– di Emanuele Borserini –
Cogliamo volentieri l’occasione delle mostre presentate in questi giorni da due famosi atelier di paramenti sacri per proporre qualche riflessione riguardo a questo elemento che nella liturgia è tanto presente quanto scarsamente considerato. Una proposta che, fedelissima al titolo “per una teologia”, cercherà di offrire solo qualche spunto ad una personale valorizzazione della nostra esperienza liturgica che irrinunciabilmente passa anche attraverso i suoi abiti. Da un lato può essere la loro stessa necessità che spesso porta a ritenerli così scontati da non dover diventare oggetto di studio. Dall’altro, tuttavia, non si può non rilevare come, soprattutto da parte degli “adetti ai lavori”, ci sia una sorta di malcelato pudore a parlarne. Sembra sia doveroso premettere sempre qualche devota parola di giustificazione, di presa di distanze come fosse un argomento che richieda moralmente di schierarsi e possibilmente a suo detrimento. Ebbene, questo atteggiamento, come ogni approccio non equilibrato, non è che il sintomo della mancanza di una riflessione seria attorno all’argomento, una riflessione che sia teologica e specificamente liturgica. E la liturgia ha il suo modo peculiare di fare teologia: quello riassunto perfettamente da Sacrosanctum Concilium nelle parole per ritus et preces (SC 48), cioè attraverso il suo complesso di parole e di gesti. È per questo che il primo passo sarà quello di guardare all’esperienza che del paramento sacro facciamo nella celebrazione dei divini misteri. Muovendo da questa fondamentale osservazione, nel confronto con la storia, il magistero (che anche su questo argomento non manca) e soprattutto con la Sacra Scrittura, si potrà costruire una vera riflessione.
È dunque necessario anzitutto allargare lo sguardo ben oltre a “come si veste il prete per dire messa” (e appositamente uso un linguaggio evidentemente scorretto) per impostre il problema correttamente e darci la possibilità di coglierne tutte le potenzialità. Possiamo farlo considerando, accanto all’utilizzo ripetuto e ripetitivo dei paramenti, che molti di essi sono anche oggetto di una consegna; anzi, il gesto liturgico che principalmente si lega ai paramenti, prima ancora dell’indossarli, è la traditio che costituisce anche un rito esplicativo della celebrazione di ben due sacramenti. Questa considerazione ci permette di allargare ulteriormente lo sguardo perché uno di questi due sacramenti è il Battesimo (l’altro è l’Ordine in tutti i suoi tre gradi). Parlare di paramenti significa dunque parlare di un’esperienza che riguarda anche tutti i fedeli laici non solo in quanto li vedono utilizzare da altri (i ministri) ma anzitutto perché ad ogni cristiano è stato consegnato un paramento al suo ingresso nella Chiesa insieme al diritto (e dovere) di pregare con la Chiesa cioè di celebrare la liturgia. Inoltre, la preghiera che accompagna la consegna della veste bianca del Battesimo, mentre la descrive come il segno dell’essersi rivestiti di Cristo (induistis), dà ai neofiti il mandato di portarla “senza macchia per la vita eterna” (perferatis in vitam aeternam) aprendo così ad una vera e propria continuità di quel primo gesto. Ogni volta che nel rinnovo delle promesse, nell’aspersione domenicale o anche solo intingendo le dita nell’acqua benedetta della pila il cristiano farà memoria del suo Battesimo, egli tornerà anche a rivestirsi del paramento che gli è stato cosegnato, dell’abito richiesto per la festa di nozze (cfr. Mt 22,11-13) dell’Agnello che inizia con la sua celebrazione e si compirà in Cielo. Guardando ora a quei paramenti riservati ai sacri ministri, non si può non rilevarne la grande quantità e la loro appartenenza a tipologie di vestiario diverse: ci sono le sottovesti (come l’amitto o il camice) che non esistono se non per essere ricoperte dalle sopravvesti (come la casula o il piviale o la dalmatica) e non bisogna poi tralasciare gli accessori come i vari tipi di copricapo (la mitra, lo zucchertto, la berretta), le cinture (zona e cingolo), gli ombrelli, i baldacchini e, nella forma straordinaria, le calzature e i guanti. Ci sono poi paramenti e abiti per le diverse celebrazioni (l’Eucaristia, la Liturgia delle Ore, le processioni…) e le diverse funzioni svolte dai ministri nella medesima celebrazione (la presidenza, la concelebrazione, l’assistenza corale e, nel caso del vescovo, anche pontificale). Ci sono poi paramenti che, da questo punto di vista, presentano un’identità ibrida: per esempio, la stola è di per sé una sopravveste ma diventa una sottoveste che sparisce sotto la casula (dando così luogo all’equivoco in cui cadono alcuni sacerdoti che non la usano “perché non si vede” mortificando questa ricchezza). Insomma, si tratta di un guardaroba alquanto variegato.
