di don Emanuele Borserini
Può capitare, leggendo o ascoltando le pericopi della sacra Scrittura proposte dalla Chiesa per la liturgia, di trascurarne l’aspetto letterale quasi che fosse un inutile orpello per correre a farne una globale lettura spirituale e personalizzata. Tuttavia, in questo modo, oltre a travisare la radicalità del mistero dell’Incarnazione che si manifesta in ogni forma di rivelazione, si rischierebbe di perdere tante piccole perle preziose racchiuse nella veste letteraria della Paola di Dio. Per esempio, nel Vangelo della XXX Domenica del Tempo Ordinario dell’Anno B (Mc 10,46-52), il cieco che urlando chiamava Gesù, quando si sente ascoltato e chiamato a lui, compie un’azione davvero insolita: non solo si alza per andargli ragionevolmente incontro, ma gettando via il suo mantello, balza in piedi verso Gesù come in preda ad un impeto di gioia. E, percorrendo tutta la liturgia della Parola di questa Domenica, effettivamente ciò che rimane nel cuore è un sentimento di gioia; in particolare la gioia del ritorno, del ritrovare qualche cosa a lungo cercata. Del ritorno a casa del popolo di Israele parlano l’oracolo del profeta Geremia della prima lettura (Ger 31,7-9) e il Salmo responsoriale (Sal 125) che utilizza la nota immagine in cui il ritorno gioioso del mietitore carico di covoni è messo in aperto contrasto con la consistenza minuta della semente da lui recata tra le lacrime all’andata. Il Vangelo, poi, ci presenta il cieco Bartimèo che ritorna a vedere. Così anche nell’antifona d’ingresso della Messa (Sal 105,3-4) c’è un accorato invito a gioire per chi cerca il Signore preso dal Salmo 105 che nei versetti successivi ripercorre tutta la storia della salvezza, il luogo in cui Dio si fa trovare e incontrare. Il balzo di Bartimèo, che condensa in modo plastico questa storia di gioia e di ritorno, è la medesima esperienza che anche noi possiamo fare in ogni celebrazione Eucaristica quando proclamiamo durante un breve ma intenso rito posto tra quelli iniziali la stessa parola con cui egli si rivolge a Gesù: eleison.
Per dare uno sguardo alla litania liturgica del Kyrie eleison, è necessario fare due precisazioni. Anzitutto, non dobbiamo farci trarre in inganno dalla sua struttura ternaria, perché non si tratta di una preghiera trinitaria ma cristologica. Tutte le tre invocazioni sono rivolte a Cristo: Kyrios (Signore) è, infatti, il titolo che i Vangeli riservano al Risorto, a Gesù che con la risurrezione si è finalmente manifestato come signore della vita e della morte. Inoltre, bisogna chiarire il suo carattere che non è in alcun modo penitenziale, si tratta invece di un atto di vera e propria lode. Del resto, possiamo facilmente notare come ordinariamente si collochi dopo l’assoluzione che conclude l’atto penitenziale. Ma anche nella forma tropata, quella cioè in cui le parole Kyrie eleison e Christe eleison sono inserite nell’atto penitenziale, leggendo il Messale si scopre che le brevi invocazioni che le precedono, dette appunto tropi, non enumerano alcun peccato ma sempre riportano un motivo di lode a Cristo per la sua opera di salvezza; non sono dunque centrate sulle nostre mancanze ma sulla sua munificenza. Anche la storia di questa antica litania ci aiuta a comprendere che non si tratta di una richiesta di perdono bensì di una espressione di lode: essa era un canto della liturgia laica (per quanto in Oriente si possa parlare di laicità) con cui la corte bizantina accoglieva solennemente il suo imperatore celebrandone la capacità di buon governo. Il verbo greco eleeo, che non ha corrispondenze dirette in latino e nemmeno in italiano, afferisce al campo semantico della misericordia come amore paterno e materno e indica un coinvolgimento nei fatti della storia umana che certamente comprende il perdono ma va bel oltre. Per questo, quando parve bene ai nostri padri introdurlo anche nella liturgia divina, fu usato per esprimere la gioia di sentire questo amore di Dio che si coinvolge con la nostra storia, la sua presenza premurosa, misericordiosa e indefettibile, tanto onnipotente che può manifestarsi senza paura “soprattutto con la misericordia e il perdono” (Colletta della XXVI Domenica del Tempo Ordinario). Il governo onnipotente di Dio si manifesta con la misericordia che mantiene in armonia l’Universo, così dell’imperatore veniva celebrata la capacità di governare in armonia l’impero mantenendolo nella pace. L’ampiezza di significato di questa parola ha fatto sì che nel suo uso liturgico non venisse mai tradotta ed è rimasta tale anche nel Messale in italiano seppur accanto all’espressione che certamente le si avvicina ma senza poterle rendere giustizia “abbi pietà di noi”.
Accanto a questa linea che percorre la prima lettura, il Salmo responsoriale e il Vangelo, possiamo individuare un’altra linea che si dipana nella seconda lettura e nella colletta alternativa assegnata a questa Domenica (quelle che si trovano in una sezione apposita al fondo del Messale e variano per ogni Domenica a seconda dell’anno A, B o C): il sommo ed eterno sacerdozio di Cristo. Anch’essa contribuisce ad illuminare il significato del Kyrie eleison che così assume la sua pienezza quale lode, non solo a Cristo, ma precisamente a Cristo Salvatore. È dunque un ringraziamento per l’avvenuta riconciliazione con Dio che Gesù ci ha ottenuto celebrando nella sua carne il sacrificio perfetto del suo sacerdozio quando ha compiuto il mistero pasquale della sua morte e della sua risurrezione.
