La lode, dono di Dio

di don Emanuele Borserini

– La lode, dono di Dio –

Lettura della Colletta della XXXI Domenica del Tempo Ordinario

 

 

– Tutta la liturgia della XXXI domenica del Tempo ordinario, ma soprattutto con la Colletta e il Vangelo, ci invita a dare uno sguardo ad un tesoro che a san Filippo stava molto a cuore: l’umiltà. Egli non ha lasciato pressoché niente di scritto, ma fino ad oggi si sono tramandati numerosi suoi detti; uno dei più frequenti era: “figlioli, siate umili, state bassi!”. La liturgia, la preghiera della Chiesa, la festa delle nozze dell’Agnello, il cielo sulla terra è una palestra per l’umiltà, un’occasione formidabile per imparare che la vita cristiana è un gioco bellissimo in cui però le regole le detta Dio.

La Colletta è la preghiera solenne della Messa che, con le parole della Chiesa, riassume tutte le intenzioni più recondite che stanno del cuore dei singoli fedeli presenti. Infatti, dopo l’invito del sacerdote “Preghiamo”, dovrebbe esserci qualche istante di silenzio proprio perché ognuno possa formularle. Con la preghiera colletta, che significa raccolta perché deriva dal verbo latino collĭgo – con-lĭgo, cioè riunisco, collego, nell’alveo disegnato dalle mani aperte del sacerdote, passano tutte le nostre preghiere personali e possono salire al Padre per la mediazione perfetta di Gesù Salvatore, unica via per arrivare al Padre. Le intenzioni personali formulate nel segreto del cuore le ritroveremo, così, espresse al meglio nella preghiera che il sacerdote pronuncia a nome della Chiesa: per vivere bene la liturgia dobbiamo imparare a ritrovarci in quello che fa la Chiesa, ad identificarsi con la Sposa di Cristo. Il primo passo nell’umiltà a cui la liturgia ci conduce per mano è proprio il sentirsi parte di un corpo, dove ogni cellula ha la medesima dignità delle altre ma dove anche ci sono organi preposti agli altri, che hanno il preciso dovere di guidare gli altri; un corpo dove tutto è regolato dall’ordine perché tutto possa funzionare al meglio; dove non c’è un membro che possa proclamarsi arbitrariamente superiore agli altri ma ognuno, svolgendo la funzione che gli è propria, contribuisce al buon funzionamento di tutti gli altri. La coscienza di essere parte delle numerose membra dell’unica Sposa di Cristo, che ciò che avviene ci coinvolge nella misura in cui lo compiamo in comunione con tutta la Chiesa, che la festa a cui partecipiamo è quella di Cristo e della sua Sposa e non il nostro palcoscenico, è un buon punto di partenza per imparare a stare bassi.

Ancora, guardiamo a che cosa sia la Colletta: essa è un’orazione. Il termine “orazione” viene dal latino oris-ratio, che significa discorso ben fatto. La preghiera della Chiesa ci insegna a parlare con Dio ed essa, come una mamma, ci pone sulle sue ginocchia e ci insegna a parlare; noi balbettiamo e lei interpreta i nostri balbettii e li esprime in modo articolato ed organico. La coscienza di essere davanti a Dio dei bambini che hanno ancora bisogno di essere presi in braccio per salire in alto e di qualcuno che faccia da tramite tra il loro linguaggio e quello degli adulti, è un secondo aiuto a stare bassi.

Ogni colletta è formata da due parti: un corpo, che varia per ogni orazione e una conclusione che invece è sempre la medesima. Il corpo, a sua volta, è formato da due momenti: anzitutto, viene fatta memoria di un attributo di Dio oppure un’opera particolare della salvezza, a questo fondamentale atto laudativo segue come conseguenza la richiesta che la Chiesa gli propone. La struttura della colletta esplicita la struttura di ogni nostra preghiera perché anche quando essa appare solo come una serie di richieste a Dio, in realtà l’aspetto laudativo è fondamentale perché se non fosse per la fede nella sua onnipotenza e misericordia, come dice proprio la colletta di questa domenica, cioè nella sua capacità e nel suo desiderio di farcele sperimentare, non potremmo nemmeno chiedere. Ogni preghiera è una lode a Dio perché, come avete approfondito stamattina, ogni nostra domanda è in realtà una risposta (cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2561). La conclusione delle collette è un piccolo trattato di teologia liturgica perché esprime la modalità di ogni celebrazione; infatti, la nostra preghiera è sempre rivolta al Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Origine e termine di tutto è sempre il Padre, ma egli stesso ha stabilito che tutto avvenga attraverso il Figlio, la sua rivelazione come la nostra risposta; infine, questa relazionalità fondamentale ha un ambiente che la rende possibile, lo Spirito Santo mandato da entrambi a soffiare la lode all’orecchio del cuore dell’uomo. L’iniziativa e l’appello appartengono a Dio: stiamo bassi!