Nella tradizione cristiana, però, non si rivestono soltanto le persone ma anche le statue dei santi e della Vergine Maria. Questa pratica, oggi un po’ fuori moda, costituisce un ampio campo di studi sia per la storia e la tecnica del tessuto sia per l’antropologia culturale mentre in liturgia viene collocata, quasi in second’ordine, tra i numerosi paragrafi del vastissimo capitolo della pietà popolare. E, ancora una volta, bisogna guardare soprattutto alle azioni, se non strettamente liturgiche comunque molto affini, con cui in alcuni luoghi le statue vengono svestite e rivestite pubblicamente secondo un preciso cerimoniale. Ma nemmeno con le statue si esaurisce il mondo del rivestire liturgico: forse ancora più importante è la paratura di tutto l’ambiente celebrativo. Anche qui la gamma è ampia: dai tessuti previsti espressamente dai libri liturgici come la tovaglia dell’altare e il conopeo del tabernacolo fino al loro dilatarsi negli artistici drappi che modificano totalmente o in parte l’aspetto delle chiese a seconda dei tempi liturgici. Qui si può ulteriormente distinguere tra un coprire per esaltare come i damaschi che foderano le pareti nelle feste o il velo del calice e un coprire per nascondere come la velatura delle croci e delle immagini dalla V Domenica di Quaresima al Venerdì santo. In realtà, le due azioni sono sempre compresenti nell’unico atto del rivestire e, quasi come nella dinamica del Cantico dei Cantici, il celare segnala sempre una presenza ulteriore e la manifestazione non è mai totalmente privata di un velo che la renda ancor di più castamente desiderabile.
Così, tornando all’utilizzo dei paramenti da parte delle persone, si può osservare che esso produce contemporaneamente due effetti contrapposti: identificazione e defamiliarizzazione. Anzitutto essi identificano il grado del ministero: uno che indossa la mitra non potrà che essere un vescovo o al massimo un abate, rivestito della casula o pianeta non sarà che un presbitero o un vescovo, con la dalmatica certamente un diacono, se ha solo il camice potrebbe trattarsi di un accolito o un lettore istituiti, la stola appartiene esclusivamente alla dignità sacerdotale (anche quando non si vede)… A colpo d’occhio, dunque, possiamo riconoscere colui che abbiamo davanti. Allo stesso tempo, però, ogni paramento tende a far sparire l’individualità di chi lo indossa nascondendone le forme corporee. Ce ne rendiamo conto facilmente grazie all’ampiezza delle moderne casule; addirittua il velo omerale, se indossato correttamente, cela anche le estremità che di solito sono scoperte come il volto e le mani. Nascondere e manifestare: i due atti divini che misteriosamente si condensano nella Rivelazione, i due aspetti della celebrazione dei divini misteri che in quanto tali non possono che darsi sacramentalmente.
Sempre riguardo alle azioni, consideriamo quanto è importante il vestire ma anche lo spogliare. Pensiamo alla deposizione della casula da parte del presidente per la lavanda dei piedi nella Messa della Cena del Signore, oppure, in modo ancora più evidente, la completa spoliazione della chiesa del Venerdì e Sabato santo. Questi sono i giorni più solenni dell’anno liturgico, eppure la loro solennità si esprime in modo diametralmente opposto all’accumulo di parature che la parola solennità può superficialmente evocare. Anzi, è proprio vedendo l’ambiete celebrativo nudo come non mai che la nostra prcezione è immediatamente sollecitata e, senza ulteriori spiegazioni, comprende che sta per accadere qualcosa di importante come non mai.
In rapporto alla gestualità liturgica, bisogna anche ossservare quanto i paramenti impediscano i movimenti liberi e improvvisati mentre, arricchendo le possibilità espressive della figura umana, le dimensioni e i rapporti tra gli stessi movimenti e creando forme nuove, esaltano i gesti propri della liturgia. Non solo la foggia, ma anche il colore è parte integrante ed altrettanto eloquente del paramento sacro e ne dilata l’espressività. In un confronto serrato con la letteratura apocalittica sia dell’Antico Testamento sia del Nuovo, possiamo ricostruire i profondi messaggi di questo linguaggio non verbale, anche se oggi, avendo smarrito l’immediatezza dell’uomo antico e medievale, dobbiamo sempre ricorrere all’allegoria cioè ad un concetto legato arbitrariamente al colore (per esempio, il verde e la speranza); tuttavia con i loro richiami naturali (per esempio, il rosso e il sangue o il bianco e la luce), i colori possono dirci ancora molto.
