Beati i puri di cuore perché vedranno Dio

di don Emanuele Borserini

– L’annuncio del giorno della data della Pasqua nella solennità dell’Epifania

– Contrariamente all’immagine vulgata del Natale, che tende ad immergerlo in un’atmosfera serena, quasi di sogno, dove tutto invita alla serenità, a dimenticare i problemi, a rallentare in favore della dimensione domestica e calda delle cose, nella liturgia esso si presenta a noi come un tempo turbolento, caratterizzato da una scansione affannata, quasi affrettata, dei giorni e dei misteri. Il tempo di Natale è, all’interno dell’anno liturgico, quello più breve e al contempo quello con la maggiore densità di memorie, feste e solennità. A partire dalla celebrazione vigiliare del Natale, è tutto un vortice di nomi e storie che ogni giorno rivelano, ognuno a modo suo, un aspetto dell’insondabile mistero dell’Incarnazione (il protomartire Stefano, l’evangelista Giovanni, i martiri innocenti, il vescovo martire Tommaso Becket, il contesto della santa Famiglia, Maria nel suo essere Madre di Dio, i dottori Basilio Magno e Gregorio Nazianzeno, il Nome di Gesù, i santi Magi d’Oriente, Giovanni Battista e le nozze di Cana). Un vortice che sembra rallentare nella seconda parte ma che, attraverso i testi liturgici e la Parola di Dio che la Chiesa assegna ad ogni giorno, rimane ricco di sollecitazioni sempre nuove. La sua brevità oggettiva è aggravata dalla necessità non solo di contemplare il fatto sconvolgente dell’Incarnazione ma anche, essendo l’anno liturgico il compendio della vita di Gesù, di concentrare in sole due settimane tutti i primi trent’anni della sua vita, dalla nascita fino al battesimo. Aggiungiamo il fatto che, la liturgia sembra proprio non volerci aiutare a fare tutto questo lavoro con la proposta di alcune ritualità particolarmente eloquenti che accompagnino la celebrazione dell’Eucaristia come avviene in altri tempi liturgici; pensiamo, per esempio, all’imposizione delle ceneri che segna l’inizio della Quaresima, l’unicità dei riti propri del il Triduo pasquale, le processioni della Domenica delle palme e della festa della Presentazione di Gesù al tempio. Ci sono, tuttavia, all’inizio e alla fine di questo tempo liturgico due piccoli riti, purtroppo facoltativi entrambi, che, se conosciuti, possono aiutare a viverlo bene senza relegarlo alle sue due brevi settimane. Essi sono il canto della Kalenda nella Messa della notte di Natale (di cui avevo parlato in un precedente articolo) e l’annuncio della data della Pasqua e delle altre feste mobili dell’anno civile nelle Messe dell’Epifania.

Quella di annunciare solennemente la data della Pasqua nel giorno dell’Epifania è una consuetudine antichissima che è giunta fino a noi nella sua bellezza ma anche nella sua stranezza. Dal punto di vista rituale, il Messale è molto scarno e dice soltanto che “dopo la proclamazione del Vangelo, il diacono o il sacerdote o un altro ministro idoneo può dare l’annunzio del giorno della Pasqua” rimandando all’Appendice per il testo e la melodia. Eccolo nella versione in italiano e con le date di quest’anno:

 

Fratelli carissimi, la gloria del Signore si è manifestata

e sempre si manifesterà in mezzo a noi fino al suo ritorno.
Nei ritmi e nelle vicende del tempo ricordiamo e viviamo i misteri della salvezza.
Centro di tutto l’anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto,

che culminerà nella domenica di Pasqua il 16 aprile.
In ogni domenica, Pasqua della settimana,

la santa Chiesa rende presente questo grande evento

nel quale Cristo ha vinto il peccato e la morte.
Dalla Pasqua scaturiscono tutti i giorni santi:
Le Ceneri, inizio della Quaresima, il 1° marzo.
L’Ascensione del Signore, il 28 maggio.
La Pentecoste, il 4 giugno.
La prima domenica di Avvento, il 3 dicembre.
Anche nelle feste della santa Madre di Dio, degli Apostoli, dei Santi

e nella commemorazione dei fedeli defunti,

la Chiesa pellegrina sulla terra proclama la Pasqua del suo Signore.
A Cristo che era, che è e che viene, Signore del tempo e della storia,

lode perenne nei secoli dei secoli. Amen.

 

Come si può vedere, non si tratta di un semplice elenco di date ma abbiamo davanti un testo altisonante e profondamente liturgico nelle sue caratteristiche espressive. Notiamo soprattutto la solennità dell’apertura e della dossologia finale che lo racchiudono in un contesto di preghiera e di lode, paragonabile almeno ad un prefazio. Questo è un pregio tutto italiano, infatti il nostro testo non corrisponde perfettamente a quello dell’editio typica del Messale che vale per tutta la Chiesa e che, conformemente allo stile liturgico romano, è più asciutto e sintetico:

 

Noveritis, fratres carissimi, quod annuente Dei misericordia,

sicut de Nativitate Domini nostri Jesu Christi gavisi sumus,

ita et de Resurrectione eiusdem Salvatoris nostri gaudium vobis annuntiamus.

