Il pensiero del giorno

Il “nihil obstat” a Medjugorje: da Fatima a oggi 

di Don Giovanni Poggiali

La Nota del Dicastero per la Dottrina della Fede

Il Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) ha pubblicato, il 19 settembre 2024, un’importante Nota intitolata La Regina della Pace (1) con cui la Chiesa si è pronunciata «sin qui» sul fenomeno mariano più importante del mondo contemporaneo: le apparizioni mariane di Medjugorje, nella Bosnia-Erzegovina. La lunghezza del tempo delle apparizioni, la diffusione su ampia scala a livello mondiale del messaggio, le conseguenze spirituali e pastorali seguite a tale avvenimento, l’impatto sulla vita di tantissime persone in tutto il mondo fanno di Medjugorje un caso unico nella storia della Chiesa cattolica (2). 

La Nota, presentata con una conferenza-stampa tenuta sempre il 19 settembre dal prefetto del DDF, card. Victor Manuel Fernández, e accompagnata da un’attesa fremente dei giornali e dei social network — riguardo anche alle possibili conseguenze della decisione negativa o positiva della Santa Sede —, è stata voluta da Papa Francesco e ha portato a compimento un lungo itinerario di discernimento in cui hanno preso posizione vescovi, teologi, studiosi e varie commissioni (3). 

Il Pontefice aveva nominato mons. Henryk Hoser (1942-2021) visitatore apostolico a carattere speciale per la parrocchia di Medjugorje. Come indicato dal comunicato della Sala Stampa Vaticana, si tratta di un incarico esclusivamente pastorale, ora assunto da mons. Aldo Cavalli, che ha la finalità di assicurare un accompagnamento stabile e continuo della comunità parrocchiale di Medjugorje e dei fedeli che vi si recano in pellegrinaggio, le cui esigenze richiedono una peculiare attenzione (4). La scelta del visitatore, la cura pastorale del luogo delle apparizioni e, ultimamente, la Nota sull’esperienza spirituale di Medjugorje spiegano, una volta di più, la sollecitudine e l’attenzione che Papa Francesco ha rivolto a questo luogo di devozione e di fede.

Le nuove norme per il discernimento

La determinazione «nihil obstat», con cui la nota prende posizione su Medjugorje, è l’espressione più elevata di positività fra i sei pronunciamenti proposti nelle nuove Norme volute dal Dicastero per il discernimento sui presunti fenomeni soprannaturali, ma non implica «alcuna certezza della soprannaturalità del fenomeno» (5). Il nullaosta, infatti, indica che si riconoscono i frutti spirituali e l’azione dello Spirito di una data esperienza, che non vi sono elementi e aspetti particolarmente rischiosi o critici e che il vescovo diocesano è incoraggiato ad apprezzare e a promuovere la proposta spirituale e pastorale che deriva da un particolare evento di grazia. Il fatto che la Chiesa non si pronunci più sulla soprannaturalità o meno di un dato evento spirituale considerato straordinario, pur riconoscendone i frutti e conseguenze positive con nessuna criticità grave, è motivato da divere ragioni descritte nella Presentazione delle norme suddette dal card. Fernández. 

In primo luogo, la revisione dei criteri e dei princìpi operata dalla Santa Sede per stabilire e discernere su presunti fenomeni soprannaturali. I criteri utilizzati finora erano stati approvati dal Papa san Paolo VI (1963-1978) nel 1978. I tempi per le decisioni ecclesiali erano molto lunghi e la revisione normativa iniziò nel 2019 da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, concludendosi nel 2024 con una nuova totale stesura resa definitiva con la pubblicazione del 17 maggio scorso. I vescovi, che avevano l’autorità sui fenomeni all’interno della loro giurisdizione, si esponevano chiaramente su una posizione di soprannaturalità o di non soprannaturalità e questo, secondo le nuove norme, portava i fedeli a credere in modo obbligatorio al fenomeno, a volte apprezzandolo più del Vangelo. Inoltre, ciò portava a pochissime dichiarazioni definitive da parte dell’autorità ecclesiale a causa della lunghezza dei procedimenti e, spesso, l’evento difficilmente restava circoscritto alla diocesi di appartenenza, assumendo dimensioni molto più estese. Era inevitabile anche il coinvolgimento della stessa Congregazione per la Dottrina della Fede, che normalmente chiedeva invece ai presuli di non essere nominata nel pronunciamento. Quindi, «per non procrastinare oltre la risoluzione di un caso specifico relativo ad un evento di presunta origine soprannaturale, il Dicastero ha recentemente proposto al Santo Padre di chiudere il relativo discernimento non con una dichiarazione de supernaturalitate, ma con un Nihil obstat, che avrebbe permesso al Vescovo di trarre profitto pastorale da quel fenomeno spirituale» (6).

Secondariamente, già l’allora card. Ratzinger (1927-2022), poi Papa Benedetto XVI, nel libro-intervista con Vittorio Messori, Rapporto sulla fede, distingueva l’aspetto della soprannaturalità di un fatto considerato straordinario dai frutti che ne erano conseguiti rispondendo alla domanda del giornalista proprio riguardo a Medjugorje: «Uno dei nostri criteri [della Congregazione per la Dottrina della Fede] è separare l’aspetto della vera o presunta “soprannaturalità” dell’apparizione da quello dei suoi frutti spirituali. I pellegrinaggi della cristianità antica si dirigevano verso luoghi a proposito dei quali il nostro spirito critico di moderni sarebbe talvolta perplesso quanto alla “verità scientifica” della tradizione che vi è legata. Ciò non toglie che quei pellegrinaggi fossero fruttuosi, benefici, importanti per la vita del popolo cristiano» (7).

In terzo luogo, in riferimento a Medjugorje, vi è da considerare che «il caso» non è totalmente concluso, in quanto le apparizioni sono ancora in atto. La Chiesa, nella sua prudente esperienza e nel suo ruolo materno, ha scelto quindi per il discernimento dei fenomeni straordinari una soluzione diversa rispetto al passato, che rispetti pazientemente tutti i fattori in gioco. Il prefetto, card. Fernández, sempre nella Presentazione delle nuove Norme, così sintetizza la decisione del DDF sul discernimento degli eventi straordinari: «Tra queste possibili conclusioni non si include di norma una dichiarazione circa la soprannaturalità del fenomeno oggetto di discernimento, cioè la possibilità di affermare con certezza morale che esso proviene da una decisione di Dio che l’ha voluto in modo diretto. Invece, la concessione di un Nihil obstat indica semplicemente, come già spiegava Papa Benedetto XVI, che riguardo a quel fenomeno i fedeli “sono autorizzati a dare ad esso in forma prudente la loro adesione”. Non trattandosi di una dichiarazione sulla soprannaturalità dei fatti, diventa ancora più chiaro, come diceva pure Papa Benedetto XVI, che è solo un aiuto “del quale non è obbligatorio fare uso» [Verbum Domini, 30-9-2010, n. 14]. D’altra parte questo intervento lascia naturalmente aperta la possibilità che, prestando attenzione allo sviluppo della devozione, in futuro possa esserci bisogno di un intervento diverso» (8).

I frutti e il messaggio di Medjugorje

La nota, in apertura, si diffonde nell’elencare i frutti innegabili dell’esperienza di Medjugorje. Grande, infatti, è il numero di devoti, che aumenta ogni anno, provenienti dalle varie parti del mondo e che si recano in pellegrinaggio nella Bosnia-Erzegovina. Molti hanno intrapreso una sana pratica di vita di fede e abbondanti sono anche le conversioni, con il ritorno a una pratica sacramentale, soprattutto l’Eucaristia e la confessione, e a una più intensa preghiera, in particolare con la recita del rosario e l’adorazione eucaristica. Molti fedeli hanno scoperto la loro vocazione al sacerdozio, alla vita consacrata e anche alla vita matrimoniale, con diverse coppie di sposi riconciliatesi grazie alla Regina della Pace. La vita, infatti, è cambiata per tante persone che hanno accolto la spiritualità di Medjugorje in tutte le sue dimensioni: messaggi, preghiera, Messa, adorazione, confessione, digiuno. Notevole è la presenza dei giovani, segno della vivacità e della novità di Medjugorje.

Il titolo che Maria attribuisce a sé stessa nelle apparizioni, Regina della Pace, indica il cuore del messaggio spirituale proveniente dalla cittadina bosniaca (9). È una visione teocentrica della pace, che non ha solo il significato dell’assenza di guerra — fra il 1991 e il 1995 l’ex Jugoslavia è stata teatro di un feroce conflitto fratricida — ma ha anche un senso spirituale profondo in quanto la pace è un dono di Dio e si realizza attraverso la preghiera e la testimonianza personale, altro tratto fondamentale dell’esperienza di Medjugorje. Affidandosi a Maria, ci si affida a Dio per essere strumenti di pace nel mondo. La vera pace sgorga dall’amore, è il frutto della carità vissuta autenticamente e si esprime nell’amore evangelico verso i fratelli, fino ai nemici, con il perdono e la riconciliazione.

Centro del messaggio spirituale è soprattutto la figura di Gesù Cristo, a cui tutta l’intercessione e l’opera di Maria convergono. Medjugorje è fortemente cristocentrica e Maria appare chiaramente sottomessa a Cristo, autore della grazia e della salvezza. Ella intercede per noi ma è Cristo che ci dà la forza, per cui tutta l’azione materna di Maria conduce a suo Figlio. Anche l’azione dello Spirito Santo è riconosciuta importante e vitale (cfr. Nota, n. 14). La comunione fraterna è un richiamo altrettanto costante della Madonna, la quale invita all’amore reciproco, all’unità, a vincere l’individualismo, quindi «accompagna, dona serve, perdona, è vicina ai poveri» (Nota, n. 22).

Forte è anche il richiamo a non sottovalutare il peso del peccato, con la chiamata di Dio a lottare contro il male e l’influsso di Satana, il quale vuole rovinare il piano di salvezza di Dio e di Maria. Sono tutti elementi fondamentali della dottrina cattolica, ribaditi sempre dalla Chiesa e qui ripresi dalla Regina della Pace nella sua catechesi — possiamo chiamarla così — alla parrocchia di Medjugorje e a tutte le parrocchie del mondo. Tanti ancora sono gli elementi che la nota sottolinea per elencare i frutti spirituali del fenomeno. Ne evidenziamo solo altri due: la gioia e l’esistenza della vita eterna, due componenti che caratterizzano la fede cattolica nei suoi tratti più decisivi ed essenziali.

Fatima e la Russia 

L’esperienza spirituale di Medjugorje, come ha sottolineato recentemente Marco Invernizzi, reggente nazionale di Alleanza Cattolica, non ha però solo una valenza spirituale e interiore che sfocia in una devozione privata e comunitaria, ma ha anche una decisiva valenza storica e profetica che non può essere sottaciuta: «Certo, la Regina della pace ci ha chiesto per decenni di pregare e digiunare per la pace, prima per scongiurare la guerra atomica fra l’Unione Sovietica e il mondo libero negli Anni Ottanta, poi per porre fine alla guerra nella ex-Jugoslavia, colpita da un conflitto civile negli Anni Novanta fra serbi, croati e musulmani, oggi per scongiurare che la “terza guerra mondiale a pezzi” diventi una guerra totale, che rischierebbe di cancellare la vita nel mondo. Medjugorje è certamente questo, così come è un costante invito a cercare la pace del cuore attraverso la preghiera, ma è anche qualcosa d’altro» (10).

Questo qualcosa d’altro, infatti, emerge in alcuni messaggi dati dalla Vergine, in particolare in quelli del 25 agosto 1991 e del 25 gennaio 2023, nei quali la Regina della Pace svela il legame fra le apparizioni di Fatima del 1917 e quelle attuali di Medjugorje, cominciate il 24 giugno 1981 (11). Il contesto, e i molti avvenimenti drammatici del secolo scorso, denotano come vi sia la consapevolezza di trovarsi in un tempo particolarmente difficile per la Chiesa e per tutti i cristiani. Un secolo di prova che conduce al compimento delle principali promesse fatte dalla Madonna a Fatima — la conversione della Russia e il trionfo del Cuore Immacolato di Maria — all’interno di una teologia della storia, cioè di un susseguirsi di eventi che, interpretati alla luce della fede, svelano il disegno di Dio. Questo piano è un progetto di salvezza per l’uomo, contrastato da Satana che cerca di distruggere questo disegno. La Madonna ha smascherato il piano satanico attraverso il corso delle apparizioni moderne, a cominciare da quella a santa Caterina Labouré (1806-1876), a Rue du Bac, Parigi, nel 1830. Ma nel secolo XX il male sfodera tutta la sua tremenda potenza con il dilagare delle ideologie assassine, nazionalsocialismo e socialcomunismo, e quindi con la «dittatura del relativismo», apice della cosiddetta Quarta Rivoluzione: un’espressione che indica un processo secolare a tappe (rivoluzioni) che si succedono nel tempo, segnate da avvenimenti storici di rottura con la tradizione cattolica e la fede della Chiesa, secondo la lettura della storia del pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), ripresa dal fondatore di Alleanza Cattolica Giovanni Cantoni (1938-2020) (12).

Infatti, proprio nel secolo XX la Vergine appare in Portogallo, appena prima della rivoluzione bolscevica del 1917, per annunciare a tre pastorelli — santa Jacinta de Jesus Marto (1910-1920), san Francisco de Jesus Marto (1908-1919) e la serva di Dio Maria Lucia di Gesù e del Cuore Immacolato (Lucia dos Santos, 1907-2005) — l’urgenza della penitenza e della conversione. La Madonna a Fatima mette in guardia l’umanità dal rischio della Seconda Guerra Mondiale, puntualmente verificatasi, mentre «a Medjugorje la Regina della Pace esorta a guardarsi dal demonio che vuole distruggere il pianeta sul quale viviamo ([messaggio del] 25 gennaio 1991): la prospettiva è dunque mutata, poiché non si tratta più della possibilità di un conflitto che potrebbe causare molte vittime — 50 milioni furono infatti i morti della guerra combattuta tra il 1939 e il 1945 — bensì del rischio di auto-distruggere il nostro stesso pianeta, poiché l’umanità dispone di armi nucleari dal potenziale mortifero e incontrollabile» (13).