Considerato quanto i paramenti rendono diverso nella persona o noll’ambiente, dobbiamo anche guardare a come essi, di ritorno, informino la quotidianità di chi è chiamato ad usarli nei contesti celebrativi. Si pensi all’abito religioso e all’abito ecclesiastico (talare o clergyman) che proseguono nella quotidianità alcune caratteritiche peculiari dei paramenti come l’identificazione e la defamiliarizzazione e riportano, ogni volta che vengono indossati, al giorno della loro consegna ufficiale e, al contempo, impediscono certi movimenti e ne esaltano altri. Ma si pensi anche all’abito pulito e ordinato che si sceglie per partecipare all’Eucaristia domenicale o a un’altra celebrazione solenne. Oggi, inoltre, siamo abituati a linee produttive dedicate ma fino alle rivoluzioni industriali non c’era una sostanziale differenza tra la produzione dei tessuti per il guardaroba e di quelli per la sacrestia. Tale separazione netta è una cosa esclusivamente moderna che non fa che accentuare l’aspetto della discontinuità mortificando la somiglianza che l’abito liturgico ha con ogni abito. Tutti gli elementi liturgici possiedono la caratteristica della liminalità, cioè portano cosè qualcosa che ci appartiene e qualcosa di radicalmente nuovo. Anche i paramenti liturgici, pur così diversi, si inseriscono in modo peculiare nel mondo di significati e valori che da sempre l’uomo riconosce all’atto di vestirsi.
Infine, se i paramenti servono per pregare, è vero anche che la Chiesa ha predisposto preghiere per indossare i paramenti le quali, pur essendo facoltative, ancor oggi possono essere recitate dai sacri ministri mentre compiono l’atto già liturgico e non accessorio del rivestirsi dell’uomo nuovo. Peraltro, queste preghiere aiutano a intravvedere anche nei paramenti una simbologia che appartiene fortemente alla liturgia cioè il suo aspetto bellico. Attraverso di essa noi entriamo nella lotta cosmica del Bene e del male, una guerra che sapiamo già come andrà a finire ma che si dispiega ancora nelle nostre piccole lotte quotidiane contro il male. Ogni volta che celebriamo la divina liturgia, noi intravvediamo la vittoria finale, ne affrettiamo la completa instaurazione e riceviamo luce e forza per combattere al suo servizio. Per questo l’amitto viene descritto come l’elmo della salvezza (cfr. Ef 6,17); il camice come la veste lavata sangue dell’Agnello da coloro che sono passati per la grande tribolazione (cfr. Ap 7,14); il cingolo richiama la virtù del dominio di sé, primo attributo del combattente; la stola è la veste dell’immortalità che ogni eroe desidera; la pianeta viene identificata con il giogo leggero dell’abbedienza a Cristo (cfr. Mt 11,30) e la sua forma somiglia molto alla lorica musculata (corazza che riproduce la muscolatura pettorale) degli ufficiali romani. Anche un termine come “paludamento”, oggi utiliazato in modo dispregiativo per riferirsi ad un uso eccessivamente vistoso e compiaciuto dei paramenti, deriva in realtà dal termine tecnico del mantello dei generali romani, il paludamentum. Proprio da una di queste preghiere, quella per la cotta ispirata a Ef 4,24, viene il nostro titolo. Ma chi è l’uomo nuovo di cui si va in cerca nel travestimento liturgico? San Paolo in Rm 13,14 invita come in altri passi a compiere l’azione spirituale di rivestirsi e qui specifica “del Signore Gesù Cristo”. È lui l’uomo nuovo. Anche il paramento sacro, dunque, contribuisce nel suo modo specifico a esprimere questa fede e, per la potenza performativa della liturgia che fa ciò che dice, a imprimerlo in chi la celebra. La novità per il cristiano non è un indeterminato e indeterminabile tutto da inventare come vorrebbero certe teorie moderne tra cui non ultima quella gender, ma è una persona, è il “volto della misericordia del Padre” (MV 1). L’uomo nuovo si è fatto vedere e si fa incontrare nella liturgia, ha un Nome, Gesù Cristo.
Oggi, tempo di globalizzazione, di società dell’immagine, di immediatezza, di iperconnessione, di relazioni touch con le cose e le persone, di reicanto del mondo (dopo il novecentesco e fallimentare “disincanto del mondo”), il paramento sacro, con tutto il suo portato di azioni e significati, riveste un’importanza a mio avviso sempre più grande nel gioco della liturgia. Eppure, certe produzioni seriali e l’atteggiamento di certi ministri sembrano non essere aggiornati attardandosi invece su comprensioni parziali e superate. Una seria riflessione sul paramento sacro è decisamente necessaria perché anche oggi “i riti risplendano per nobile semplicità, siano trasparenti”, “adatti alla capacità di comprensione dei fedeli” e non abbiano bisogno “di molte spiegazioni” (SC 34).