I Martii erit Dies Cinerum, et initium ieiunii sacratissimae Quadragesimae.

XVI Aprilis Sanctum Pascha Domini nostri Jesu Christi cum gaudio celebrabitis.

XXIV Maii erit Ascensio Domini nostri Jesu Christi.

IV Junii festum Pentecostes.

XVIII ejusdem Festum sanctissimi Corporis et Sanguinis Christi.

III Decembris Dominica prima Adventus Domini nostri Jesu Christi,

cui est honor et gloria, per omnia saecula saeculorum.

 

Prima di meditare il testo affinché questa preghiera della Chiesa diventi anche la nostra preghiera personale, dobbiamo rispondere ad una domanda molto più immediata, quella cioè se oggi abbia ancora senso annunciare delle date già note e farlo con questo rivestimento quasi sensazionale, quando tutti possiamo immediatamente accedere al calendario attraverso i nostri dispositivi elettronici. Ma il senso di un rito non può risiedere nella sua funzione e nemmeno possiamo accontentarci di apprezzarlo come un rimasuglio di antiche vestigia. Perché si possa parlare di liturgia, quello che si fa deve avere una profonda ragione teologica, dove per teologico si intende la capacità di esprimere la nostra fede e, mentre la dice, di aiutarci a comprenderla.

Partiamo, anzitutto, dal nome della solennità dell’Epifania, entro cui l’annuncio viene proclamato. Esso deriva da un termine greco che significa letteralmente rivelazione, apparizione, presenza, manifestazione, in ogni caso in riferimento a una divinità. Lasciandoci guidare da questo nome, non faticheremo a renderci conto che con la visita dei santi Magi d’Oriente inizia a manifestarsi la divinità di Cristo che raggiungerà il culmine nel mistero pasquale. Se l’Epifania è la prima manifestazione del Messia a tutti i popoli, rappresentati da quei misteriosi personaggi, è altrettanto vero che solo quando egli sarà innalzato da terra attirerà tutti a sé (cfr. Gv 12, 32). Il cammino della sua manifestazione inizia con “alcuni” che si devono mettere in cammino e prostrare (cfr. Mt 2, 11) per raggiungere la statura di un bambino e si conclude con “tutti” che lo vedono alla propria altezza. Così, se l’Epifania è la Pasqua ormai annunciata, la Pasqua è l’Epifania ormai realizzata. La possibilità data ai Magi di riconoscere la divinità di quel bambino e adorarla è come un primo raggio di luce che si fa largo nel velo del tempio e ne indebolisce la trama fino a squarciarla nel momento della sua manifestazione definitiva. La rottura dei confini tra Israele e le genti segnata dall’arrivo dei Magi d’Oriente, lascia ormai inesorabilmente presagire la rottura dei confini tra Dio e l’uomo realizzata pienamente in Cristo e rappresentata dalla distruzione di quella “cortina di ferro” che era il velo posto tra il santo e il santo dei santi nel tempio del Signore. Inizia, così, un percorso di progressiva rivelazione che, come nella vita di ogni cristiano, sarà segnato da momenti di manifestazione chiara ed altri in cui sembrerà che Dio torni a nascondersi per poi farsi riconoscere di nuovo, in un gioco quasi amoroso come esprime meravigliosamente il libro del Cantico dei cantici e dischiude il suo senso nell’episodio delle nozze di Cana. La dinamica di rivelazione che regola il rapporto tra il Natale e l’Epifania è la medesima che ritroveremo nel rapporto tra la Passione e la Risurrezione di Gesù. Da una parte si passa dal contesto povero, informale, di privazione della nascita di Gesù al contesto ricco, cosmopolita, di dono dell’arrivo dei Magi; dall’altra si passerà dal contesto violento, chiassoso, di morte della Passione al contesto sfolgorante, inaspettato, di vittoria della Risurrezione. Possiamo anche notare come l’evangelista Luca racconti in modo similare la nascita e la morte di Gesù: i movimenti di Maria che “lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia” (Lc 2, 7) sono gli stessi di Giuseppe d’Arimatea che “lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba” (Lc 23, 53). Su questa scia, le icone orientali della natività pongono spesso Gesù, fasciato non come un bambino ma come un morto, su una lastra sepolcrale oppure su uno sfondo nero, chiaro riferimento alla morte. Come l’avvolgimento tra le fasce è l’inizio di un progressivo nascondimento che culminerà nel sepolcro sigillato, così la visita dei Magi è l’inizio di una progressiva manifestazione che culminerà nella pietra ribaltata.