Alla Colletta, come a tutte le orazioni e a molti altri elementi liturgici, l’assemblea risponde con voce corale e decisa “Amen”. È una parola che viene dall’ebraico ed è stata conservata in questa lingua, come la litania del Kyrie eleison si è conservato in greco. Probabilmente, vuol dire “mi appoggio”. Vale la pena appoggiarsi se ciò su cui ci si appoggia è saldo, se cioè rimane fermo e non muta e Dio è davvero fedele alle sue promesse, non certo il nostro trasporto, la nostra concentrazione, i nostri meriti. Non abbiamo nemmeno le parole per tradurre concetti così importanti: stiamo bassi!

Veniamo finalmente a ciò che dice la Colletta di questa domenica: “tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti in modo lodevole e degno”. Non solo si parla di servizio, quindi già stiamo bassi, ma addirittura che non siamo capaci di servire bene: stiamo bassi! Davvero, nessuno ha la ricetta per servire Dio nel modo che gli spetta; questo vale per il servizio liturgico ma anche per il servizio dell’evangelizzazione de il servizio di Dio attraverso il servizio ai fratelli. Questa verità è espressa anche dalla colletta della I settimana del Tempo Ordinario: “Ispira nella tua paterna bontà, o Signore, i pensieri e i propositi del tuo popolo in preghiera, perché veda ciò che deve fare e abbia la forza di compiere ciò che ha veduto”. Questa preghiera non ha solo un aspetto morale, anzi, esso è secondario perché il riferimento esplicito è al “popolo in preghiera” cioè all’assemblea liturgica. La Chiesa, proprio all’inizio di quello che è giustamente definito il “tempo della Chiesa”, chiede a Dio di mostrare ciò  che deve compiere e la forza per farlo perché sa che la liturgia è cosa seria, non scontata, che Dio stesso ispira e guida. L’uomo allora diventa cosciente che non può fare da sé il culto, egli affermerebbe il vuoto se Dio non si mostrasse. Durante le trattative con il faraone, Mosè giustifica la pretesa di portare via anche il bestiame dall’Egitto dicendo: “Noi non sappiamo ancora quel che dovremo sacrificare al Signore” (Es 10, 26). Se Dio non lo mostra, l’uomo in base ad un’intuizione naturale, che comunque è stata messa nel cuore di ogni uomo da Dio, può giusto innalzare altari al “dio ignoto” (At 17, 23). Più avanti, quando si tratterà di costruire e arredare la tenda in cui il Signore stesso abiterà in mezzo al suo popolo, egli dirà ancora a Mosè: “Esegui tutto secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte” (Es 25, 40, ripreso da Eb 8, 5). Solo Dio può fare il dono di servirlo “in modo lodevole e degno”: stiamo bassi!

A questo proposito, il Prefazio comune IV, che ha come titolo proprio “La lode dono di Dio”, fa un’affermazione molto interessante: “Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva”. Lodare Dio con la Chiesa cioè celebrare la liturgia non serve certo ad aggiungere qualcosa alla perfezione di Dio, tuttavia è vero che gli inni di benedizione “ci ottengono la grazia che ci salva”. Ebbene, la grazia che ci salva è proprio la grazia dell’umiltà; la celebrazione della liturgia ci tiene bassi e tenendoci bassi ci fa simili a Dio perché l’umiltà è la virtù che ci fa più simili a Dio e per questo ci salva. L’umiltà di Dio, eterno ed infinito, che si fa limitato da un corpo e mortale per entrare nel tempo e nello spazio in cui siamo noi. L’umiltà di Dio, altissimo e onnipotente, che si fa basso e vulnerabile per raggiungere noi, bassi che si credono alti.

L’invito di Gesù a Zaccheo del Vangelo di questa domenica, “scendi subito” (Lc 19, 5), non è che un invito all’umiltà, a scendere dal nostro piedistallo fino al livello di Dio. Noi pensiamo, in modo logico, di dover andare in alto per raggiungere Dio che sta nei Cieli. Ma in questo caso, per salire bisogna scendere. Questo è ciò che compete a noi: salire sarà tutta opera di Dio. Per trovare l’Altissimo, bisogna cercarlo in basso perché egli stesso, per la sua misericordia, si è abbassato fino a noi. Dio che è la Verità di tutto, ci mostra anche la verità su di noi: il nostro vero livello è quello bassissimo a cui si è voluto trovare lui e non quello che supponiamo di possedere, di aver raggiunto, conquistato. Il problema è che il nostro orgoglio, che è il contrario dell’umiltà, non ci permette di vederlo. Se non accettiamo nemmeno di scendere al livello della verità di noi stessi, come potremo pretendere di innalzarci fino alla verità di Dio?