La chiave per interpretare le apparizioni in Portogallo, svoltesi da maggio a ottobre del 1917, venne fornita dall’allora card. Ratzinger a cominciare dall’anno 2000, in occasione della beatificazione dei pastorelli Jacinta e Francisco a Fatima, con la rivelazione della terza parte del «segreto». Il futuro Pontefice affermò che i fatti descritti da suor Lucia si riferivano a eventi del passato e non vi erano rivelazioni clamorose sul futuro. Il «segreto» aiutava a comprendere la sofferenza e le persecuzioni subite dalla Chiesa nel Novecento e il ruolo particolare che assumeva il Pontefice in questo percorso doloroso. Le persecuzioni non hanno però l’ultima parola perché Maria è giunta a indicare la via della conversione, attraverso la preghiera e la penitenza, per ottenere la salvezza non solo individuale ma anche storica con il trionfo del suo Cuore Immacolato (14). Questa lettura venne integrata dieci anni dopo dallo stesso Joseph Ratzinger, diventato Papa Benedetto XVI, sulla spianata del santuario durante l’omelia della Messa, il 13 maggio, nell’occasione del decimo anniversario della rivelazione della terza parte del «segreto». Le sue parole guardarono al futuro e non più soltanto all’interpretazione di fatti del passato e questa interpretazione permise di unire i due momenti storici — XX, XXI secolo e oltre — che proprio in Medjugorje giungeranno a un ulteriore passo e a una sintesi. Il Pontefice, infatti, disse: «Si illuderebbe chi pensasse che la missione profetica di Fatima sia conclusa» (15). Sembra, quindi, che le promesse della Madonna non si possano pensare compiute ed esaurite con il crollo del comunismo sovietico nel 1991 ma che la storia della presenza materna di Maria qui sulla terra abbia ancora molto da dire. 

A Fatima la Vergine chiese la consacrazione della Russia al suo Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati di ogni mese per impedire lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, altrimenti la Russia avrebbe diffuso i suoi errori nel mondo. Purtroppo, le richieste della Madonna non vennero esaudite e, di lì a poco, iniziò la «Rivoluzione d’Ottobre» che portò al potere i bolscevichi di Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov, 1870-1924) dando così inizio al comunismo sovietico in Russia. Con lo scoppio del secondo conflitto mondiale nel 1939, la Russia diffuse i suoi errori con le idee e la persecuzione della Chiesa nei Paesi a egemonia ideologica comunista. Il 25 marzo 1984, san Giovanni Paolo II (1978-2005), finalmente, consacrò la Russia al Cuore Immacolato di Maria secondo la richiesta della Vergine, in comunione con tutti i Vescovi del mondo. Suor Lucia confermò la validità della consacrazione dopo aver negato quella delle precedenti (16). Pochi anni dopo, nel 1989, fu abbattuto il Muro di Berlino e iniziò la fine del comunismo sovietico, che si compì nel 1991 con la dissoluzione dell’impero moscovita. Con la sua fine e quella delle ideologie, il mondo, soprattutto l’Occidente post-cristiano, si è ritrovato sotto la cappa del relativismo culturale e filosofico, una dittatura subdola che contamina anche le buone idee avvelenandole, in cui viene negata la verità e il senso della vita e nella quale le ideologie assumono un’altra veste, meno chiara e identitaria ma con un impatto sempre più profondo nel tessuto sociale e culturale collettivo (17).

Oggi, la Russia è ancora al centro della scena internazionale con la guerra e l’invasione della vicina Ucraina iniziata nel 2014 e proseguita dal 24 febbraio 2022, e sembra, oggettivamente, che la conversione vera e autentica del Paese, così come annunciato dalla Vergine a Fatima, sia ancora parziale e lontana. Infatti, la Russia attuale, secondo importanti studiosi della materia (18), porta avanti un’ideologia politica e anche ecclesiastica — tramite il patriarca Ortodosso Kirill I (Vladimir Michajlovič Gundjaev) — che è alla base dell’invasione in Ucraina. Tale ideologia, denominata Russkij mir, che significa il «Mondo russo» o la «Pace russa», ha come essenza «un assoluto isolazionismo», in opposizione radicale all’Occidente, «ma non soltanto, un’opposizione a quanto nella tradizione occidentale vi è di universale, di legato al diritto naturale e, come tale, appartenente alla tradizione cristiana universale, comune al cattolicesimo latino e a quello orientale» (19). Questo isolazionismo, che è anche anti-occidentalismo e, alla fine, anti-cattolicesimo, che unisce gli elementi principali dell’idea imperiale della Grande Russia portata avanti dal capo del Cremlino Vladimir Putin, non va confuso con la Russia in quanto tale, perché ne deforma la vera identità che, in profondità, secondo il filosofo russo Nikolaj Berdjaev (1874-1948), è la tradizione autentica della Santa Rus’, vera anima del popolo (20).

Il 25 marzo 2022, festa dell’Annunciazione a Maria, Papa Francesco ha consacrato la Russia e l’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria, citando entrambi i Paesi: è stata la prima consacrazione eseguita dai Pontefici con la menzione della Russia così come in effetti richiesto dalla Madonna a Suor Lucia il 13 luglio 1917. Tutti gli episcopati furono uniti nella preghiera e, contemporaneamente, lo stesso gesto si svolse a Fatima per opera dell’elemosiniere pontificio card. Konrad Krajewski. Comunque, alla luce di quanto visto, è difficile credere che la Russia si sia convertita e abbia smesso di diffondere i suoi errori nel mondo. La storia dice ancora il contrario. In ogni caso, le promesse di Fatima si protraggono nel futuro. La speranza in tal senso viene ancora dalla stessa Regina della Pace che, in un messaggio degli inizi delle apparizioni (30 ottobre 1981), ha detto testualmente: «Il popolo russo è il popolo nel quale Dio sarà maggiormente glorificato». 

Si può affermare, quindi, che il trionfo del Cuore Immacolato di Maria non si è ancora compiuto e che il 1991, con il crollo del comunismo ateo e materialista, ne è l’inizio in un graduale compimento.

Il ruolo di Medjugorje e dei «dieci segreti»

Nella nota pubblicata dal DDF il 19 settembre scorso riguardante il nihil obstat non si fa cenno ai cosiddetti «segreti» di Medjugorje. Anche la Commissione Internazionale d’inchiesta guidata dal card. Camillo Ruini affermò l’ambiguità e la problematicità del tema dei «segreti», unitamente alla «vita di Maria» che la Madonna avrebbe dettato a una delle veggenti, Vicka Ivankovic (21). Non vogliamo, ovviamente, correggere l’autorità ecclesiastica su un tema delicato, di cui si conosce molto poco, ma soltanto fare alcune considerazioni se pensiamo a quanto accaduto dal 1917 a oggi. Va premesso che il soprannaturale sorprende sempre ed è bene essere cauti e non azzardare previsioni o ipotesi, anche ricordando l’esortazione di Maria ai suoi figli per comprendere il cuore autentico di Medjugorje: «Affrettatevi a convertirvi» (17 aprile 1982).

Nelle apparizioni più importanti della Madonna, sia a Lourdes nel 1858, sia a Fatima nel 1917, i veggenti ricevettero dei segreti che sarebbero stati rivelati a suo tempo su indicazione di Maria, anche se a Lourdes, la veggente santa Bernadette Soubirous (1844-1879), non rivelò mai i tre segreti ricevuti a carattere personale. Secondo la loro testimonianza, i sei ragazzi bosniaci fruitori delle apparizioni di Medjugorje avrebbero ricevuto «dieci segreti», che verranno a suo tempo rivelati su indicazione della Madonna stessa: «Sin dai primi tempi delle apparizioni, la Regina della Pace disse ai sei veggenti che avrebbero ricevuto dieci segreti. Già entro il primo mese delle apparizioni ai ragazzi erano stati dati cinque segreti. Nell’autunno del 1982, la maggior parte dei segreti era già stata svelata dalla Madonna: Mirjana ne conosceva nove, Ivanka otto, Vicka e Jakov sette, Marija e Ivan sei. Attualmente tre veggenti — Mirjana, Ivanka e Jakov — ne posseggono dieci, mentre gli altri tre ancora nove» (22).

La chiave di interpretazione dei «dieci segreti» potrebbe essere, a nostro avviso, lo stesso segreto di Fatima, notoriamente diviso in tre parti: la prima è la visione dell’inferno; la seconda, è relativa alle profezie sul secondo conflitto mondiale, il comunismo e quindi il trionfo del Cuore Immacolato di Maria; la terza parte, svelata nel 2000, riguarda la visione del «vescovo vestito di bianco» ucciso mentre sale la montagna sormontata dalla croce, che potrebbe riferirsi all’attentato di Roma in Piazza San Pietro, il 13 maggio 1981, a san Giovanni Paolo II. Maria stessa, nel citato messaggio del 25 agosto 1991, opera il collegamento affinché si compia quanto vuole realizzare «attraverso i segreti che ho iniziato a Fatima» (vedi sopra, nota 11). Sembra, dunque, che il segreto di Fatima diviso in tre parti non sia concluso e Medjugorje ne rappresenterebbe la continuazione, come se, implicitamente, i «dieci segreti» fossero già inclusi in quello delle apparizioni in Portogallo (23).

Il contenuto dei «dieci segreti» ovviamente è sconosciuto, ma qualche notizia è stata data dagli stessi veggenti. Secondo il grande mariologo René Laurentin (1917-2017) si possono dividere in tre gruppi: la veggente Mirjana Dragičević ha affermato che i primi due sono ammonimenti destinati ai fedeli della parrocchia di Medjugorje, il terzo è il segno visibile che la Madonna ha promesso di lasciare sul Podbrdo, la collina delle apparizioni, infine gli ultimi sette saranno segreti più gravi (24). Sempre secondo la testimonianza dei veggenti, i segreti sono affidati a un sacerdote: Mirjana scelse per questo compito il padre francescano Petar Ljubicić. La veggente stessa dovrà dire cosa succederà e dove, dieci giorni prima dell’evento, trascorrere sette giorni nel digiuno e nella preghiera con padre Petar e, infine, egli stesso dovrà rivelarlo a tutto il mondo tre giorni prima che accada. Padre Ljubicić disse a questo proposito: «Tutto indica che questo arriverà, ma non sarà piacevole» (25). Si può comprendere così la drammaticità degli eventi che dovranno accadere secondo la versione dei veggenti ma anche la grande misericordia di Dio che lascia il tempo agli uomini per la loro conversione, anticipando di alcuni giorni l’annuncio del segreto. Inoltre, non può essere taciuto il ruolo che la Chiesa dovrà assumere al tempo di tali eventi dopo il nihil obstat riconosciuto alle apparizioni. I segreti di Medjugorje dovranno passare attraverso la Chiesa per realizzarsi, così come la Chiesa dovrà vagliare ogni messaggio e ogni manifestazione che proviene dal luogo delle apparizioni per avvalorarli o rifiutarli con l’autorità datale dall’Alto.

Conclusione

Le rivelazioni private, lo ricordiamo, sono un aiuto di cui non è obbligatorio fare uso. L’approvazione ecclesiastica indica che il messaggio relativo non contiene nulla che contrasti la fede e i buoni costumi. Nel caso in oggetto, la Regina della Pace ha come desiderio la conversione di tutto il mondo. È un piano iniziato a Fatima, a livello globale, in cui «gli apostoli del mio amore» — così vengono spesso chiamati nei messaggi i seguaci della Gospa — combattono contro il principe di questo mondo in una battaglia senza risparmio di colpi al termine della quale il Cuore di Maria trionferà per un periodo finalmente di pace. 

Il mondo, infatti, sembra a un bivio. La dittatura del relativismo, la persecuzione della Chiesa, le guerre e la violenza diffusa non fanno presagire nulla di buono. La Madonna a Medjugorje, dopo Fatima, sembra essere quella luce di speranza e di consolazione di cui il mondo ha bisogno, una luce che squarcia le tenebre del peccato e si oppone al piano di Satana che vuole annientare la vita sulla terra, sull’orlo dell’autodistruzione. Come ricorda la Regina della Pace, molto dipende da noi, dalla nostra conversione, dalla nostra preghiera, dal nostro digiuno, dalla nostra speranza ma, soprattutto, dalla nostra fede. La Madonna è fra noi da ormai duecento anni, cominciando dal 1830. Un percorso d’amore e di guida come mai è avvenuto sulla terra. Vivere quest’epoca storica è un privilegio e un dono, ma occorre viverla con grande responsabilità per non incorrere nel monito che la Madre ha rivolto ai suoi figli in un messaggio a Medjugorje del 25 luglio 1991: «Cari figli, io desidero che voi capiate la serietà della situazione e che molto di quello che accadrà dipende dalla vostra preghiera, ma voi pregate poco».

Note:

1) Dicastero per la Dottrina della Fede, «La Regina della Pace». Nota circa l’esperienza spirituale legata a Medjugorje, 19-9-2024.

2) Per un inquadramento storico e un’introduzione ai primi giorni delle apparizioni, cfr. il mio: Medjugorje, il «fenomeno» mariano contemporaneo, in Cristianità, anno XLVI, n. 394, novembre-dicembre 2018, pp. 49-58.

