“Ci è dato di cogliere il rapporto tra la Messa celebrata e la missione cristiana nel mondo” – di Emanuele Borserini –
“Questo saluto esprime sinteticamente la natura missionaria della Chiesa. Pertanto, è bene aiutare il Popolo di Dio ad approfondire questa dimensione costitutiva della vita ecclesiale, traendone spunto dalla liturgia” (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 51). La profetica parola di Benedetto XVI, che nel 2007 raccoglieva le istanze del sinodo dei Vescovi, ci invita a ricercare nella liturgia, e in modo particolare nella celebrazione dell’Eucaristia che tutti ben conosciamo, una pista di approfondimento del tema missionario che papa Francesco ha donato a tutta la Chiesa con il mese missionario straordinario. Del resto, è proprio il messaggio del papa per questo evento ecclesiale che torna a fondare l’afflato missionario nella liturgia quando dice: “la carità, che pregustiamo nei Sacramenti e nell’amore fraterno, ci spinge sino ai confini della terra” (Francesco, Battezzati e inviati). L’esperienza sacramentale, dunque, ci fa pregustare la carità, ci mette in contatto con Dio, ci fa percepire la presenza del suo amore. E questo con tutta la carnalità che il senso del gusto può evocare. Peraltro, il verbo utilizzato dal papa è un topos classico dell’Eucaristia che fa da perno tematico di molte orazioni dopo la comunione ed esprime in modo chiaro che cosa sia avvenuto durante la celebrazione. Ebbene, per sua natura questo incontro non può restare sepolto come il talento della parabola ma esige di essere condiviso, di chiamare altri a sperimentarlo. È evidente che tutta la Messa sia impregnata di missionarietà, in quanto si tratta di una “dimensione costitutiva della vita ecclesiale”, tuttavia c’è un rito che la esprime in modo peculiare: il solenne congedo posto al termine della celebrazione; rito che Benedetto XVI, nel paragrafo di Sacramentum caritatis da cui viene anche il nostro titolo, definisce per due volte “saluto”. E proprio su questa definizione è bene soffermarsi prima di procedere nell’analisi dei testi liturgici nei quali il congedo si realizza. Se, come ci ha già fatto intuire l’uso del verbo pregustare, la liturgia è prossimità, incontro, momento di relazione con Dio, la modalità più normale in cui essa si esprime non può che essere quella del dialogo. E ogni dialogo, per buona creanza, inizia e finisce con un saluto. Possiamo facilmente cogliere come, in modo più o meno sviluppato, ogni rito che compone il grande rito della Messa è, dal punto di vista letterario, un dialogo. Ce ne sono alcuni di grande estensione come quello di apertura del prefazio o del Vangelo e poi tanti altri fatti solo di botta e risposta, alcune più articolate come quelle dell’offertorio e altre più semplici fino al saluto liturgico fondamentale “Il Signore sia con voi. E con il tuo spirito”. Di questi dialoghi fa parte anche il congedo che si compone di una provocazione presidenziale e della risposta dell’assemblea.
Tutte le possibilità previste dal messale in italiano nascono dall’antichissima espressione Ite missa est, conservata dalla forma straordinaria del rito romano e dal’editio typica della forma ordinaria. La prima di tali formule è la comune interpretazione di questo antico comando: “La messa è finita: andate in pace”. Questa traduzione, che come si vede non è letterale, segue la tradizione secondo la quale missa sarebbe un sostantivo, per cui significa semplicemente: “andate, perché la Messa c’è stata”; essa ha buoni sostenitori sin dall’antichità, tra cui Isidoro di Siviglia nel VII secolo. Se il soggetto del verbo essere è la Messa, il significato del congedo è molto logico e immediato, per cui l’attenzione cade tutta sull’imperativo del verbo andare. Come per i primi discepoli del Signore, anche il nostro incontro con lui, la Messa, inizia con il suo invito “venite” (Gv 1,39) perché l’assemblea è “radunata nel nome di Cristo”, come dice uno gli inviti alla preghiera dell’offertorio, e finisce con il suo mandato “andate” (Mt 28,19; Mc 16,15). Quel verbo, dunque, non è che la citazione e il riassunto dei grandi saluti di mandato di Gesù che concludono i vangeli; mandati non di ritorno a casa ma di annuncio del Vangelo a tutto il mondo. Che la Messa sia finita, dunque, è da intendersi solo in senso stretto come l’azione rituale che effettivamente si conclude con quelle parole; e dal punto di vista fenomenologico nulla da eccepire. Ma il senso profondo è piuttosto quello di un nuovo inizio, un incontro con Dio che si darà in modalità diverse. Appunto, missionarie. Lo stesso Risorto che dice “andate” ci attende nelle nostre Galilee, paradigma di ogni missione alle genti.
