Signore: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore” (Gv 14, 27). Siamo nei discorsi dell’ultima cena, il testamento spirituale di Gesù in cui egli parla del suo ritorno al Padre e annuncia che manderà il Consolatore. Quella che sta donando è dunque la pace della comunione trinitaria. Come la liturgia ha fondamento nell’offerta eterna del Figlio al Padre nello Spirito Santo, così la pace che in essa ci si offre risiede anzitutto nella Trinità. Noi possiamo parteciparvi veramente ma è e resta sempre un suo dono. Dobbiamo anzitutto prendere consapevolezza, come leggiamo all’inizio del messaggio del papa, che “Dio ci ha amati per primo” (1Gv 4,19). Nella forma straordinaria è evidente che la pace di cui si parla viene da Cristo perché il sacerdote, prima di porgere il bacio di pace al diacono, bacia l’altare come a dire che anche lui lo riceve dal Signore risorto presente sull’altare. Anche la forma dell’abbraccio è significativamente un modo di passare qualcosa: chi riceve pone le mani sotto le braccia di chi consegna, il quale gli mette le mani sulle spalle accostando senza toccarsi il lato sinistro della testa. Poi il diacono la offre al suddiacono ed egli la porta fino al primo membro del coro dei chierici che assistono alla celebrazione e, uno dopo l’altro, essa raggiunge tutti. È l’unica pace di Cristo che vivifica tutta la Chiesa.
Ecco infatti che nella preghiera rituale si parla immediatamente della Chiesa e della sua fede. La fede della Chiesa non è la somma dei nostri personali atti di fede, ma un dato certo e che sempre ci supera, tanto ad essa proprio che la possiamo presentare a Dio quasi come “contraltare” di tutti i nostri peccati. Perché custodisce nel mondo la fede, la Chiesa è santa per definizione e lo è nonostante tutti i nostri peccati e al di là delle nostre capacità: questo ci è di consolazione.
Insieme alla pace, però, questa preghiera chiede un altro dono importante: l’unità. Questa è la seconda richiesta dell’unità che avviene durante la Messa perché la preghiera solenne per l’unità era la seconda epiclesi: l’invocazione dello Spirito Santo sull’assemblea appena dopo la consacrazione perché egli, dopo aver trasformato il pane e il vino nel corpo reale del Signore, trasformi anche l’assemblea nell’unico suo corpo mistico. L’unità è la condizione che mostra se c’è pace e al contempo la favorisce, è un circolo virtuoso. Uniti tra di noi e a Cristo possiamo nello Spirito Santo raggiungere il cuore del Padre che ci attende. Questa è la comunione a cui tendiamo: essere uno in Cristo Signore. I molti beni di questo mondo dividono,ci fanno fare la guerra, mentre il Bene di Cristo ci unisce e ci pacifica, dentro e fuori. La pace e l’unità della Chiesa sono ferite dai nostri peccati: un effetto importante e troppo spesso trascurato del sacramento della Riconciliazione è il ristabilimento del rapporto non solo con Dio ma anche con la Chiesa. Proprio il sacramento della Riconciliazione che ci va vedere quanto è necessaria la mediazione “faccia a faccia” con un altro uomo per parlare con Dio (cfr. Francesco, Omelia in Casa Santa Marta del 25 ottobre 2013) diventa, ahimè, spesso un affare privato.
La conclusione della preghiera riprende l’inizio ricordando a Cristo che è sua precisa volontà che la Chiesa sia una e in pace. In italiano sembra piuttosto la condizione a cui tutte le nostre preghiere devono essere sottoposte, “se lo vuoi”, mentre qui indica che questa è già la volontà di Dio. Ecco dunque che essere operatori di pace non è un optional ma risponde alla volontà espressa di Dio. Nella prima parte del messaggio per la Quaresima, il papa coglie un dato preoccupante: la “globalizzazione dell’indifferenza”: l’individualismo sembra orami spadroneggiare sul mondo. Questo rischio è sempre dietro l’angolo anche nella liturgia. Un esempio può essere il fatto che tutti tengano le braccia aperte durante Padre nostro. Quel gesto è specificamente presidenziale e nasce per le preghiere collette cioè quelle che attraverso la voce del presidente raccolgono le preghiere di tutti così che, come in un alveo disegnato dalla sue mani, esse salgono insieme al Padre; ma se ognuno con suo gesto esprime la volontà di mandargli la sua, roviniamo il significato di questo gesto antico e meravigliosamente eloquente. Accogliere la pace di Cristo è l’unica possibilità di portare davvero la pace nel mondo, se pensassimo di portarla a modo nostro non faremmo che campi di concentramento. Ecco che la sapienza della Chiesa, attraverso la liturgia, ci richiama continuamente al concreto: incominciamo a fare la pace col vicino di banco, poi si potrà ragionare di portarla tra le classi sociali e gli Stati! Sempre nel messaggio per la Quaresima il papa ci ricorda il dovere della missione: “quanto abbiamo ricevuto, lo abbiamo ricevuto anche per loro”. Ecco perché la pace ricevuta da Cristo è bene imparare da subito a scambiarla con i fratelli entrando così nella logica di Dio che è quella del dono e della gratuità. Nella forma ordinaria il primato di Dio non è dunque assente, anzi è tanto chiaro che è come dato per scontato. Semplicemente è messa maggiormente in evidenza la capacità dei cristiani di portare essi stessi la pace di Cristo, perché dopo aver partecipato ai misteri del Signore non possono essere più gli stessi. Hanno ricevuto un dono che chiede con forza di essere donato. Hanno avuto misericordia e non possono che donare misericordia. Nella celebrazione hanno visto che l’amore di Dio arriva fino alla croce: nella vita non possono che andare in croce gli uni per gli altri.