3) Per l’analisi dei lavori della commissione internazionale d’inchiesta e studio sulle apparizioni di Medjugorje, voluta da Papa Benedetto XVI (2005-2013; † 2022) e guidata dal card. Camillo Ruini dal marzo del 2010 al gennaio del 2014, cfr. la recensione al libro del giornalista Saverio Gaeta, Dossier Medjugorje, in Cristianità, anno XLVIII, n. 402, marzo-aprile 2020, pp. 67-72.

4) Cfr. Bollettino Sala Stampa della Santa Sede, Comunicato della Sala Stampa: Nomina del Visitatore Apostolico a carattere speciale per la parrocchia di Medjugorje, 31.5.2018, nel sito web <https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2018/05/31/0399/00875.html> (gli indirizzi Internet dell’articolo sono stati consultati il 22-10-2024).

5) Dicastero per la Dottrina della Fede, Norme per procedere nel discernimento di presunti fenomeni soprannaturali, 17-5-2024. I sei termini votati dal DDF, che descrivono la bontà o meno di un dato fenomeno straordinario, sono, partendo dal più positivo: nihil obstat, nulla osta alla diffusione e promozione del fenomeno; prae oculis habeatur, si riconoscono segni positivi ma misti a confusione e a rischi; curatur, si rilevano diversi elementi critici; sub mandato, gli elementi critici sono legati a una persona o a un gruppo che fanno un uso improprio del fenomeno in sé positivo; prohibetur et obstruatur, le criticità e i rischi appaiono gravi; declaratio de non supernaturalitate, il fenomeno è riconosciuto come non soprannaturale (cfr. ibid., n.17).

6) Norme per procedere nel discernimento di presunti fenomeni soprannaturali, Presentazione del card. Victor Manuel Fernández, 17-5-2024.

7) Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1985, p. 113 (n. ed., ibidem, 2005).

8) Norme per procedere nel discernimento di presunti fenomeni soprannaturali, Presentazione del card. Fernández.

9) In accordo con il testo della Nota del 19 settembre verrà utilizzato l’indicativo, anziché il condizionale, quando si farà riferimento ai contenuti delle apparizioni. Allo stesso modo, i veggenti e i messaggi si intenderanno «presunti».

10) Cfr. Marco Invernizzi, Fatima e Medjugorje, due profezie storiche, nel sito web <https://alleanzacattolica.org/fatima-e-medjugorje-due-profezie-storiche>.

11) L’importanza di Fatima per Alleanza Cattolica è stata più volte descritta e sottolineata: cfr. in particolare Idem, Fatima e Alleanza Cattolica, in Cristianità, anno XLV, n. 383, gennaio-febbraio 2017, pp. 1-2. Per un’interpretazione delle apparizioni di Fatima e del loro legame con Medjugorje, cfr. Idem, Fatima e la conversione della Russia, ibid., anno XLV, n. 385, maggio-giugno 2017, pp. 1-12; e La profezia di Fatima per la conversione del mondo, ibid., anno XLV, n. 388, novembre-dicembre 2017, pp. 3-10. Riportiamo una parte del messaggio del 25 agosto 1991 dato alla veggente Marija Pavlović che recita testualmente: «Cari figli, anche oggi vi invito alla preghiera, adesso come mai prima, quando il mio piano ha cominciato a realizzarsi. Satana è forte e desidera bloccare i progetti della pace e della gioia e farvi pensare che mio Figlio non sia forte nelle sue decisioni. Perciò vi invito, cari figli, a pregare e digiunare ancora più fortemente. Vi invito alla rinuncia durante nove giorni, affinché con il vostro aiuto sia realizzato tutto quello che voglio realizzare attraverso i segreti che ho iniziato a Fatima».

12) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009), con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, presentazione e cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009.

13) Padre Livio [Fanzaga S.P.], con Diego Manetti, Da Fatima a Medjugorje. Il piano di Maria per un futuro di pace, Piemme, Milano 2017, p. 16.

14) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Il Messaggio di Fatima, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, p. 43.

15) Benedetto XVI, Omelia durante la Santa Messa sulla spianata del Santuario di Nostra Signora di Fatima, del 13-5-2010.

16) Le precedenti consacrazioni a Maria erano state effettuate il 31 ottobre 1942 da parte del venerabile Pio XII (1939-1958), il 13 maggio 1967 da parte di san Paolo VI e il 13 maggio 1982 da parte di san Giovanni Paolo II. Furono dichiarate, da suor Lucia, tutte non conformi alle richieste del Cielo a causa della mancanza di unione con i vescovi di tutto il mondo.

17) Cfr. Card. Joseph Ratzinger, Omelia durante la «Missa pro eligendo Romano Pontifice», 18-4-2005.

18) Cfr., fra gli altri, Adriano Dell’Asta, La «Pace russa». La teologia politica di Putin, Scholé-Morcelliana, Brescia 2023, e la recensione di M. Invernizzi, in Cristianità, anno LI, n. 422, luglio-agosto 2023, pp. 79-82.

19) Ibid., p. 79.

20) Ibid., p. 80. Adriano Dell’Asta (ma non solo lui), pone in analogia l’eresia del «filetismo» — definita come esaltazione esclusiva e orgogliosa della «differenza delle razze e delle differenze nazionali nel seno della Chiesa di Cristo» —, condannata dalla Chiesa Ortodossa nel 1872, con l’ideologia del Russkij mir che in pratica afferma — così accusano cinquecento fra teologi ortodossi e altri firmatari di un documento datato 13 marzo 2022 — «l’esistenza di una sfera o civiltà russa transnazionale, chiamata Santa Russia o Santa Rus’ che include oltre a Russia, Ucraina e Bielorussia (a volte Moldavia e Kazachstan), anche i russi di etnia e i russofoni di tutto il mondo. Essa sostiene che questo “mondo russo” ha un suo centro politico comune (Mosca), un comune centro spirituale (Kiev “come madre di tutta la Rus’”), una lingua comune (il russo), una chiesa comune (la Chiesa ortodossa russa del Patriarcato di Mosca), e un patriarca comune (il Patriarca di Mosca) che opera in “sinfonia” con un comune presidente/leader nazionale (Putin) per governare il mondo russo, e preservare una comune e peculiare spiritualità, moralità e cultura» (A. Dell’Asta, op. cit., pp. 84-85). Cfr. anche Tomáš Špidlík (1919-2010), L’idea russa. Un’altra visione dell’uomo, trad. it., Lipa, Roma 1995, pp. 202-204. Il card. Špidlík scrive riguardo al messianismo cristiano, affermando che «è il popolo russo ad avere assimilato al meglio l’idea messianica, idea che attraversa tutta la sua storia, compresa quella del comunismo. Ogni intellettuale russo sogna di essere il salvatore dell’umanità o almeno del suo popolo» (ibid., p. 203), e cita uno storico della Chiesa e giornalista russo, Anton Vladimirovič Kartašev (1875-1960), il quale scrive: «Il russo […] ha dato a se stesso, al suo popolo, alla sua terra, al suo governo, alla sua Chiesa, un nome significativo: “la Santa Russia”. Nessun altro popolo cristiano ha avuto il coraggio di fare altrettanto. Tuttavia, il popolo russo ha amato questo nome e se ne è appropriato non per orgoglio, ma nell’umile coscienza di essere santificato per il santo servizio. È come un nome ricevuto nel battesimo […]. Questo nome evoca la Sacra Scrittura, la confessione del popolo eletto nel battesimo: “Siamo diventati una radice santa, un popolo eletto, un sacerdozio regale (1Pt 2,9)» (ibid., pp. 203-204).

21) Cfr. Saverio Gaeta, op. cit., pp. 77-80.

22) Ibid., p. 152.

23) Cfr. Padre Livio con D. Manetti, op. cit., pp. 164-165.

24) Ibid., pp. 163-164.

25) S. Gaeta, Dossier Medjugorje, op. cit., p. 153.

Il Peccato originale

di don Giovanni Poggiali OMME

 

1.Che cos’è il peccato?

Il peccato è essenzialmente il risultato di un’azione libera dell’uomo che tende a percorrere un itinerario di auto salvezza e che consiste nel rifiuto di riferirsi a Dio. Sant’Agostino (354-430) lo definisce come «dictum vel factum vel concupitum contra legem aeternam»[1].

Per l’Antico Testamento il peccato è l’azione negativa compiuta nei confronti di Dio quando si rompe il legame con la sua alleanza. Sono utilizzati svariati termini per indicare questa realtà e il vocabolario è molto ricco. Uno dei significati principali è «mancare il fine». Per l’ebraismo può essere un atto individuale o collettivo che si rivolge non solo a Dio, ma anche al prossimo. Il peccato suppone una previa relazione di amicizia, frutto dell’offerta libera della grazia e dell’amore che Dio fa al suo popolo e agli uomini in generale. Non è una mera trasgressione di una legge esteriore, ma il tradimento di un’amicizia. Il peccato viene a porre fine a una situazione di armonia nella quale il popolo di Israele — e l’umanità in quanto tale — si trova quando vive nella pace di Dio. In fondo, nella sua essenza, l’azione peccaminosa commessa dall’uomo va più in profondità: nasconde, cioè, l’intenzione dell’uomo di sostituirsi a Dio e di fare a meno di Lui.

Nel Nuovo Testamento è presente ampiamente il tema dell’uomo peccatore. Gesù non descrive la natura del peccato, ma la sua preoccupazione è incontrare gli uomini che hanno peccato e offrire loro la misericordia e il perdono di Dio, invitandoli a rivolgersi nuovamente al Padre. Il perdono che Gesù accorda al peccatore merita necessariamente un cambiamento nell’intimo del cuore: la conversione. L’indurimento del cuore e la mancanza di conversione sono i veri ostacoli alla salvezza dell’uomo e all’ingresso nel Regno di Dio annunciato da Gesù.

Dall’insegnamento biblico e dal Nuovo Testamento in particolare si deduce, quindi, che il peccato è la scelta di non orientare l’esistenza a Dio e di consegnare la propria vita agli idoli, producendo la morte, la quale è allontanamento da Dio, che è la Vita, e rinnegamento della condizione di creature. Si deduce anche l’esistenza nel mondo di una forza di peccato che proviene dall’accumulo delle trasgressioni di coloro che ci hanno preceduto e, più in particolare, dal peccato commesso all’inizio della storia, che domina l’esistenza dell’uomo e, in particolare, di coloro che non si sono incorporati a Cristo. Questa forza di peccato e di morte fa sì che tutti gli uomini siano «peccatori», non solo individualmente, ma anche in quanto membri di una umanità peccatrice (cfr. Rm 5,12).

2. Il significato di «peccato originale»

Il peccato commesso all’inizio della storia viene chiarito dal Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) nella parte di commento della Professione di fede e in particolare del primo articolo del Simbolo Apostolico («Io credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra»). Sono precisati i termini relativi al peccato delle origini riproponendo la dottrina classica dei Padri, in particolare di sant’Agostino d’Ippona e di san Tommaso d’Aquino. In che cosa è consistito questo peccato? «L’uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo Creatore [Cf Gen 3,1-11] e, abusando della propria libertà, ha disobbedito al comandamento di Dio. In ciò è consistito il primo peccato dell’uomo [Cf Rm 5,19]. In seguito, ogni peccato sarà una disobbedienza a Dio e una mancanza di fiducia nella sua bontà» (CCC, n. 397). La dottrina del peccato delle origini risulta essere «il rovescio» del Vangelo che è la lieta notizia della salvezza per tutti gli uomini (cfr. CCC, n. 389). Come Cristo è il centro del cosmo e tutto sussiste in Lui e da Lui tutto dipende (cfr. Col 1,17), così il male del peccato si diffonde nella storia sottomettendo a sé la volontà e la ragione dell’uomo. Fondamento biblico della caduta delle origini è il capitolo 3 del libro della Genesi, in cui, attraverso un linguaggio di immagini ma ancorate a un evento primordiale accaduto all’inizio della storia, viene narrata la colpa originale commessa liberamente dai nostri progenitori. La Rivelazione ci dà la certezza che tutta la storia è segnata da questo peccato (cfr. CCC, n. 390).

Cercando di approfondire queste asserzioni, possiamo dire che il peccato originale è il rifiuto dell’uomo a essere immagine di Dio. In Cristo tutto è stato creato e il Verbo incarnato è il fine della creazione (cfr. Col 1,16). Tutta l’umanità è predestinata alla salvezza grazie all’incarnazione del Verbo di Dio in Gesù Cristo. Il Logos incarnato è il mediatore, il primogenito delle creature. Cristo, per citare il card. Giacomo Biffi (1928-2015), è la «causa efficiente» dell’universo e ha una parte nella chiamata all’esistenza di tutte le cose. In Lui viene delineato il punto di partenza di ogni teologia e di ogni riflessione sistematica sulla Rivelazione di Dio nel suo Figlio. Questo progetto, però, ci dice anche che l’uomo può fare a meno di riferirsi a Dio tentando la via dell’auto-salvezza e dando così corpo a un tentativo di divinizzazione, che è lo scopo della creazione dell’uomo, esclusivamente basato sulle proprie forze e senza la grazia di Dio. La famosa frase che il serpente rivolge a Adamo ed Eva nel dialogo che intraprende con loro — nel caso mangiassero dell’albero che sta in mezzo al giardino —: «sareste come Dio conoscendo il bene e il male» (Gn 3,5), in realtà non è una menzogna perché questo è lo scopo dell’amore di Dio per il destino di ogni persona, ma Satana desidera che si realizzi senza la misericordia e gli aiuti di Dio, escludendolo dalla vita di relazione dell’uomo e organizzando così una storia di perdizione e non di salvezza. Il peccato che coinvolge storicamente l’uomo fin dall’origine è svelato proprio nel confronto con l’evento di grazia del Figlio di Dio che si è fatto carne. Nella luce di Cristo e alla luce della sua misericordia, infatti, ogni uomo può compiere il suo cammino di creatura obbedendo al progetto salvifico di Dio, invece, il suo rifiuto lo pone in una logica egoistica dove al posto di Dio trova se stesso e la propria rovina.