Con questa chiara identità, Il Kyrie eleison si inserisce in modo organico nella struttura della Messa contribuendo, come rito di passaggio, al percorso lungo il quale la liturgia conduce per mano il fedele. Tale percorso inizia con la presa di coscienza dell’incontro con Dio, reso visibile dalla presidenza del sacerdote vestito in un modo non comune, dall’incenso che quasi offusca la vista delle cose che ci circondano e dal canto che ci unisce all’assemblea celeste; tutti elementi che richiamano le grandi teofanie dell’Antico Testamento. Anche le prime parole che si sentono pronunciare ci ricordano che non siamo riuniti per vari scopi sociali o in quanto parte di un’associazione, ma siamo convocati dalla santissima Trinità: “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. E a questa coscienza diamo tutti il nostro assenso dicendo ad alta voce “Amen”. La logica conseguenza di questo incontro è quella di riconoscersi radicalmente indegni di stare ad un tale cospetto; ed ecco l’atto penitenziale. La causa immediata di questa indegnità sono certamente i numerosi peccati personali, ma essa risiede anche solo nel fatto di essere creature davanti al loro Creatore. Dunque, l’atto penitenziale è riconoscere non solo di essere peccatori, è soprattutto riconoscere la verità su noi stessi cioè che siamo creature sempre bisognose del loro Creatore. Ma quando a questo atto di umiltà segue la risposta di Dio che con la sua misericordia ci ammette alla sua presenza, cosa impossibile e impensabile se non per la sua benevola iniziativa, ecco che il sentimento che nasce è quello di una frizzante gioia di gratitudine. La ricerca naturale del divino, la ricerca di un Dio buono, di quel Padre di cui la Chiesa parla al mondo è giunta finalmente a buon fine ed Egli stesso ci ammette al suo divino cospetto. E colui che ci ha permesso questo non è un eroe o un mago ma il Figlio di Dio stesso, la seconda Persona della Trinità che ci ha acquistato questo privilegio con la sua vita. Non si può dunque che balzare in piedi e lodarlo dicendo quanto è misericordioso e chiedendogli contemporaneamente che continui ad esserlo perché senza la sua intercessione non potremmo stare davanti al Padre. Tuttavia, il percorso della liturgia non si arresta qui. L’approdo a cui essa vuole condurre chi la celebra è qualcosa di ancora più folle: imparare a lodare Dio non per le sue opere, nemmeno per l’opera più grande che è quella della Redenzione, ma soltanto per la sua essenza, per il fatto stesso di essere Dio. Ed ecco il canto del Gloria nel quale, forse senza pensarci troppo, facciamo due affermazioni che hanno una portata enorme: “ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa” e “perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo”. Il fatto stesso che Dio sia Dio è fonte di gioia incontenibile e questo motivo di lode è un puro dono di Dio perché la sua perfezione supera ogni umana intuizione. Alcuni santi hanno provato ad esprimere questo tipo di amore scevro da ogni desiderio di riceverne benefici solo una volta giunti alle vette della vita mistica e solo con un linguaggio poetico e spesso al limite del comprensibile, e noi lo possiamo dire senza fatica ogni volta che proclamiamo questo inno! Il cammino perché queste parole dette con la bocca scendano davvero nel cuore e siano vita mistica è lungo e tortuoso ma, nella sua sapienza, la Chiesa ci ha donato la ripetitività della liturgia proprio perché avvenga questo. La nostra lode deve essere continuamente purificata dal suo Autore per liberarsi da ogni tentazione di scambio e diventi vera adorazione, cioè per passare dal ringraziamento per le opere meravigliose di Dio, che sarebbe comunque già un buon livello, a guardare la sua essenza stessa, ad amarlo perché è Dio e basta. L’adorazione è la preghiera perfetta, il dialogo vero con Dio e come i momenti più belli di tutte le relazioni interpersonali è del tutto inutile secondo la mentalità del mondo perché non produce nulla se non il piacere di stare con l’altro. Inutile agli occhi del mondo, non possiamo dire nemmeno che serva a Dio, lo afferma il prefazio comune IV: “tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva”. Eppure è l’attività più importante che svolgiamo perché è quella che più somiglia al modo perfetto di amare di Dio. Solo ora che la lode è stata purificata da ogni legame alla transitorietà e si è ancorata direttamente all’essenza di Dio, si può incominciare a chiedere qualcosa nel modo corretto ed ecco, allora, la Colletta, la preghiera solenne che con le parole della Chiesa riassume tutte le intenzioni più recondite che stanno del cuore dei fedeli. Con la colletta, nell’alveo disegnato dalle mani aperte del sacerdote passano tutte le nostre preghiere personali salendo al Padre per la mediazione perfetta di Gesù Salvatore.
Si è così aperto un itinerario spirituale tanto profondo quanto alla portata di tutti. Balziamo dunque senza timore incontro al nostro Dio che ci attende per farsi conoscere e amare sempre di più.