Se consideriamo che missa può essere anche il participio passato femminile del verbo latino mitto che significa mandare, il rito del congedo assume ancora più forza missionaria perché diventa l’equivalente di “andate, perché è stata mandata”. Chi? In questo caso, non la Messa ma l’assemblea è stata missa, mandata: il soggetto è sottinteso. Probabilmente, in origine il soggetto era l’Eucaristia consegnata ai diaconi sotto forma di viatico o fermentum (per una trattazione della questione fermentum, che qui è impossibile, rimando a Emanuele Borserini, Il paradiso sulla terra) quindi, ancora una volta, un mandato che nasce dalla celebrazione per raggiungere coloro che non hanno potuto prendervi parte, un rito di passaggio che fa da soglia tra coloro che hanno vissuto l’incontro con Dio e tutti gli altri. Percorrendo la strada grammaticale del participio che può assumere anche valore di aggettivo, possiamo aggiungere che l’assemblea eucaristica non è semplicemente invitata a svolgere un’azione ma di essa è dichiarato uno status: essa è per definizione mandata. Questo rito, dunque, come tutta la liturgia, ha un aspetto rivelativo della Chiesa a sé stessa ed esprime la sua identità missionaria. Ogni volta che lo sentiamo, dunque, dobbiamo cogliere tutta la portata che ha per noi questo invio; sentire che la dimissione è missione, per usare ancora le parole di Sacramentum caritatis. A questo proposito, Giraudo (cfr. Cesare Giraudo, In unum corpus. Trattato mistagogico sull’Eucaristia) mette in luce il legame tra le parole missa, dimissio e missio. L’evidente assonanza non è un caso: la radice della missione è presente in tutte e, anche se il significato immediato è apparentemente distante, questa felice somiglianza sonora ci guida a gustarne la profonda unità che le illumina reciprocamente.
Data l’ampiezza dei risvolti cui si è brevemente accennato, le Conferenze episcopali hanno sentito il bisogno, secondo il compito affidato loro dalla Sede Apostolica, di esplicitare queste verità in una serie di formule appropriate nella lingua nazionale. Il messale italiano ha fatto la scelta di mantenere una struttura piuttosto rigida, che si può schematizzare così:
Dopo “La Messa è finita”, troviamo “La gioia del Signore sia la nostra forza” che si concentra su un aspetto esistenziale non indifferente: anche scoperta l’identità missionaria e accettato il mandato, rimane aperta una serie di domande sulle modalità, le risorse, lo stile… Ed ecco che questa formula risponde preventivamente ad ogni ragionevole obiezione dichiarando che dell’onere delle risorse si fa carico il Signore stesso: è lui la nostra forza in questa impresa. Interessantissimo come le potenzialità di tale forza vengano riassunte nella gioia con la quale non hanno di per sé alcun punto di contatto semantico. Ma questa apparente incongruenza amplifica nel tempo la forza, dichiarando che non si tratta solo di una spinta iniziale ma che la presenza del Signore sarà sempre fonte di resilienza davanti ad ogni difficoltà. La successione dei riti della Messa ci aiuta ad approfondire ulteriormente questa lettura perché il mandato segue la benedizione. La missione è figlia della benedizione, che nel linguaggio biblico equivale ad elezione e vocazione con tutte le storie di vita che queste parole evocano. Ritroviamo qui il rapporto tra “venite” e “andate”, come lo ritroviamo nel titolo del messaggio del papa, dove prima di “inviati” c’è “battezzati”. Per comprenderlo basti pensare che il primo rito del sacramento del battesimo è l’imposizione del nome perché Dio chiama per nome e, quando invia, invia per nome: non si dimentica di nessuno. Quando, poi, il congedo segue le benedizioni solenni, questo legame è ancora più evidente perché il presidente dice: “E la benedizione … scenda su di voi e con voi rimanga sempre”. Possiamo dire che questa seconda formula è molto efficace dal punto di vista letterario e tiene presenti anche istanze a cui oggi si presta particolare attenzione.