Questa possibile negazione della bellezza che Dio vuole per la sua creatura include anche il rifiuto del prossimo perché il peccato è negazione di sé e dell’amore fraterno. Nella Genesi, infatti, scopriamo come fin dalle origini i primi uomini perdono la loro intesa e si accusano (cfr. Gn 3,12). Il peccato diventa contagioso e i legami fraterni si spezzano (cfr. ibid., 4,8-9), fino a ferire ogni tipo di relazione. La colpa crea solitudine e morte e anche il creato ne viene intaccato, con una ricaduta sul contesto sociale come ha spiegato efficacemente san Giovanni Paolo (1978-2005) nell’Esortazione apostolica post-sinodale «Reconciliatio et paenitentia» (RC) del 2 dicembre 1984. Il Papa ricerca la causa profonda di quelle che lui, in altro luogo, chiama le “strutture di peccato” (cfr. Enciclica «Sollicitudo rei socialis», del 30 dicembre 1987, n. 36) e la ritrova nella ferita lacerante che segna in profondità il cuore dell’uomo: «Per quanto tali lacerazioni già ad un primo sguardo appaiano impressionanti, soltanto osservando in profondità si riesce a individuare la loro radice: questa si trova in una ferita nell’intimo dell’uomo. Alla luce della fede noi la chiamiamo il peccato: cominciando dal peccato originale, che ciascuno porta dalla nascita come un’eredità ricevuta dai progenitori, fino al peccato che ciascuno commette, abusando della propria libertà» (RC, n. 2). Bisogna sottolineare, infatti, come la rottura dell’amicizia originale fra l’uomo e il suo Creatore ha luogo con l’intervento della libertà umana: ogni peccato implica la libertà, anche il peccato di origine e non si tratta quindi per l’uomo di un destino fatale.

3. Lo sviluppo storico del «peccato originale»

Delineare lo sviluppo storico del concetto e della terminologia relativa al peccato di origine non è affatto semplice. Prima di Agostino d’Ippona sembra che il tema non sia oggetto d’ampia indagine. Nei Padri greci e latini si trova certamente la descrizione in cui versa l’umanità a causa della trasgressione di Adamo ma anche soprattutto a causa dei peccati personali. Lo stesso avviene nelle questioni legate al battesimo dei bambini trattate dai padri.

Sarà proprio sant’Agostino — a cominciare dal quale anche la dottrina della Chiesa è andata precisandosi, soprattutto nel V secolo, e poi nel XVI secolo in opposizione alla prima tappa della Rivoluzione, il Protestantesimo — che assumerà nei confronti del pelagianesimo (da Pelagio; 360-420) la posizione rimasta classica sulla colpa d’origine, almeno fino ad oggi, nella Chiesa cattolica. Così il Catechismo descrive questa fase: «Pelagio riteneva che l’uomo, con la forza naturale della sua libera volontà, senza l’aiuto necessario della grazia di Dio, potesse condurre una vita moralmente buona; in tal modo riduceva l’influenza della colpa di Adamo a quella di un cattivo esempio. Al contrario, i primi riformatori protestanti insegnavano che l’uomo era radicalmente pervertito e la sua libertà annullata dal peccato delle origini; identificavano il peccato ereditato da ogni uomo con l’inclinazione al male (“concupiscentia”), che sarebbe invincibile. La Chiesa si è pronunciata sul senso del dato rivelato concernente il peccato originale soprattutto nel II Concilio di Orange nel 529 e nel Concilio di Trento nel 1546» (CCC, n. 406).

Sarà, infatti, il Concilio di Trento che, nel Decreto sul peccato originale (quinta sessione: 24 maggio-7 giugno 1546), enuncerà i punti fondamentali per chiarire le questioni relative alla colpa d’origine: la sua esistenza, la provenienza e la trasmissione, la natura e i rimedi. Le proposizioni dottrinali di Trento, che si rifanno al precedente Concilio di Orange II (529) con degli elementi innovativi, costituiscono il vero e proprio dogma del peccato originale. È utile ed interessante leggere il primo canone del decreto che riassume, in pratica, l’essenziale dell’insegnamento in oggetto: «1. Se qualcuno non ammette che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito nel paradiso il comando di Dio, ha perso all’istante la santità e la giustizia nelle quali era stato stabilito e che, per questo peccato di prevaricazione, è incorso nell’ira e nell’indignazione di Dio, e perciò nella morte, che Dio gli aveva minacciato in precedenza, e, con la morte nella schiavitù di colui “che” poi “della morte ha il potere, cioè il diavolo” (Eb 2,14); e che tutto l’Adamo per quel peccato di prevaricazione fu mutato in peggio sia nell’anima che nel corpo: sia anatema»[2].

In pratica Trento insegna una peccaminosità universale che ha come causa il peccato di Adamo e si trasmette per il fatto di appartenere al genere umano. Il Catechismo del 1992, riguardo a tale trasmissione, afferma che essa rimane un mistero che non possiamo comprendere appieno e aggiunge: «Si tratta di un peccato che sarà trasmesso per propagazione a tutta l’umanità, cioè con la trasmissione di una natura umana privata della santità e della giustizia originali. Per questo il peccato originale è chiamato “peccato” in modo analogico: è un peccato “contratto” e non “commesso”, uno stato e non un atto» (CCC, n. 404).

La teologia contemporanea ha messo in crisi la dottrina tradizionale del peccato originale a partire dall’impostazione della visione sulla persona umana, con i concetti di responsabilità e di soggettività e a partire dalle concezioni sulla stessa origine dell’umanità. La filosofia e diverse scienze sperimentali, con la loro rinnovata visione della persona umana, mettono in discussione una peccaminosità fin dall’origine che sia ereditaria, connessa con la trasmissione di una natura senza un atto di responsabilità personale. Sullo sfondo di queste nuove sollecitazioni culturali, i teologi cercano di cogliere e approfondire sempre di più la verità contenuta nel dogma cristiano e questo non è sempre semplice e lineare.

4. Una possibile sintesi

Memori dell’insegnamento teologico del card. Giacomo Biffi, che ha legato al concetto di «cristocentrismo» gli sforzi della sua riflessione teologica, oggi la teologia sistematica propone come punto di partenza per lo studio del peccato originale e dell’uomo in generale proprio la predestinazione/creazione in Cristo del genere umano, che esprime l’intenzione originaria di Dio della chiamata dell’uomo nel Verbo incarnato — come insegnano le Lettere paoline, in particolare Ef 1,1-14 e Col 1,13-20). La solidarietà di tutti gli uomini in Adamo si iscrive nella solidarietà originaria e antecedente degli uomini in Cristo. Questa solidarietà in Cristo è il senso compiuto del progetto di Dio ed esclude un’auto-salvezza a prescindere da Gesù Cristo. Quindi, secondo la rivelazione, la solidarietà in Adamo è in realtà una complicità nel peccato di Adamo e la predestinazione dell’uomo in Cristo si oppone alla solidarietà nel peccato di Adamo. Quest’ultima è la pretesa di salvarsi senza Cristo, e ciò conduce alla perdizione. Fra peccato di origine e peccati personali, inoltre, c’è uno stret­to legame: questi ultimi manifestano il senso del dramma che deriva dalla colpa d’origine e, nello stesso tempo, attualizzano e diffondono lo stesso peccato originale. Non si può addossare al solo peccato originale originante tutto il peso del male e della miseria nel mondo, perché anche i nostri peccati attuali contribuiscono alla sua diffusione. Non siamo certo agnelli innocenti e le conseguenze del peccato originale originato, di cui portiamo le conseguenze nell’anima a causa della prima trasgressione di Adamo — nostro padre nell’umanità —, vengono alimentate dai nostri peccati personali che incidono su di noi e anche sulle vite degli altri.

Resta, in ogni caso, determinante che il primato e il fine della creazione siano la grazia e la misericordia di Cristo: «Che significato ha la scelta di un Uomo-Dio, al quale tutta la creazione è ordinata? Pare evidente che lo specifico di questo disegno è la volontà di manifestare, prima e più di ogni altra perfezione divina, l’amore misericordioso capace di superare ogni ribellione e vincere ogni durezza»[3].

Si confrontano, così, due visioni teologiche all’interno della Rivelazione: la considerazione del peccato di Adamo trasmesso a tutte le generazioni, il Verbo eterno che si incarna per eliminare questa colpa d’origine e le opere del Diavolo — «amartiocentrismo», da «hamartìa», «prendere una strada sbagliata» nella lingua greca antica, che è tradotto oggi con «peccato» — oppure si considera il progetto divino a partire da Cristo, origine e scopo della creazione, al cui interno vi è la colpa di Adamo, che conduce alla perdita di Dio e che viene inglobata nel progetto più grande della Redenzione senza intaccarne la potenza di salvezza — che quindi non dipende nel suo costituirsi da una mancanza precedente —, che produce una grazia sovrabbondante diffusa nelle membra della Chiesa — «cristocentrismo».

Forse le due immagini non sono da contrapporre, secondo la nota regola cattolica dell’«et, et», ma da tenere insieme e certamente oggi la priorità viene data al cristocentrismo. Il peccato rimane, anche se drammaticamente, una realtà relativa, poiché sulla sua concretezza si erge in assoluto l’opera salvifica e redentiva di Gesù Cristo. Il vero senso del peccato originale è comprensibile solo nell’orizzonte del progetto di predestinazione di Dio alla salvezza in Cristo e alla sua misericordia. Questo non toglie, certamente, la gravità e il peso del peccato nella vicenda umana.

Maria, Madre della Chiesa, concepita senza peccato originale, «segno di sicura speranza e di consolazione»[4], ci guidi nel combattimento e nella lotta quotidiana contro il peccato: «[…] numerosi Padri e dottori della Chiesa vedono nella Donna annunziata nel “protovangelo” la Madre di Cristo, Maria, come “nuova Eva”. Ella è stata colei che, per prima e in una maniera unica, ha beneficiato della vittoria sul peccato riportata da Cristo: è stata preservata da ogni macchia del peccato originale [Cf Pio IX, Bolla Ineffabilis Deus: Denz.-Schönm., 2803] e, durante tutta la sua vita terrena, per una speciale grazia di Dio, non ha commesso alcun peccato» (CCC, n. 411).

Giovedì, 28 marzo 2024

Per approfondire

Luis F. Ladaria, Antropologia Teologica, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1995, pp. 226-306.

Giovanni Ancona, Antropologia Teologica. Temi fondamentali, Queriniana, Brescia 2014, pp. 221-257.

Giacomo Biffi, Approccio al cristocentrismo. Note storiche per un tema eterno, Jaca Book, Milano 20212.

Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, nn. 385-421.

San Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, vol. XI, Vizi e peccati, I-II, qq. 71-89, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995.


[1]  «Il peccato è una parola, un’azione o un desiderio contro la legge eterna», cit. in San Tommaso d’Aquino (1225-1274), Summa theologiae, Ia-IIae, q. 71, a.6, ar.1; cfr. altresì Sant’Agostino, Contra Faustum manichaeum, 22,27.

[2] Heinrich Joseph Denzinger (1819-1883), Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. bilingue sulla 43ª edizione, a cura di Peter Hünermann, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2018, n. 1.511.

[3]  Giacomo Biffi, Approccio al cristocentrismo. Note storiche per un tema eterno, Jaca Book, Milano 20212, p. 48.

[4] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Dogmatica sulla Chiesa «Lumen gentium», del 21 novembre 1964, n. 68.

2024: Anno della Preghiera

Il Papa dedica un anno alla preghiera in preparazione al Giubileo del 2025

di don Giovanni Poggiali

Il 21 gennaio scorso Papa Francesco, durante l’Angelus domenicale, ha annunciato l’indizione per il 2024 dell’Anno della preghiera per prepararsi al Giubileo del 2025: «I prossimi mesi ci condurranno all’apertura della Porta Santa, con cui daremo inizio al Giubileo. Vi chiedo di intensificare la preghiera per prepararci a vivere bene questo evento di grazia e sperimentarvi la forza della speranza di Dio. Per questo iniziamo oggi l’Anno della preghiera, cioè un anno dedicato a riscoprire il grande valore e l’assoluto bisogno della preghiera nella vita personale, nella vita della Chiesa e del mondo».

Come ha ribadito mons. Rino Fisichella nella conferenza stampa di presentazione dell’evento, il successivo 23 gennaio, «non si tratta di un Anno con particolari iniziative, piuttosto, di un momento privilegiato in cui riscoprire il valore della preghiera, l’esigenza della preghiera quotidiana nella vita cristiana; come pregare, e soprattutto come educare a pregare oggi, nell’epoca della cultura digitale, in modo che la preghiera possa essere efficace e feconda».

Certamente, l’aspetto della preghiera in una società secolarizzata e lontana da Dio come la nostra è una sfida per ciascuno di noi, perché possiamo trovare spazi e tempi giornalieri adeguati al rapporto con Dio, di cui la preghiera è segno principale e necessario. La preghiera, in fondo, rivela quanto ci interessa davvero Colui che diciamo di amare e in cui crediamo. L’amore, senza gesti e fatti concreti, senza il rivolgersi quotidianamente all’Amato del cuore in un dialogo che è innanzitutto ascolto, non regge e si inaridisce.