Il cuore virile di Gesù
Nella conclusione del messaggio per la Quaresima il papa rileva che “avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole”, come dice anche la Colletta della XXVI Domenica del Tempo Ordinario: “O Dio che manifesti l’onnipotenza soprattutto con il perdono e la misericordia”. E aggiunge di conseguenza la litania del Sacro Cuore fac cor nostrum secundum cor tuum. Il cuore di Gesù, pieno di misericordia verso tutti, è forte e virile: i gesti liturgici devono esprimere questa virilità perché celebrano il mistero di Cristo. Ecco perché il documento si permette di correggere certe pratiche che snaturano il rito rendendolo moscio perché non più significante. In Quaresima, poi, abbiamo anche la festa di San Giuseppe, altro modello di forza e virilità vissute nell’amore sponsale e paterno. Dobbiamo con consapevolezza ridare significato allo scambio della pace che è solo una parte del rito della pace, fino al punto che “si può omettere e talora deve essere omesso”, perché, ricorda il documento che il messale dice espressamente pro opportunitate. Il documento prende dunque in esame, elencandoli senza falsi pudori, alcuni veri e propri abusi che vengono compiuti fornendo a volte delle proposte di rimedio ma più spesso lasciando spazio alla riflessione e al buon senso.
Anzitutto l’invenzione di un canto della pace. Il canto è un elemento liturgico importante ma non è detto che debba accompagnare ogni gesto. La tradizione bimillenaria della Chiesa non ce ne ha consegnati in questo luogo del rito. Forse anche perché la richiesta solenne e in canto della pace era già presente nel canto successivo: l’invocazione dona nobis pacem dell’Agnus Dei. Certo che dopo cinquant’anni in cui l’Agnello di Dio è cantato pochissimo perché si è perso il senso dell’unitarietà dell’ordinario della Messa per cui se si canta una delle parti si cantano tutte come nella forma straordinaria, è difficile coglierlo. Anzi, il bisogno stesso di inserire un canto che chieda la pace, come farebbe l’Agnus Dei, ci deve richiamare all’importanza di tornare a curare il canto dell’ordinario della Messa. Poi lo spostamento dal posto: non ha senso andare da tutti perché o il gesto è veramente un simbolo oppure non ha niente a che vedere con la liturgia quindi non ha senso farlo nella liturgia. Se si sente il bisogno di fare una cosa non simbolica come dare la pace a tutti, siamo fuori posto. Peggio ancora è l’allontanamento del sacerdote dall’altare: ognuno ha il suo compito nella liturgia e quello del presidente è di presiedere non di vagare senza meta, è il primo e più importante simbolo liturgico della virilità di Cristo. Infine il fatto che lo scambio di pace sia diventato occasione di congratulazioni, condoglianze, auguri: se ne intravvediamo il senso profondo e il prezzo che questa pace è costata, non ci verrà nemmeno in mente di mischiare discorsi frivoli in un gesto che attinge a piene mani direttamente nel centro del mistero della comunione trinitaria.
Il documento riassume tutte le indicazioni in una parola: “sobrietà”. La sobrietà della virilità di Gesù deve emergere nella celebrazione del suo mistero. Quella sobrietà che permette di intravvedere il mistero della dimensione verticale del rito dietro a quella evidentemente orizzontale. È “un gesto umano elevato all’ambito del sacro” (dimensione orizzontale) per esprimere la capacità dei cristiani di portare nel mondo una pace diversa da quella del mondo, la pace che viene solo da Dio che ci ha amati per primo (dimensione verticale). Queste sono esattamente le due dimensioni compendiate nella croce dove si vede sommamente che Dio ci ha amato per primo. Nella croce sta la logica della comunione con Dio e con i fratelli: perdersi per trovarsi. Ma per farlo serve un cuore grande e virile come quello di Gesù: chiediamolo come grazia di questo cammino quaresimale.