Continuando ad osservare la pagina del messale, troviamo: “Glorificate il Signore con la vostra vita”. Le categorie espressive cambiano completamente e da esistenziali (gioia, forza, congiuntivo augurale) si fanno squisitamente liturgiche perché glorificare è un verbo tecnico della liturgia che dice l’azione rituale del riconoscere ed esprimere per ritus et preces la trascendenza di Dio. Appunto perché trascendente, Dio è anche ineffabile e solo un linguaggio liturgico, mediato dai simboli, può dire ragionevolmente qualcosa di Dio. Ma ecco che proprio qui viene introdotta la contraddizione: glorificare non è predicato di un’azione rituale ma della vita dei singoli membri dell’assemblea. Il congedo assume così il valore di un rito non solo di passaggio ma anche di continuità perché prevede di continuare a fare la stessa cosa fatta in modo perfetto durante la celebrazione dell’Eucaristia. È davvero possibile che “tutta la nostra vita si trasformi in perenne liturgia di lode” (orazione delle Lodi mattutine del Sabato della II Settimana del Salterio), ma il fatto stesso che debba essere esplicitato da una formula ci mette in guardia: non è automatico. Possiamo dire che questo congedo abbia anche un risvolto esorcistico perché scaccia la tentazione sempre in agguato di considerare l’esperienza sacramentale come una parentesi della nostra vita, l’Eucaristia domenicale niente più di un precetto da assolvere. Esso, dunque, non tratta un aspetto particolare ma fa da ponte perché la qualità missionaria della celebrazione possa fluire nella vita, possa venire a dare forma ad ogni ogni nostro respiro.
La formula successiva è “Nel nome del Signore” che riprende il tema importantissimo, sia nella Scrittura sia nella liturgia, del santo nome di Dio. La sua modalità espressiva è, a differenza delle precedenti, biblico-teologica. Inizialmente radunati e infine benedetti sempre “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”, da questo punto in poi dobbiamo andare sì, ma rimaniamo in quel nome, in quella presenza. La staticità della preposizione in è determinante. La missione, per quanto lontano ci possa condurre, non ci farà mai ricadere fuori dalla presenza di Dio: possiamo affrontarla senza timore. Andare nel nome, però, può significare anche “a nome di”, per questo motivo la quarta formula di congedo assume un certo valore di avvertimento: nessuno deve muoversi a nome proprio; abbiamo davanti, alle spalle e in noi il nome di Dio. Essendo un momento liturgico, anche il congedo è performativo, pertanto, non è mai una vaga raccomandazione morale ma, esprimendo uno stile, contemporaneamente lo imprime in coloro che partecipano alla celebrazione. Ecco, dunque, che nella sua semplicità anche questa breve formula può suscitare molto nel cuore di chi vive la liturgia con actuosa participatio.
Infine, “specialmente nelle domeniche di Pasqua” afferma la rubrica, il presidente può adottare la formula: “Portate a tutti la gioia del Signore risorto”. Essa conferisce un argomento specifico al mandato, quindi le categorie espressive cambiano di nuovo perché nessuna delle precedenti entrava nel merito del contenuto. Se è facilmente comprensibile il fatto che nel tempo di Pasqua l’attenzione anche dell’ultimo rito della Messa sia rivolta al Risorto, non dimentichiamo che questa formula ha un valore che può illuminare tutte le altre. La missione cristiana coincide, infatti, sin dall’inizio con l’annuncio del kerigma, della buona novella della risurrezione. Ma questo annuncio, posto al termine dell’incontro liturgico, non può in alcun modo essere un contenuto concettuale, quanto piuttosto una chiamata a condividere l’esperienza di aver pregustato qualcosa di vero che si compirà anche in tutti coloro che crederanno.
La ricchezza di tutte queste possibilità testuali confluisce nel secondo termine della parte presidenziale: “andate in pace”. Il tema della pace, dono messianico che raccoglie in una parola tutti gli altri, dono per eccellenza del Risorto colloca il congedo in continuità con i riti che lo precedono. Sin dalle intercessioni della preghiera eucaristica, poi nel rito del Padre nostro, nella litania dell’Agnus Dei e nel rito della pace, questa parola era riecheggiata più volte. Essa ci è stata donata e rimane con noi: in quella pace possiamo partire. Infine, la risposta è una soltanto, “rendiamo grazie a Dio”: un’affermazione della consapevolezza che l’essere mandati è un privilegio. È un dono, come dice chiaramente la scelta del papa di fondare il tema del mese missionario nel battesimo, nel dono primordiale della fede, nell’esperienza dell’amore di Dio che ci ha fatto suoi figli. Per completare la panoramica su qualsiasi rito, restano da osservare i gesti che, accompagnando le parole, lo rendono tale. La rubrica del messale non prevede un gesto specifico di invio: il presidente pronuncia la sua parte “a mani giunte”, mentre dell’assemblea non è detto nulla. Forse proprio perché l’aspetto gestuale di questo rito coincide con la partenza di presidente e assemblea che lo seguirà immediatamente e ogni altro gesto di coloro che hanno partecipato alla celebrazione che da quel momento in poi sarà un’epifania del mandato che hanno ricevuto.
Tutti questi spunti e chissà quanti altri riecheggiano in noi al termine della Messa grazie alle parole del rito che ci congeda da essa. Sono le ultime parole che sentiamo e, per le normali dinamiche dell’attenzione umana, sono quelle che più facilmente restano presenti alla coscienza: cerchiamo di approfondirle sempre meglio come preziosa risorsa per la nostra vita cristiana.