Gesù invita i suoi discepoli a pregare sempre senza stancarsi mai (cfr. Lc 18,1). Questa esigenza è talmente forte e radicata nel cuore del credente che ogni giorno, in moltissimi monasteri e comunità religiose nel mondo, si prega la Liturgia delle Ore proprio per non lasciare nessuna ora del giorno senza lode e ringraziamento a Dio. Non si può pensare sempre a Dio, come ricordava padre Rodolfo Plus (1882-1958) nell’aureo libretto Come pregare sempre, ma è possibile pensarci spesso e ricordarLo durante la giornata, sia con delle giaculatorie, sia con momenti di silenzio dedicati esclusivamente a Lui, sia offrendogli i momenti di lavoro e le sofferenze e le gioie della vita, sia con la preghiera di intercessione per gli altri, sia con la lettura della Parola di Dio e la lectio divina, o con altre devozioni e preghiere diffuse lungo tutta la giornata. Lo scopo è diventare, come insegna sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) negli Esercizi Spirituali, contemplativus in actione, “contemplativo nell’azione”, cioè sempre alla presenza di Dio anche se impegnati nelle più svariate attività quotidiane.

Fecondo, quindi, l’invito di Papa Francesco alla preghiera. Sarà un anno in cui potremo rivedere anche il nostro modo di pregare, i tempi da dedicare a questa attività primaria e i luoghi dove adorare il Signore e partecipare alla lode e alla liturgia della Chiesa. In questo modo prepareremo il nostro cuore a vivere il Giubileo del 2025, in analogia con i diversi terreni di cui parla Gesù nella parabola del seminatore (cfr. Mc 4), per accogliere il seme della Parola che Dio diffonde largamente e in abbondanza dentro le nostre vite, tenendo presente che c’è qualcuno che vuole rubarcelo affinché non produca frutto e venga disperso.

Il bisogno di spiritualità e di volgere lo sguardo e l’anima a Dio è oggi più che mai necessario, all’interno della cultura digitale e della confusione che regna a tutti i livelli della società civile, comunità ecclesiale compresa. 

Riprendiamo quindi, grazie all’Anno della preghiera, il nostro cammino di fedeli discepoli del Signore, cercando sempre di compiere la Sua volontà e di imitare Cristo soprattutto nell’atto della preghiera. Gesù pregava spesso il Padre in lunghi momenti di silenzio, anche notturni. La preghiera trasforma il cuore, accende in noi il fuoco dello Spirito, fa crescere il fervore e il desiderio di Dio, ci pone in relazione con l’Assoluto e in ascolto della sua Parola di vita. Ci pone in una giusta relazione con gli altri, convertendoci all’amore reciproco e alla mitezza. La Parola di Dio letta e meditata diventa così lampada ai nostri passi e luce sul nostro cammino (cfr. Sal 119,105). La preghiera è gioia del cuore e l’esercizio più autentico della nostra fede.

 

Storia della Cristianità occidentale: contributo di don Poggiali

Segnaliamo un libro di storia per le edizioni D’Ettoris di Crotone, intitolato Storia della Cristianità Occidentale, curato da Marco Invernizzi insieme a Paolo Martinucci e Michele Brambilla. Il libro raccoglie i testi dei video realizzati su YouTube nel tempo di lockdown durante la pandemia da Covid-19 dal 2020 da parte di diversi cultori delle materie storiche che spaziano dall’autenticità e storicità dei Vangeli fino all’epoca medievale, giungendo al pontificato di Papa Benedetto XVI e Papa Francesco. Si incontrano i periodi delle persecuzioni dei primi secoli della Chiesa, l’Oriente Cristiano, il Sacro romano impero e le crociate, quindi la riforma protestante, l’illuminismo, l’800, il concilio Vaticano I e II e molto altro. Tanti sono i temi storici trattati. Alcuni contributi sono stati scritti dal nostro Don Giovanni Poggiali. Vi proponiamo quello intitolato La divisione della Cristianità: Lutero e Calvino (pp. 197-204).

 

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La divisione della Cristianità: Lutero e Calvino

            Il nome di Lutero (1483-1546) è legato ad uno dei punti della storia moderna più gravidi di conseguenze. Nel XVI° secolo si è avviato il processo conosciuto come Riforma e che ha segnato in profondità fino ad oggi la Chiesa d’Occidente. Ogni discussione intorno alla Riforma protestante, infatti, conduce alla più sensibile incrinatura nella fede avvenuta nella cristianità occidentale e porta, nello stesso tempo, ad una disputa intorno alla persona e all’opera di Lutero. I motivi della Riforma sono molti e complessi. La ricerca della verità, in ambito religioso e storico, deve muovere sempre ogni tipo di studio e di analisi. Verranno meno giudizi affrettati e poco equilibrati che variano dalla condizione di pazzia di Lutero alla considerazione di lui come un “terzo Elia”, un “angelo”, un “apostolo”. Occorrono, credo, categorie più obiettive per la formazione di un giudizio storico. Proporremo in questa sede una breve disamina dei punti salienti della Riforma più che trattare i meri fatti storici.

            Brevi cenni biografici

            Martin Lutero nasce a Eisleben in Turingia (oggi Lutherstadt Eisleben) il 10 novembre del 1483. Entrò nel convento degli eremiti agostiniani il 17 luglio 1505 e fu ordinato sacerdote nel 1507. Nel 1512 consegue la licenza e il dottorato in teologia. Nel 1513 ebbe la famosa esperienza della torre, una illuminazione sulla dottrina della giustificazione leggendo la Lettera ai Romani 1,17; il 31 ottobre del 1517, andando contro l’autorità di Papa Leone X (1513-1521), affisse sulla porta della chiesa di Wittenberg le 95 tesi.

            Il concetto di riforma

            Analizziamo anzitutto il concetto di riforma. Nell’antichità la parola riforma era applicata soprattutto a livello antropologico: l’uomo doveva ri-formarsi, riconfigurarsi alla somiglianza con Dio. Sia i Padri che la liturgia attestano questo utilizzo derivante dalla Sacra Scrittura. Dall’XI° secolo compare un uso nuovo o una nuova applicazione dell’uso antico: si applica il termine reformatio alle realtà sociali e alle istituzioni, in primo luogo alla Chiesa. È nota la Riforma gregoriana. Si tratta di ricondurre la Chiesa alla sua forma primitiva: riformare, nel medio evo, significa formare di nuovo una cosa già esistente, ma deformata, significa ricondurre a una forma primitiva, supposta eccellente e vigorosa, una istituzione indebolita dal tempo, minata e corrotta dagli abusi. Questo comportava operare delle riforme a livello di vita della Chiesa e non delle strutture. Si limitavano gli abusi e si riformavano i costumi, ma non si toccava la dottrina trasmessa mediante la tradizione.

            Ora con Lutero e i riformatori del XVI° secolo c’è la spinta di riforma fino alla struttura stessa della Chiesa, dove per struttura si intende la costituzione fondamentale della Chiesa e ciò che è formalmente dogmatizzato nella sua tradizione cultuale e dottrinale. Lutero e gli altri riformatori intrapresero una riforma per motivi pastorali e per correggere degli abusi soprattutto in campo pastorale più che morale: nell’esercizio delle attività ecclesiastiche si trovava probabilmente poco sentimento e poca dedizione e ci si preoccupava eccessivamente degli aspetti temporali e del profitto personale. Queste cose corrompevano la predicazione. Si trattava allora di cambiare certe pratiche generalizzate che concernevano le indulgenze, la confessione, le reliquie, la celebrazione delle messe ecc. Almeno all’inizio Lutero disse che non contestava i principi stessi di tali pratiche ma il modo con cui si praticavano. Nell’intenzione dei riformatori c’era dunque un motivo eminentemente pastorale. Tuttavia non si sono fermati lì, infatti Lutero, in realtà, aveva osservato ben presto tre cose: in primo luogo, che i veri abusi implicavano, a suo modo di vedere, una falsa dottrina, distruttrice del vero rapporto religioso e dunque del Vangelo; si era infatti sostituito il vero rapporto religioso, che è interiore all’uomo, e il Vangelo, che è l’annuncio della salvezza accordata per grazia in Gesù Cristo, sulla base della fede, con delle pratiche con le quali si pretendeva guadagnare il cielo. In secondo luogo, e di conseguenza, che ciò che era malato nella Chiesa, era la dottrina, l’insegnamento e la predicazione, e che ogni riforma doveva cominciare con un rinnovamento del ministero della parola nel quale consisteva, sempre secondo lui, l’attività pastorale. In terzo luogo, che si trattava di cambiare non soltanto qualche punto di attuazione pratica, ma tutto un sistema. In fondo queste tre cose confluiscono verso questa conclusione: il vero punto da riformare era il sistema dottrinale. La Parola di Dio appariva a Lutero come soffocata da tutto un sistema umano, ecclesiastico, che consisteva in decretali, obblighi canonici, teologia dialettica e filosofia scolastica. In tal modo Lutero ha spostato la riforma dal piano dei costumi e della vita vissuta al piano della fede e della struttura stessa della Chiesa.

            Giustificazione

            Un altro punto caratteristico di Lutero è il concetto di giustificazione. Meditando su un testo di san Paolo tratto dalla lettera ai Romani, Lutero trovò la liberazione dalle sue angosce derivanti dal pensiero che Dio era un giudice severo che non concedeva la sua misericordia all’uomo: come ci si poteva salvare ottenendo la grazia di questo Dio? In Rm 1,17 trovò la risposta illuminante: “E’ in esso (il Vangelo) che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede”; “…scoperse che la giustizia di Dio di cui parla l’apostolo non era quella retributiva, che porta necessariamente alla condanna del peccatore, ma la giustizia misericordiosa di Dio, che rende giusto il peccatore. La salvezza non stava nello sforzo volitivo per disporsi alla grazia, ma nell’abbandonarsi a questa fiduciosamente. L’uomo non era salvato per le sue opere, ma per la grazia mediante la fede. Tale dottrina della giustificazione per fede divenne il cuore pulsante di tutto il messaggio luterano”.   Il concetto di giustizia quindi è importante: l’uomo è giustificato per la grazia di Dio, per la sua misericordia: la giustizia è lo stesso Cristo che è la mia salvezza. Attraverso la fede in Gesù sono giusto. Il riformatore si è preoccupato di fare una teologia salvifica più che ontologica, una teologia fondata sulla Parola di Dio la quale però arriva a coincidere con il testo scritto della Bibbia. Se è vera la ripresa della Scrittura e la valorizzazione fatta dai riformatori è altrettanto vero che il testo sacro è lettera morta se non è trasmesso da una comunità vivente, da un organismo dinamico nel quale può vivere e “crescere” in quanto comprensione e vita: è il concetto di Tradizione. Infatti il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha affermato: “La sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono l’unico sacro deposito della parola di Dio affidato alla chiesa”. La Scrittura non può essere in totale autonomia dalla Chiesa perché è la Chiesa stessa che ne definisce il canone ed è la Chiesa stessa l’alveo in cui la Scrittura ha avuto origine. Lutero, in pratica, cambierà tutto il suo sistema filosofico e teologico per accedere alla Bibbia, ai Padri e agli autori spirituali a lui cari.

            Lutero desiderava un linguaggio e un contenuto nuovo della teologia, più conforme al Vangelo e che non lo tradisse con un insegnamento e una predicazione umani. Ma l’indole fortemente soggettiva di Lutero lo indusse a cercare nella Bibbia non la fede della Chiesa ma la soluzione dei propri dubbi. La sua teologia, da un lato è violentemente polemica e distruttrice nei riguardi della vecchia Chiesa, dall’altro desidera nutrirsi di una viva spiritualità che alimenti il cristianesimo luterano. Sulla croce si acquisisce la vera conoscenza di Dio in quanto Dio nascosto; l’unico modo di accoglierlo in noi è la fede. La conoscenza di Dio, per Lutero, si ha nella debolezza e nella stoltezza umane e non nell’epifania della sua gloria che è riservata agli ultimi tempi.

            La Chiesa

            Vediamo il concetto di Chiesa in Martin Lutero. Secondo il riformatore agostiniano è la Parola che rende cristiani, che ci fa entrare nella Chiesa e ci costituisce Chiesa. Lutero attribuisce tutta la funzione della Chiesa e del ministero alla predicazione della parola e considera la fede come l’unica realtà della nostra incorporazione a Cristo. Fino al 1517 il riformatore ebbe una nozione tradizionale di Corpo mistico il quale conservava i due aspetti di organismo di salvezza come corpo visibile e di comunione di tutti coloro che per grazia hanno parte alla vita di Cristo. La Chiesa sarà per Lutero una comunità spirituale (evita anche l’utilizzo del vocabolo chiesa), cristiana e santa, di uomini: la comunità che non si forma sulla base della nascita o della potenza, come le comunità temporali, ma su quella della fede in Cristo. Questa concezione si basava su un elemento caratteristico dell’ecclesiologia riformata: l’opposizione tra interiore ed esteriore, cioè tra fede e ragione, tra Spirito e potenza, tra mondo di Cristo e questo mondo. La Chiesa è il regno spirituale ed invisibile, nella fede, del Cristo spirituale ed invisibile. In questo senso Lutero parla di Chiesa invisibile. La forma visibile della Chiesa nell’istituzione e nelle strutture, appesantita dalle “cose” esteriori eccessivamente sviluppate a danno della realtà religiosa insita nel cuore dell’uomo, doveva lasciar spazio all’ordine interiore della vocazione, della parola e della fede. Lutero paragonerà il Corpo mistico ad un’anima e considererà qualsiasi forma esteriore come carnale compreso quindi il primato papale. Tale concezione di Chiesa in Lutero, comunque, si manifesta visibilmente attraverso dei segni: il battesimo, il sacramento dell’altare e il Vangelo. Tali elementi visibili non sono però dei mezzi efficaci per il dono della grazia ma dei segni che accompagnano l’opera di Dio che è conosciuta per la sola fede la quale, unica, ha valore. Viene così negata la dottrina cattolica misconoscendo l’elemento umano della Chiesa stessa e la sua mediazione necessaria per l’ottenimento della grazia di Cristo e quindi della salvezza.

