La magnifica vicenda di due santi che hanno “camminato assieme” all’umanità. Due esempi viventi per la Chiesa anche al giorno d’oggi
di Michele Brambilla
L’omelia che Papa Francesco pronuncia in S. Pietro la mattina del 9 ottobre, in occasione della canonizzazione dei santi Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), vescovo di Piacenza (1875-1905), e Artemide Zatti, medico fratello salesiano (1880-1951), prende spunto dalla pagina evangelica assegnata a questa domenica, nella quale, «mentre Gesù è in cammino, dieci lebbrosi gli vanno incontro gridandogli: “Abbi pietà di noi” (Lc 17,13)». Tutti vengono risanati, ma solo uno, un samaritano, torna a ringraziare il Cristo.
«Anzitutto, camminare insieme. All’inizio del racconto», spiega il Papa, «non c’è nessuna distinzione tra il samaritano e gli altri nove. Semplicemente si parla di dieci lebbrosi, che fanno gruppo tra di loro e, senza divisione, vanno incontro a Gesù», dato che essi condividono assieme la condizione di malati. La lebbra imponeva al malato uno stigma frutto delle raccomandazioni sulla purità rituale contenute nella Legge mosaica, pertanto, «camminando insieme, questi lebbrosi manifestano il loro grido nei confronti di una società che li esclude. E notiamo bene: il samaritano, anche se ritenuto eretico, “straniero”, fa gruppo con gli altri. Fratelli e sorelle, la malattia e la fragilità comuni fanno cadere le barriere e superare ogni esclusione».
Il Pontefice ritiene che «si tratta di un’immagine bella anche per noi: quando siamo onesti con noi stessi, ci ricordiamo di essere tutti ammalati nel cuore, di essere tutti peccatori, tutti bisognosi della misericordia del Padre. E allora smettiamo di dividerci in base ai meriti, ai ruoli che ricopriamo o a qualche altro aspetto esteriore della vita, e cadono così i muri interiori, cadono i pregiudizi. Così, finalmente, ci riscopriamo fratelli. Anche Naamàn il siro – ci ha ricordato la prima Lettura -, pur essendo ricco e potente, per guarire ha dovuto fare una cosa semplice: immergersi nel fiume in cui si bagnavano tutti gli altri», togliendosi soprattutto l’armatura “interiore” creata dall’abitudine a considerare gli altri inferiori al proprio rango: è quello che si intende per «un bel bagno di umiltà, ricordandoci che siamo tutti fragili dentro, tutti bisognosi di guarigione, tutti fratelli», insiste il Santo Padre.
Queste frasi preparano il concetto che a Francesco sta più a cuore: «fratelli e sorelle, verifichiamo se nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nei luoghi dove lavoriamo e che ogni giorno frequentiamo, siamo capaci di camminare insieme agli altri, siamo capaci di ascoltare, di superare la tentazione di barricarci nella nostra autoreferenzialità e di pensare solo ai nostri bisogni. Ma camminare insieme – cioè essere “sinodali” – è anche la vocazione della Chiesa. Chiediamoci quanto siamo davvero comunità aperte e inclusive verso tutti; se riusciamo a lavorare insieme, preti e laici, a servizio del Vangelo; se abbiamo un atteggiamento accogliente – non solo con le parole ma con gesti concreti – verso chi è lontano e verso tutti coloro che si avvicinano a noi, sentendosi inadeguati a causa dei loro travagliati percorsi di vita». La riconoscenza del lebbroso samaritano deve spingerci a considerare che l’ingratitudine nei confronti di Dio «è una brutta malattia spirituale: dare tutto per scontato, anche la fede, anche il nostro rapporto con Dio, fino a diventare cristiani che non si sanno più stupire, che non sanno più dire “grazie”, che non si mostrano riconoscenti, che non sanno vedere le meraviglie del Signore», mentre «la gratitudine, il saper dire “grazie”, ci porta invece ad affermare la presenza di Dio-amore. E anche a riconoscere l’importanza degli altri, vincendo l’insoddisfazione e l’indifferenza che ci abbruttiscono il cuore».
Dimensioni che i santi canonizzati hanno saputo unire in una maniera che ora la Chiesa ripropone a tutti i cattolici. Infatti, «i due Santi oggi canonizzati ci ricordano l’importanza di camminare insieme e di saper ringraziare». Mons. Scalabrini arrivò a considerare l’emigrazione italiana dell’Ottocento un atto provvidenziale, paragonabile all’evangelizzazione dei primi secoli, in continuità con l’epopea iniziata nel Cinquecento nelle Americhe (moltissimi migranti dell’epoca di Scalabrini cercavano fortuna negli Stati Uniti o in Argentina), scrivendo: «“Proprio a causa delle migrazioni forzate dalle persecuzioni – egli disse – la Chiesa superò i confini di Gerusalemme e di Israele e divenne “cattolica”; grazie alle migrazioni di oggi la Chiesa sarà strumento di pace e di comunione tra i popoli” (L’emigrazione degli operai italiani, Ferrara 1899)».
Il Papa fa un paragone con l’accoglienza, in Italia e non solo, dei profughi ucraini: «c’è una migrazione, in questo momento, qui in Europa, che ci fa soffrire tanto e ci muove ad aprire il cuore: la migrazione degli ucraini che fuggono dalla guerra». Di questa emigrazione stanno certamente beneficiando le comunità cristiane di lingua ucraina sparse nell’Europa occidentale: sarà un capitolo della nuova evangelizzazione? Ad ogni modo, il Papa chiede di non dimenticare l’Ucraina e le sue chiese, che appartengono ai “due polmoni” (la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa) di cui l’Europa ha bisogno per respirare, come diceva san Giovanni Paolo II preparandone la riunificazione. A ben vedere, anche l’emigrazione ottocentesca italiana ed europea fu determinata da eventi bellici o processi storici sfavorevoli alle popolazioni cattoliche: da noi le cosiddette “guerre di indipendenza”, che danneggiarono soprattutto il Meridione; la terribile “carestia delle patate” in Irlanda nel 1846, aggravata dalla secolare politica delle plantations anglo-protestante; la repressione (condotta esattamente con la stessa logica che vediamo all’opera nel Donbass) delle rivolte in Polonia da parte degli Zar di Russia.
«Da parte sua, il fratello salesiano Artemide Zatti, con la sua bicicletta, è stato un esempio vivente di gratitudine: guarito dalla tubercolosi, dedicò tutta la vita a gratificare gli altri, a curare gli infermi con amore e tenerezza. Si racconta di averlo visto caricarsi sulle spalle il corpo morto di uno dei suoi ammalati. Pieno di gratitudine per quanto aveva ricevuto, volle dire il suo “grazie” facendosi carico delle ferite degli altri. Due esempi», quindi, per l’oggi della Chiesa cattolica che si richiamano l’un l’altro, visto che Zatti era originario di Boretto (Reggio Emilia), non lontano da Piacenza, e beneficiò indirettamente delle opere caritative cattoliche verso i migranti italiani.