Questa discesa dell’Altissimo al livello umano, quello vero e non quello supposto, è la sua misericordia. E la Misericordia è celebrata dalla prima lettura di questa domenica, presa dal libro della Sapienza, che culmina nel passaggio: “Hai compassione di tutti, perché tutto puoi” (Sap 11,23). Il salmo responsoriale, poi, amplifica la risonanza delle parole asciutte, come è tipico dei proverbi, della prima lettura e innalza la lode a Dio per la sua misericordia descritta come “tenerezza per tutte le creature”. Parole della Scrittura riecheggiate perfettamente dalla Colletta, ormai divenuta famosa in questo anno giubilare, della XXVI domenica del Tempo Ordinario: “manifesti la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono”. Tutto questo sembra portare in sé un’incongruenza fondamentale: la causa di un segno di fragilità come la compassione è l’onnipotenza. Per noi è letteralmente impossibile pensare che onnipotenza e debolezza possano coesistere; nella nostra piccola logica, sono l’una l’opposto dell’altro. Nella sapienza di Dio, invece, sono esattamene sinonimi, e nel loro significato e nel loro dispiegarsi nella storia. C’è un evento della storia che ha mostrato una volta per tutte che è così: la croce di Cristo. Nel momento dell’estremo abbassamento di Dio, egli è perfettamente glorificato, secondo il linguaggio del Vangelo di Giovanni, e trionfa. Quando tutto sembrava deciso a favore del male che ormai pareva aver annientato anche Dio, averlo sopraffatto e inghiottito nella sua stessa negazione che è la morte, Dio si sottomette e si abbassa a seguirlo fino all’estremo a cui quello voleva condurlo, per poi dal di dentro distruggerlo definitivamente. Sulla croce si mostra una logica diversa, una logica così grande che riesce a sorprendere, e così a vincerla, anche la ferrea e fredda razionalità del demonio.

Proprio perché onnipotente, Dio può permettersi di farsi ferire e anche uccidere, in una parola di essere misericordioso: egli non ha niente da perdere! Le nostre mancanze di misericordia, di carità, le nostre piccole cattiverie e infedeltà, il nostro mostruoso orgoglio nascono proprio dalla paura, la paura di perdere quel poco che abbiamo o che supponiamo di avere e che costituisce il nostro piccolo tesoro. È la paura la forza del diavolo in noi. Dio non ha paura e, ogni volta che nella storia della salvezza si rivela personalmente, inizia sempre dicendo “non temere”, da Abramo (Genesi, capitolo 15) fino alla lettera alla Chiesa di Smirne (Apocalisse, capitolo 2). Come dei piccoli Gollum, la paura di perdere il bene di sentirci alti ci spinge a proteggerlo fino a perdere di vista quale sia il nostro vero bene e addirittura operare assurdamente contro di esso. Rivivere nella Messa il sacrificio della croce ci ottiene, come dice l’orazione sulle offerte di questa domenica, la “pienezza della tua misericordia” perché per accedere alla conoscenza di Dio bisogna stabilire con lui una sintonia, assumere la sua medesima logica. Non perdiamo nulla con Dio! Non abbiamo paura! Anche quando sembra esattamente il contrario, sembra che ci chieda qualcosa a cui teniamo tanto. Vivere la misericordia significa avere l’umiltà di accettare che tutto, anche la lode, è un dono di Dio.

“Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5, 8) ascolteremo tra pochi giorni nella liturgia della solennità di tutti i Santi. La purezza di cuore è questo distacco dai nostri piccoli tesori, dalla paura di perderli per poter così vedere il vero tesoro. Coloro che “non hanno amato la loro vita fino a morire” (Ap 12,11) sono coloro che hanno vinto l’accusatore perché non hanno avuto paura di perdere tutto, fin anche la vita finita, per ottenere quella infinita; coloro che non sono stati così sciocchi da essere attaccati alla vita fino a morire di questo attaccamento, come Gollum; coloro, cioè, che non si comportano in modo paradossale ma veramente logico. Dobbiamo cambiare mentalità: la logica giusta è quella di Dio! Stiamo bassi!

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