            L’azione riformatrice passava allora dal piano della vita a quello della sua struttura. Lo affermavano gli stessi protestanti della seconda generazione: lo scopo cui in realtà tendeva la riforma era di cambiare la fede della Chiesa, correggere il suo culto e abbattere l’autorità del Papa. Un esempio molto chiaro di questo era la concezione della Messa secondo Lutero: era un abuso di Roma considerare la Messa come rinnovazione del sacrificio di Cristo offerto al Padre insieme con le preghiere dei cristiani. Per lui era soltanto la commemorazione dell’ultima Cena del Signore.

            Giovanni Calvino

            Non era pensabile che i riformatori potessero dar vita a un movimento unitario, proprio in forza dell’affermazione che ogni cristiano che legga la Sacra Scrittura riceve direttamente dallo Spirito Santo la regola della fede. Dopo Hulrich Zwingli (1484-1531) che affermava che solo il Vangelo è fondamento della fede, che il papato non è di diritto divino e che diffuse il movimento evangelico da Zurigo in gran parte della Svizzera, nacque a Noyon in Francia Giovanni Calvino (1509-1564). La sua conversione alla Riforma non si è originata come in Lutero, dalla lotta angosciosa per la propria salvezza. Per Calvino veniva prima la riforma della Chiesa a cui non poteva sottrarvisi. Nel 1536 appare la prima stampa dell’opera principale di Calvino Institutio Christianae Religionis che nel 1559-60 divenne un vasto trattato di dogmatica in 4 libri. Dopo una prima attività a Ginevra nel 1536-38, pubblicò nel 1537 gli Articoli concernenti l’organizzazione della Chiesa: Calvino proponeva di restaurare la società secondo la legge di Cristo e per fare questo i cristiani dovevano accostarsi alla Cena del Signore escludendo però gli indegni. La conseguenza era un rigoroso ordinamento civile della società, retto da magistrati fermi e incorruttibili, per individuare i viziosi e i devianti, se possibile correggerli o escluderli dalla città. Fece redigere la Confessione di fede obbligatoria per i cittadini di Ginevra, chi rifiutava la professione di fede doveva andarsene. Nella Riforma calvinista, il fatto nuovo è che il tribunale per le cause religiose era in mano alle autorità civili e la Chiesa dipendeva totalmente dal potere secolare. Giunse a Basilea e quindi a Strasburgo dove portò a termine la seconda edizione dell’Institutio e dove acquisì gli aspetti pratici dell’organizzazione di una comunità liturgica e della cura d’anime. Tornò a Ginevra nel 1541 definitivamente e da Strasburgo Calvino riportò l’assetto definitivo della sua chiesa fondato sui quattro uffici di pastore, dottore, anziano e diacono. I pastori devono annunciare la parola di Dio e amministrare i sacramenti. I dottori sono i maestri di AT e NT, devono insegnare lingue bibliche e cultura generale e vengono nominati, come i pastori, dal consiglio cittadino. Gli anziani, in numero di 12, devono vigilare sul comportamento dei fedeli, con i pastori formano il concistoro, l’organo direttivo della chiesa. Infine i diaconi erano addetti alla cura dei poveri e amministravano i beni della chiesa. Gli oppositori di Calvino, che instaurò un regime duro, fino alla pena di morte, furono chiamati da lui libertini perché sostenevano una maggiore libertà per vivere. Calvino fondò poi l’Accademia, un antico suo progetto per formare i riformatori che poi si diffusero in Olanda, Scozia, Francia, Ungheria, Polonia e Russia. A livello teologico, nel calvinismo troviamo la doppia predestinazione: alcuni uomini sono destinati alla salvezza eterna altri alla dannazione. La Scrittura, come per i luterani, era l’unica norma di fede, il libero arbitrio dell’uomo veniva negato e la giustificazione del peccatore era solo per la fede senza le opere.

BIBLIOGRAFIA

  1. CONGAR, Lutero. La fede – La riforma, Morcelliana, Brescia 1984.
  2. CONGAR, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Jaca Book, Milano 19942.
  3. PUGLISI – S. TOBLER (a cura di), Testimoni della fede nelle chiese della riforma, Città Nuova, Roma 2010.

Articolo di don Giovanni Poggiali

Pubblichiamo un articolo di Don Giovanni Poggiali apparso sul numero 414 (marzo-aprile 2022) della rivista Cristianità, organo ufficiale di Alleanza Cattolica.
L’articolo affronta la pagina neotestamentaria dell’Inno alla Carità di san Paolo nella prima Lettera ai Corinzi pensata in rapporto alle categorie del “mondo che muore” e del “mondo che nasce” dello scrittore cattolico svizzero Gonzague de Reynolds (1880-1970).
Il mondo che muore è la Cristianità Occidentale erosa da un lungo percorso storico di secolarizzazione e di perdita dei criteri essenziali della fede come impostazione della vita personale e sociale; il mondo che nasce è tutto da costruire ma certamente nascerà: dopo ogni morte, infatti, c’è la risurrezione, a cominciare dalla primizia che è Gesù Cristo. Buona lettura!

 

L’Inno alla Carità e l’apostolato di Alleanza Cattolica
tra un mondo che muore e un mondo che nasce

Un mondo che muore, un mondo che nasce

La storia della civiltà occidentale, in particolar modo la storia europea, si può descrivere come le cime di una cordigliera con vette e depressioni profonde, epoche fiorenti e periodi vuoti (1). Una civiltà ha momenti simili di nascita, sviluppo, declino e morte. A mano a mano che essa cresce, si concentra sempre di più sugli aspetti secondari piuttosto che sostanziali: è il peccato dell’uomo, il suo egoismo che decentra dal vero obiettivo e dal vero centro su cui quella civiltà è fondata. Oggi noi ci troviamo in fondo alla depressione brusca e profonda che ha caratterizzato la Cristianità Occidentale, in pratica un mondo che muore, arrivata al suo apogeo nel Medioevo e caduta progressivamente attraverso le tappe rivoluzionarie delineate dal pensiero della scuola cattolica contro-rivoluzionaria (2). La speranza di un mondo che nasce è quella di riorientare la vita degli uomini verso la relazione con Dio, verso un rapporto con il prossimo secondo il Vangelo, verso le cose sostanziali per rinnovare il fervore della fede. Papa Francesco, nell’ultima solennità dell’Epifania, ha parlato di rinnovare il desiderio: «La crisi della fede, nella nostra vita e nelle nostre società, ha anche a che fare con la scomparsa del desiderio di Dio» e ha aggiunto: «Solo se recuperiamo il gusto dell’adorazione, si rinnova il desiderio. Il desiderio ti porta all’adorazione e l’adorazione ti fa rinnovare il desiderio» (3).

Gonzague de Reynold, nel saggio citato, scrive che i periodi di transizione, che possono essere anche molto lunghi, «non si compiono mai nella pace e nell’ordine; si compiono sempre nel disordine, e li caratterizza la violenza. Sempre vi è una flessione della moralità, della stessa civiltà. I progressi che si preparano, che verranno riconosciuti, che verranno adottati dopo, iniziano sempre con eccessi, con esagerazioni» (4). Questo ci aiuta forse a comprendere la confusione e la divisione che viviamo quotidianamente a tutti i livelli. Lo studioso svizzero afferma anche, però, la necessità di accettare il tempo presente che stiamo vivendo, come tempo provvidenziale che ci è stato donato: «Signori, piaccia o non piaccia, dobbiamo accettare il nostro tempo, perché non abbiamo il potere di non esservi e perché la Provvidenza ci ha posto qui per compiervi la sua opera» (5).

Oggi, il mondo che muore ci lascia come eredità l’ateismo teorico e pratico, l’emarginazione di Dio da tutti gli ambiti della vita, la dittatura del relativismo, il pensiero unico, la sfida della cultura di morte, l’inverno demografico ma non può morire la speranza del mondo che nasce, perché un mondo nuovo sta nascendo, come sempre avviene nella storia, maestra di vita, dopo una decadenza. Questo concetto va inserito anche nel quadro ancora più grande della lotta simboleggiata da sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) negli Esercizi Spirituali con la contemplazione dei Due Stendardi o Bandiere (6): la lotta di Satana contro l’Uomo-Dio Gesù Cristo, stirpe della Donna, che è la Beata Vergine Maria. Secondo una certa interpretazione di teologia della storia, Satana sarebbe sciolto dalle catene (cfr. Ap 20,1-7) e avrebbe sferrato il suo più feroce attacco all’umanità per impadronirsi delle anime. Le apparizioni di Medjugorje, in Bosnia-Erzegovina (7), sarebbero direttamente legate a questa lotta essendo la Vergine Maria apparsa per contrastare quest’azione demoniaca che, soprattutto in questi ultimi quarant’anni (durata attuale delle apparizioni), ha causato un decadimento impressionante della fede in Occidente fino alla profonda crisi religiosa in gran parte della popolazione occidentale, anche a causa della pandemia del virus Covid-19.

Come vivere bene il tempo “vuoto” tra il mondo che muore e il mondo che nasce?

La «via più sublime» (8)

Se diventa necessario riorientare la nostra vita verso valori assoluti, verso Dio con la conversione, non può mancare il volgersi verso il centro del messaggio evangelico, la carità, la capacità di amare e di donarsi. L’amore evangelico, per utilizzare un linguaggio prettamente ignaziano, è come il Principio e fondamento di tutta la nostra azione per il bene della Chiesa. Senza amore di Dio non c’è vita, non c’è vera fede, non c’è vero apostolato. I doni spirituali ricevuti da Dio, i carismi di cui parla san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (1 Cor 12), prima del famoso capitolo 13 dell’Inno alla carità, non servono per edificare noi stessi. Spesso mettiamo in contrapposizione il dono personale ricevuto da Dio all’utilità comune. Certamente il singolo carisma è importante, grazie ai doni dello Spirito Santo ciascuno di noi diventa nella propria epoca memoria vivente di Cristo, alter Christus, secondo le proprie capacità e i carismi ricevuti. Le membra sono tutte necessarie nel corpo ecclesiale. Le originalità dei singoli cristiani sono una ricchezza, pensiamo alla diversità e peculiarità dei santi. Ma per consentire agli uomini di ogni epoca d’incontrare Cristo risorto, che è l’unico vero fondamento della Chiesa, sono indispensabili tutte le membra del suo organismo ecclesiale animate dalla carità che è la «via più sublime» da percorrere, come indicata da san Paolo (cfr. 1 Cor 12,31). Le membra sono indispensabili tutte insieme, come una squadra sportiva che ha bisogno di tutti i suoi elementi e non solo del singolo campione.

Ecco un primo importante insegnamento: il dono serve l’unità, non il contrario e l’unità non si può sacrificare al singolo dono. Nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, Papa Francesco afferma: «Il Vangelo è lievito che fermenta tutta la massa e città che brilla sull’alto del monte illuminando tutti i popoli. Il Vangelo possiede un criterio di totalità che gli è intrinseco: non cessa di essere Buona Notizia finché non è annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le dimensioni dell’uomo, e finché non unisce tutti gli uomini nella mensa del Regno. Il tutto è superiore alla parte» (9).

Quindi, la sinfonia è più importante del singolo strumento. Noi spesso possiamo dire e fare le cose giuste senza la logica dell’insieme, senza essere parte di un tutto. Diamo cioè troppa importanza a ciò che facciamo e non consideriamo che è parte del tutto. Non ha senso avere dei doni e non avere l’orientamento dell’unità e dell’insieme. In una parola, forse oggi troppo abusata, la comunione. Agire in comunione tra di noi è la prima pietra per edificare il mondo nuovo.

Il carisma è un dono anche associativo. Sono le qualità della Provvidenza affidate a ciascuna persona o a un gruppo in particolare. San Paolo dice che «a ciascuno è data una manifestazione dello Spirito per il bene comune» (1 Cor 12,7). Ma il vero carisma, il più grande di tutti, è l’amore (Cfr. 1 Cor 13,13). Noi stiamo costruendo il Corpo di Cristo nella storia e per risolvere le nostre emergenze occorre l’amore. Se però io non sono stato amato non sarò capace di amare, se nessuno mi ha usato pazienza io non la potrò conoscere. Se non credo all’amore di Dio per me non sperimenterò ciò che significa vero amore.

Comunione e individualismo

Uno dei più grandi nemici dell’uomo è l’individualismo che minaccia la comunione. Ne parla Gonzague de Reynold in uno dei suoi saggi: «La rivoluzione moderna è, al suo punto di partenza, individualista, al suo punto d’arrivo collettivista e comunista» (10). Possiamo, cioè, avere dei doni ma viverli individualmente e non avere la carità. Ciò che conta veramente non è avere o non avere capacità ma se amiamo davvero. Il nostro avversario è il delirio autonomo, il sogno di essere autosufficienti. Fare le cose per le cose senza entrare veramente in relazione con gli altri. Se siamo noi stessi la fine e l’inizio di ciò che facciamo, senza il fine, siamo perduti. Il fine, lo scopo dell’amore, infatti, è l’altro da me. Occorre passare dal nostro isolamento alla comunione, alla relazione. Essa è necessaria per vivere, perché «Dio è amore» (1 Gv 4,16); senza amore non si può crescere e perfezionarsi. Se ho dei doni meravigliosi ma la carità si spegne nel mio cuore perdo i doni di Dio. L’efficienza senza amore, diventa vuota, inconsistente. È l’esperienza che facciamo, a volte, di aver trascorso una giornata nell’agitazione e nell’efficientismo e avere la sensazione di giungere a sera completamente svuotati. Abbiamo necessità di stare nell’amore perché non si vive senza la prospettiva della carità. Non si può vivere senza relazioni e senza il volto dell’altro. Così è infatti la Trinità, una relazione d’amore.

Esso non è soltanto uno stato di spontaneismo, di sentimento. L’amore è una relazione. L’altro è il fine del mio atto e quindi l’amore non può ridursi al mio stato d’animo che vuole determinare l’azione. L’amore implica il sentimento ma non deve avere la propria fonte nel sentimento. Due genitori stanchi che non dormono di notte da giorni perché il loro bambino piccolo si sveglia non hanno nessuna voglia, nessun sentimento, nessun desiderio di spontaneismo. L’amore coinvolge la volontà di voler amare; ma non è soltanto un atto di volontà, è un atto che implica volontà, sentimento, desiderio, fedeltà, libertà, tutto. La carità è frutto dello Spirito, è un tesoro di cui uno si svuota per arricchire l’altro, è centrata sull’altro. L’amore è un tesoro da dare perché l’abbiamo ricevuto per primi da Dio. Oggi la parola “amore” è sulla bocca di tutti ma il suo vero significato lo può indicare solo la fonte divina da cui proviene. Chi non ha percepito, riconosciuto l’amore di Dio, non può comprenderlo. L’amore parte da Dio e ha relazione con lo Spirito che ci dà la gioia, la pienezza e il riconoscimento della comprensione che noi siamo amati per primi.

L’elogio della carità

Dopo questa premessa sui carismi, sulla comunione che contrasta l’individualismo, e sul concetto e significato dell’amore, entriamo più direttamente nella Prima Lettera ai Corinzi. San Paolo, per estirpare dalla comunità cristiana greca ogni complesso d’inferiorità che produceva scoraggiamento, individualismo e disimpegno ma soprattutto ogni complesso di superiorità che portava alla superbia e al disprezzo degli altri, rammenta con fermezza che la vita nella Chiesa deve essere animata dalla carità. I doni concessi dallo Spirito Santo a ogni cristiano non produrrebbero frutti di salvezza se non fossero alimentati come i tralci della vite dalla linfa, anch’essa spirituale, dell’amore. 

La carità, per san Paolo, non è primariamente l’amore dei cristiani per Cristo o il loro amore per il prossimo. Originariamente è l’amore generoso e incondizionato di Cristo per gli uomini, che diventa la sorgente del loro amore per il prossimo. Infatti, nelle lettere paoline il sostantivo ἀγάπη (agape), e quindi il verbo ἀγαπἀω (agapào), non indica mai l’amore dei cristiani per Cristo. Nel cuore dell’elogio al capitolo 13, Paolo fa una specie di identikit della carità. Ne descrive i pregi con quindici tratti essenziali, sette in positivo e otto in negativo, partendo da ciò che suscita nelle persone in relazione con gli altri.

a. magnanima e benevola

Anzitutto è «magnanima» e «benevola» (1 Cor 13,4). Magnanima (μακροθυμεῖ, macrotiméi) era tradotta con “paziente” nella versione biblica del 1974 ad opera della CEI (Conferenza Episcopale Italiana. L’attuale traduzione, utilizzata nella liturgia, è del 2008). È la grandezza d’animo, lo spazio interiore che va ampliato, dilatato, accresciuto. Avere carità implica il non reagire con velocità e non essere tendenti a prendere la prima reazione che ci sorge da dentro. Il contrario di magnanimo è “pusillanime”, animo piccolo. Non ci si perde nelle cose piccole, si guarda alle cose grandi. La carità è paziente, cioè ha qualcosa di più alto a cuore rispetto alle cose piccole e banali. È centrata sugli scopi nobili della vita. Il termine “magnanimo”, nell’Antico Testamento (AT), è analogo alle parole «lento all’ira» utilizzate per esempio nel Salmo 86,15: «Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà». Dio guarda la salvezza dell’uomo, non perde mai di vista le cose veramente importanti. La grandezza di cui parliamo è lo scopo donato da Dio, è il contrario della presunzione e della pusillanimità. La magnanimità è il non perdersi in cose piccole ma volgersi alla grandezza di Dio. Quindi, il primo attributo dell’amore è la grandezza d’animo, alzare lo sguardo verso ciò che è grande, ciò che davvero conta. 

Il secondo attributo della carità è l’essere benevola (χρηστεύεται, krestéuetai). La parola greca ha la radice nel termine “utile”, “valido”, “adatto”. È distinta da ἀγαθὸς (agathòs), “buono”. L’amore è rendere abile la situazione al bene. Trova il modo di valorizzare tutto, è l’iniziativa di prendere una cosa e condurla alla sua realtà più bella. È imparare l’arte di trarre fuori il bene da ogni cosa, l’arte di crescere in tutto e trovare ciò che è buono: «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rom 8,28). Il benevolo trova il modo di far stare bene in tutte le cose. Alcuni non stanno bene da nessuna parte: insoddisfazione, rabbia, infelicità, lamentela. Ci sono dei formatori che non sanno valorizzare gli allievi e sono costantemente insoddisfatti. Educatori che non sanno trarre fuori (educere) il meglio dai ragazzi loro affidati. I santi invece, non si scoraggiano mai, non si fanno smontare dalle difficoltà, trovano il bene in tutte le cose sempre e comunque. Tutto questo non è certamente una capacità umana ma è dono dello Spirito. L’amore valorizza, costruisce sempre, non si scoraggia. Edifica costantemente qualcosa di positivo e anche se così non fosse inizia almeno a costruire una relazione con Cristo. Il benevolo mira al risultato accettando qualunque punto di partenza. Non smette di credere al bene. Non dice mai: «per te è finita». L’onnipotenza di Dio ci dà altre intuizioni e anche se sembra che sia tutto finito Dio sa trarre un bene più grande. Egli è benevolenza, misericordia, provvidenza. Il benevolo ha saputo lasciarsi cambiare, ha scoperto che il proprio punto di vista non è l’unico. Il benevolo è colui che di fronte alla vita è sempre positivo. Di fronte all’errore più grande delle persone il magnanimo dice: c’è molto di più in te di questo tuo errore, e di fronte alle situazioni di crisi che sembrano insormontabili, il benevolo dice che si può trovare il bene su questa strada, è sempre costruttivo e mira a ciò che veramente conta.

b. senza invidia, senza vanità e senza orgoglio

Ci sono anche attributi in negativo della carità: «non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio» (1 Cor 13,4). Anzitutto ζηλοῖ (zeloi, tradotto dalla CEI con «invidia») non è interpretabile con il nostro «zelo». Il senso è l’orientamento verso qualcosa o qualcuno, una spinta che indica un tipo di rapporto rispetto ad un altro, in latino «non aemulator», quindi la carità non emula, non cerca di uguagliare o superare qualcuno, non è invidiosa. Quando ci si orienta verso una persona, nell’ambito delle relazioni, il confronto può diventare pericoloso perché potrebbe avere una piega possessiva che tende a vedere l’altro in funzione di se stessi, quindi può scattare l’invidia, la rivalità, l’emulazione, la voglia che l’altro sia dentro il nostro schema e non sia più di noi. Si diventa competitivi, fino ad odiare le differenze e le grazie altrui. Non si ama il prossimo in quanto se stesso, piuttosto l’altro diventa funzionale al nostro bisogno e al nostro desiderio di primeggiare e prevaricare affinché non ci venga tolta la nostra centralità. L’invidia ha una direzione sbagliata verso la crescita nel bene. Si parte dall’ammirazione dell’altro fino a volerlo possedere, catturare per superarlo, fino alla dinamica di dominio. Dopo l’ammirazione scatta la competizione, quindi sfocia in un’alterità negativa. C’è una tristezza di fronte alla gioia altrui e una gioia di fronte alla tristezza altrui. Non si riesce a trovare gioia nelle cose che facciamo perché non siamo contenti di noi stessi, cerchiamo nell’altro un compimento che diventa una frustrazione di possesso secondo la logica che il nostro prossimo ha sempre più di noi mentre la realtà dice l’opposto. Il prossimo diventa oggetto del nostro desiderio perché non siamo contenti di noi stessi. Si vive così frustrati avendo rabbia contro il nostro prossimo. Tutto questo è incompatibile con l’amore perché la carità valorizza l’altro, non è invidiosa, non fa confronti per diminuire o denigrare il prossimo ma per crescere nel bene ricavando i frutti da tutti gli aspetti in gioco.

La seconda caratteristica in negativo della carità è Περπερεύεται (perperèutai) tradotto con «(non) si vanta». Essa fa riferimento alla vanagloria, alla vanteria, alla ricerca della propria immagine, fare impressione a qualcuno. Ci poniamo di fronte al prossimo sbattendogli in faccia il nostro ego. Il vanitoso prende il vuoto e gli dà corpo. È l’arroganza, per cui ci si attribuisce un dono di Dio. Il bene è fatto per la propria immagine e non per il bene comune. L’uomo, in tal modo, coltiva progressivamente il proprio ego in tutto ciò che fa diventando vanagloria personificata. Ciò che conta, invece, è l’intenzione del cuore con cui noi scegliamo di fare o non fare una determinata cosa. Chi si vanta non si vanta di una cosa brutta ma si vanta del bene, soltanto che questo è collegato al proprio io, alla propria persona, vanificando così lo stesso bene compiuto. Invece, l’amore non si vanta, non ha bisogno del prezzo ma è gratuito. L’amore autentico remunera di suo. Quando uno ha bisogno di una remunerazione significa che pensa a sé stesso e non si è ancora staccato dalla propria immagine.

Infine, la terza caratteristica espressa con φυσιοῦται (fisioùtai), cioè «(non) si gonfia d’orgoglio». La parola orgoglio è aggiunta in traduzione, nell’originale è «non si gonfia». La carità non fa diventare le cose più grandi di quello che sono, non le gonfia, non le ingrandisce, soprattutto non accresce il proprio io. L’amore non si sovradimensiona, non è una esagerata concezione di sé. Dio crea col soffio della sua bocca e l’uomo diventa un essere vivente (cfr. Gen 2,7), mentre in questa circostanza soffia un altro spirito, ben interpretato con il termine arroganza, ad rogare, chiedere qualcosa per sé, pretendere accaparramento ed espansione, esigere “aria” per gonfiarsi (“darsi delle arie”). L’uomo, in tal modo, si attribuisce qualcosa che non gli spetta. San Paolo esprime bene questo concetto: «la conoscenza riempie d’orgoglio, mentre l’amore edifica» (1 Cor 8,1). Nella versione biblica del 1974 si leggeva: «la scienza gonfia, mentre l’amore edifica». È il vuoto che diventa apparenza, ci si gonfia d’aria e non di Spirito Santo, ci si arroga ciò che è nulla, il vuoto, e si falsifica la realtà.

Abbiamo esaminato, quindi, queste tre caratteristiche: la carità non è invidiosa, cioè non compete, non si confronta con l’altro [«non stimatevi sapienti da voi stessi» (Rom 12,16)]; non si vanta cioè non cerca la propria immagine [«valutatevi in modo saggio e giusto» (Rom 12,3)]; non si gonfia cioè non aumenta la propria dimensione [«non valutatevi più di quanto conviene» (ibid.)]. C’è qualcosa di inconsistente, di infelice dentro la persona: l’essere ansiosi per la propria grandezza, essere contenti quando si è più di qualcuno, apparire più sapienti degli altri. Tutto questo allontana dal nostro cuore e dal nostro vero io. Essere stimati e diventare grandi. Non: “essere” ma “essere qualcuno”, gonfiati, vanagloriosi, vuoti, inconsistenti, tutta apparenza per essere importanti. In fondo si perde di vista chi si è veramente cioè la verità di noi stessi. È l’ansia di arrivare a possedere qualcosa, l’essere schiavi della superficialità, della epidermide delle cose, delle idealizzazioni, manca però la relazione vera e autentica con l’altro. Il vero sé, invece, si radica nella realtà, sfrutta i ridimensionamenti, accetta i propri limiti. Il vero sé non ha bisogno di essere più dell’altro ma si accontenta di essere piccolo, prende le cose semplici per ciò che sono. Non ha bisogno di essere diverso da quello che è, di avere ciò che non gli spetta. Questa dinamica spirituale può essere tradotta con l’evangelico: «beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei Cieli» (Mt 5,3).

c. non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse

Proseguendo nell’inno di san Paolo, incontriamo altre due peculiarità in negativo: la carità «non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse» (1 Cor 13,5). Anzitutto, la parola ἀσχημονεῖ (askemonéi), collegata con il verbo ἔχω (eko) “avere”: indica le prerogative, gli attributi della realtà, l’insieme di proprietà che costituiscono una persona. L’altro da me è fatto in una ben precisa maniera e chi non ama è colui che non tiene conto delle caratteristiche dell’altro non rispettandolo. Invece, l’amore non manca di rispetto. Esso tiene conto dell’altro e ne considera le prerogative. Purtroppo esistono anche relazioni senza rispetto, infatti non è amore. La mancanza di carità è violenza alle cose: infatti, a volte, in nome dell’amore si fa violenza sull’altro. L’amore accetta anche i dinieghi, non priva l’altro della propria dignità e non lo disonora, non lo disprezza. L’amore non è rude, è una dolce premura, si dona con tenerezza e anche con fermezza ma senza violenza. Esso non agisce impropriamente. Come l’amore di Gesù, che ci ha amato peccatori per il nostro bene concreto e non ci ha amato imponendo le sue categorie ma secondo le nostre necessità.

Una seconda caratteristica è che la carità «non cerca il proprio interesse». Nel testo originale la parola “interesse” non è presente. Il testo recita: non cerca il suo. Significa che la carità non cerca il proprio scopo con una strategia ben precisa per giungervi. Sembra qualcosa di generoso, di oblativo ma è la ricerca di un vantaggio per sé. In fondo è l’arte di manipolare, di chi cerca obiettivi autoreferenziali. È amare ma avendo a cuore il proprio vantaggio, un farsi tornare i conti. Nella spiritualità orientale potrebbe tradursi con ϕιλαυτία (philautìa), l’amor proprio. Pur facendo servizi, ministeri di carità, organizzazioni di gesti caritativi, alla fine il proprio ego deve essere foraggiato. C’è un sano rispetto per sé stessi ma succede che l’eccessivo amor proprio prenda il sopravvento. Esso va per gradi: il grado del piacere, cioè stare nelle cose per la gradevolezza, per appagamento, per la passione verso il corpo, un amor proprio che ha bisogno di essere soddisfatto. Il secondo grado è quello della propria volontà, un modo di occuparsi dell’altro ma senza rinunciare al proprio progetto, al proprio volere, ai propri desideri. Il terzo grado è la giustizia, cioè il tipo di amore che cerca sé stesso con più raffinatezza: viene fatta la carità ma per cercare il senso della propria giustizia, per apparire retti, moralmente ineccepibili, per sentirsi giusti e a posto con la coscienza. 

Manca in questi vari passaggi l’abnegazione, il distacco dal proprio ego. Chi è schiavo del proprio ego è incatenato a un risultato che sia il piacere, sia un progetto o sia la sua immagine morale ed etica è qualcuno che non può volare verso l’alto perché è legato ad una catena e deve avere un proprio tornaconto. In fondo, se vogliamo tradurre con una parola, la più adatta è solitudine. L’egocentrico è una persona sola, autoreferenziale. L’amore, il distacco da sé stessi, ti rende libero e autentico in tutte le relazioni che sono aperte e gioiose (11).

La carità è l’unica realtà che non viene mai meno, cioè non cade nel nulla [questo è il significato del verbo πίπτει (pìptei) in 1 Cor 13,8]. La carità sarà con noi risorti e trasfigurati in corpi spirituali, e tornerà alla sua fonte divina. Purificata da ogni scoria dal fuoco dell’amore divino, la carità rimarrà per sempre con Cristo in Dio. Se questo è il destino glorioso dell’amore umano è chiaro perché fin d’ora è la virtù più grande (cfr. 1 Cor 13,13). Ogni altra realtà della vita, inclusi i doni di grazia, profuma fin d’ora d’eternità soltanto nella misura in cui è impregnata di carità. 

Benedetto XVI: punti fermi e motivi di speranza

L’inno alla carità non termina con le caratteristiche enunciate ma introduce altre prerogative dell’amore che non trattiamo in questa sede («non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,5-7). Vorrei però declinare le parole dell’Apostolo delle Genti e ricondurle per noi al momento storico che stiamo vivendo di fine di un mondo e di nascita di un mondo nuovo che è già in atto e che noi forse non vedremo nel suo sorgere e nel suo sviluppo (12).

In un recente testo di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, vi sono affermazioni che possono essere prese come manifesto del “mondo che nasce”, parole semplici, senza grandi proclami programmatici ma che toccano il cuore e la mente, e ci offrono una prospettiva di apostolato su cui impegnarci (13).

Il Papa emerito afferma che i sistemi atei e materialistici dei due secoli precedenti al nostro hanno lasciato una catastrofe non tanto di natura economica ma che essa consiste nell’inaridimento delle anime e nella distruzione della coscienza morale. I sistemi comunisti e ideologici, terza tappa della Rivoluzione nel pensiero cattolico controrivoluzionario, sono naufragati soprattutto per il loro disprezzo dei diritti umani, per la subordinazione della morale alle esigenze del sistema e alle sue promesse di futuro: «La problematica lasciata dietro di sé dal marxismo continua a esistere anche oggi: il dissolversi delle certezze primordiali dell’uomo su Dio, su sé stessi e sull’universo – la dissoluzione della coscienza dei valori morali intangibili, è ancora e proprio adesso nuovamente il nostro problema e può condurre all’autodistruzione della coscienza europea» (14). Papa Benedetto si chiede dunque: a che punto siamo oggi? e delinea, dopo la dissoluzione della Cristianità e dell’Occidente che si è auto demolito, alcuni criteri valoriali con cui ripartire e rifondare il mondo che nasce:

– anzitutto afferma l’incondizionatezza con cui la dignità umana e i diritti umani devono essere presentati come valori che precedono qualsiasi giurisdizione statale. Questa validità della dignità umana previa ad ogni agire politico rinvia ultimamente al Creatore, solo Lui può stabilire valori che si fondano sull’essenza dell’uomo e sono intangibili (15).

– un secondo criterio è il matrimonio e la famiglia: l’Europa non sarebbe più tale se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse essenzialmente cambiata: «Se da una parte il loro (uomo e donna) stare assieme si distacca sempre più da forme giuridiche, se dall’altra l’unione omosessuale viene vista sempre più come dello stesso rango del matrimonio, siamo allora davanti ad una dissoluzione dell’immagine dell’uomo, le cui conseguenze possono solo essere estremamente gravi» (16). Persiste, anche attraverso queste attestazioni, un odio di sé dell’Occidente che è misterioso e che si può considerare solo come qualcosa di patologico (17).

L’Europa, dunque, per sopravvivere ha bisogno di una nuova accettazione di sé. In pratica, non ama più sé stessa. Il mondo che muore, e probabilmente è già morto, implica che un nuovo mondo debba nascere. La dinamica per il cristiano è sempre di morte e resurrezione. Per qualcosa che muore non c’è mai la fine di tutto ma la possibilità di un nuovo inizio. È la stessa dinamica della croce: sembra la fine di ogni cosa, il Messia appare sconfitto nel combattimento contro le forze del male e invece è l’inizio della nuova creazione in Cristo risorto. Questo nuovo mondo lo possiamo agognare anche attraverso i motivi di fiducia e di speranza indicati dallo stesso Papa emerito: «Il primo motivo di speranza consiste nel fatto che il desiderio di Dio, la ricerca di Dio è profondamente scritta in ogni anima umana e non può scomparire. Certamente, per un certo tempo, si può dimenticare Dio, accantonarlo, occuparsi di altre cose, ma Dio non scompare mai […]. È la speranza che l’uomo sempre di nuovo, anche oggi, si ponga in cammino verso questo Dio» (18).

Il secondo motivo di speranza consiste nel fatto che «il Vangelo di Gesù Cristo, la fede in Cristo è semplicemente vera. E la verità non invecchia. Anch’essa si può dimenticare per un certo tempo, si possono trovare altre cose, la si può accantonare, ma la verità come tale non scompare. Le ideologie hanno un tempo contato. Sembrano forti, irresistibili, ma dopo un certo periodo si consumano, non hanno più forza in loro, perché manca loro una verità profonda […]. Invece il Vangelo è vero, e perciò non si consuma mai […] sono convinto che ci sia anche una nuova primavera del cristianesimo» (19).

Un terzo motivo di speranza, il Papa lo riscontra nei giovani. Il vuoto, l’inquietudine che lavora dentro di loro, li conduce a cogliere l’insufficienza di senso e l’inconsistenza delle proposte mondane: «I giovani hanno visto tante cose – le offerte delle ideologie e del consumismo –, ma colgono il vuoto in tutto questo, la sua insufficienza. L’uomo è creato per l’infinito […]. Quindi, mi sembra che l’antropologia come tale ci indichi che ci saranno sempre nuovi risvegli del cristianesimo e i fatti lo confermano con una parola: fondamento profondo. È il cristianesimo. È vero, e la verità ha sempre un futuro» (20).

Conclusione

La verità della fede cristiana va continuamente desiderata e diffusa perché rimane il fondamento reale e intrinseco della vita di ogni uomo, anche se lontano da Dio. La verità di Cristo è inseparabile dal suo amore (21). Questo amore è il fondamento dell’azione di evangelizzazione nel mondo, opera che avrà un ruolo decisivo per l’edificazione della Cristianità futura. Per questo, il mondo che nasce, sarà un mondo bello, a misura d’uomo e secondo il piano di Dio, perché la promessa della Madonna a Fatima è nel tempo del suo compimento: «Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà» (22).

 

 

Note:

1) Cfr.: Ignazio Cantoni, Fra un mondo che muore e un mondo che nasce, in Cristianità, anno XLIX, n. 408, marzo-aprile 2021, pp. 57-73 (63). Cantoni, richiama un’immagine dello scrittore svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970) che descrive i processi di ascesa e declino della civiltà in una determinata epoca storica: «Utilizzerò un’immagine per rendere concreto quanto vi è di astratto, e animare quanto vi è di schematico in questa descrizione. Confronterò lo sviluppo per epoche e periodi vuoti della storia europea con una catena di montagne, una catena intervallata da depressioni brusche e profonde. Ogni segmento di questa cordigliera si inserisce tra due di queste depressioni. Risale lentamente da una per cadere rapidamente nell’altra. Una vetta la domina, abbagliante come un ghiacciaio al sole. Rappresenta l’apogeo di un’epoca e della sua civiltà; ma vi è poco spazio sulla vetta, e non vi si può rimanere a lungo»: Gonzague de Reynold, L’Europa impossibile e necessaria, in Id., La Casa Europa. Costruzione, unità, dramma e necessità, trad.it. presentazione e cura di Giovanni Cantoni (1938-2020), D’Ettoris Editori, Crotone 2015, pp. 257-258.
2) Cfr. Plinio Correa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, trad. it. a cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009.

3) Francesco, Omelia della Santa Messa nella solennità dell’Epifania del Signore, del 6-1-2022.

4) Gonzague de Reynold, Dove siamo; il mondo che muore, il mondo che nasce, in Id., La Casa Europa, op.cit., p. 173.

5) Ibid., p. 172.

6) Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, nn. 137-147, in ID., Gli scritti, a cura dei gesuiti della Provincia d’Italia, Edizioni AdP, Roma 2007, pp. 238-242.

7) Sulle apparizioni della Madonna a Medjugorje cfr. il mio: Medjugorje, il «fenomeno» mariano contemporaneo, in Cristianità, anno XLVI, n. 394, novembre-dicembre 2018, pp. 49-58; vedi anche la recensione a: Dossier Medjugorje, con introduzione e commento di Saverio Gaeta, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2020, pp. 174, in Cristianità, anno XLVIII, n. 402, marzo-aprile 2020, pp. 67-72.

8) Sono debitore, per questa parte dell’articolo, ad un sacerdote della Diocesi di Roma e alla sua catechesi sull’Inno alla carità nella Prima Lettera ai Corinzi di san Paolo Apostolo, cfr.: Don Fabio Rosini, L’amore senza fine, reperibile nel sito web: https://www.youtube.com/watch?v=XxbWwchw5tc, visitato il 28-2-2022.

9) Francesco, Esortazione apostolica «Evangelii Gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, del 24-11-2013, n. 237.

10) Gonzague de Reynold, L’Europa tragica. «Fra il mondo che muore e il mondo che nasce», in Id., La Casa Europa, op.cit., p. 236.

11) Per un confronto fruttuoso con tutti questi temi è molto utile il lavoro di: Giovanni Cucci, Il fascino del male. I vizi capitali, AdP, Roma 2008.

12) Occorre precisare che in altre zone del mondo, aldilà dell’Occidente, la Cristianità è viva: pensiamo alle chiese giovani dell’Africa o anche ad alcune parti dell’Asia.

13) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, La vera Europa. Identità e missione, Introduzione di Sua Santità Papa Francesco, Cantagalli, Siena 2021.

14) Ibid., pp. 230-231.

15) Ibid., p. 231.

16) Ibid., p. 233.

17) Cfr. Papa Francesco, Discorso ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, del 10-1-2022: «Non di rado il baricentro d’interesse si è spostato su tematiche per loro natura divisive […] con l’esito di agende sempre più dettate da un pensiero che rinnega i fondamenti naturali dell’umanità e le radici culturali che costituiscono l’identità di molti popoli. Come ho avuto modo di affermare in altre occasioni, ritengo che si tratti di una forma di colonizzazione ideologica, che non lascia spazio alla libertà di espressione e che oggi assume sempre più la forma di quella cancel culture, che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche. In nome della protezione delle diversità, si finisce per cancellare il senso di ogni identità, con il rischio di far tacere le posizioni che difendono un’idea rispettosa ed equilibrata delle varie sensibilità. Si va elaborando un pensiero unico – pericoloso – costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca, non l’ermeneutica di oggi». Cfr.: eugenio Capozzi, L’autodistruzione dell’Occidente. Dall’umanesimo cristiano alla dittatura del relativismo, Historica / Giubilei Regnani, Roma-Cesena 2021.

18) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, La vera Europa, op.cit., p. 257.

19) Ibid., pp. 257-258. Nel mondo, infatti, il cristianesimo è in crescita: alla fine del 2019, secondo l’Annuario Pontificio 2021, la popolazione cattolica era 1.345.000.000 di persone, circa il 18% della popolazione mondiale, con 16.000.000 di cattolici in più rispetto al 2017, cfr.: Tiziana Campisi, Crescono nel mondo i cattolici: sono 1 miliardo e 345 milioni, reperibile nel sito web: https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2021-03/aumentano-cattolici-statistiche-chiesa-annuario-pontificio.html, visitato il 5-3-2022. D’altro canto, il Rapporto sulla libertà religiosa 2021 dell’associazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre, segnala numerose discriminazioni e persecuzioni religiose in diverse parti del mondo, in particolare tra i cristiani, cfr.: Aiuto alla Chiesa che soffre, Rapporto sulla libertà religiosa 2021, reperibile nel sito web: https://acs-italia.org/rapportolr, visitato il 5-3-2022.

20) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, La vera Europa, op.cit., p. 258.

21) Cfr. Benedetto XVI, Lettera Enciclica «Caritas in Veritate» sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, del 29-6-2009, n.9: «L’amore nella verità — caritas in veritate — è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l’autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà».

22) Antonio Augusto Borelli Machado, Le apparizioni e il messaggio di Fatima, in Cristianità anno IV, nn. 17-18, maggio-agosto 1976, pp. 15-25; cfr. anche: Congregazione per la Dottrina della Fede, Il messaggio di Fatima, reperibile nel sito web: https://alleanzacattolica.org/il-messaggio-di-fatima/, visitato il 5-3-2022.