Il rito dell’annuncio del giorno di Pasqua, dunque, non solo getta un ponte tra le due solennità maggiori dell’anno liturgico ma segna l’inizio di un cammino che ci condurrà fino alla meta pasquale fornendoci anche una precisa chiave interpretativa del cammino stesso. Della celebrazione dell’Epifania, insieme ai Magi e alle nozze di Cana, fa parte anche il battesimo di Gesù, che ritroveremo nella sua celebrazione indipendente la domenica seguente. Quest’ultima è una festa, potremmo dire, di passaggio: è parte integrante del tempo di Natale ma è anche l’inizio del Tempo Ordinario, infatti sostituisce la sua prima Domenica. Attraverso questa particolarità rituale, riceviamo dalla Chiesa il modo in cui vivere tutto il Tempo Ordinario: l’incarnazione resterà il criterio di interpretazione di tutta la vita pubblica di Gesù e del suo mistero pasquale; il Natale resterà la modalità del Tempo Ordinario, della Quaresima e della Pasqua, quindi della vita cristiana. Niente potrà mai più essere alieno alla scelta fatta una volta per tutte da Dio di entrare nella realtà, farsi carico di essa, assumerla su di sé, salvare l’uomo “dal di dentro”, essere davvero il “Dio con noi” (Mt 1, 23). I racconti del battesimo di Gesù che abbiamo ascoltato nella festa stessa e nella seconda Domenica del Tempo Ordinario dell’anno A rivelano questa verità. L’obiezione di Giovanni Battista nel racconto di Matteo (Mt 3, 13-17) era del tutto giustificata perché Dio non aveva alcun bisogno di salvare l’uomo ma, dal momento che ha deciso di farlo, ha anche scelto una modalità ben precisa, quella di mettersi in fila con i peccatori. Il racconto giovanneo (Gv 1, 29-34), invece, si concentra sul grido di Giovanni Battista che riconosce Gesù e lo manifesta a Israele come “l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. La liturgia ha ripreso questo grido e lo mette sulla bocca del sacerdote quando presenta le specie eucaristiche all’assemblea prima della comunione; il testo è ancora più chiaro se consideriamo che in latino il verbo usato, tollis, significa propriamente prendere su di sé. I vari momenti dell’anno liturgico ci offrono, dunque, un percorso organico dove nulla viene mai lasciato completamente alle spalle e ogni celebrazione, mentre annuncia il proprio compimento, aggiunge un tassello nuovo alla rivelazione del mistero di Cristo. L’annuncio del giorno di Pasqua dichiara perentoriamente che “centro di tutto l’anno liturgico è il Triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto, che culminerà nella domenica di Pasqua”: lo sguardo di ogni tempo liturgico è sempre proteso alla Pasqua; così, lo sguardo di ogni settimana deve essere sempre proteso alla “domenica, Pasqua della settimana”. La Pasqua è presente in “tutti i giorni santi”, “in ogni domenica” e “anche nelle feste”, un elenco preciso e gerarchico. Significativo a questo proposito è anche il cambio di linguaggio: nella forma straordinaria questo rito era la “pubblicazione delle feste mobili” come fossero tutte sullo stesso piano, mentre ora è l’“annuncio della data della Pasqua”. La notizia è la Pasqua con tutto ciò che da essa discende nel proprio ordine e grado, secondo il kerygma che la Chiesa proclama sin dall’inizio della sua esistenza. Se, dunque, la Pasqua è al centro di ogni celebrazione, dobbiamo anche riconoscere che il Natale ne è come la forma perché il memoriale del mistero pasquale del Signore è una realtà che continuamente si incarna nella vita della Chiesa: “ricordiamo e viviamo i misteri della salvezza” dice il nostro testo perché nella celebrazione liturgica accade quello che si annuncia.

Se guardiamo alla storia dell’annuncio della data della Pasqua, comprendiamo che si tratta anche di un rito di comunione. Esso, infatti, ha avuto origine quando la Chiesa di Roma iniziò a mandare alla altre Chiese latine lettere con il risultato del calcolo della data della Pasqua affinché tutte la celebrassero in quel medesimo giorno; lettere che, nella solennità dell’Epifania, venivano proclamate pubblicamente. Oggi è un fatto scontato, ma riuscire a celebrare nella stessa data le feste era un forte segno di unità, come celebrare gli stessi santi e la stessa gerarchia cioè la stessa storia sacra; è il motivo per cui nella prima preghiera eucaristica ci sono quei due lunghi elenchi di santi e perché anche nelle altre preghiere eucaristiche si proclamano i nomi del papa e del vescovo. Nei primi secoli cristiani era forte il desiderio di stabilire anche tra Oriente e Occidente una medesima data per la celebrazione della Pasqua ma poi le vicende storiche ne hanno fatto un problema irrisolvibile e, allora, la sapienza concreta della Chiesa ha cercato di unificarla almeno per famiglie liturgiche. Si può considerare questo sviluppo storico da due prospettive diverse: come l’avallo della divisione o come il primo passo di un cammino verso una comunione più piena. Credo che lo spirito del discusso documento di papa Francesco Amoris laetitia, al di là di ogni contenuto, ci inviti proprio ad assumere il secondo tipo di sguardo.

Nei sacramentari romani antichi l’annuncio della data della Pasqua era previsto che fosse dato dopo la Comunione, un po’ come i nostri avvisi: la ritualizzazione di un avviso che all’epoca doveva risultare abbastanza ordinario dovrebbe farci riflettere anche sulla rilevanza teologica della prassi prevista dal nostro Messale (Ordinamento Generale del Messale Romano, 90 a): è come una prima concretizzazione della comunione ecclesiale invocata durante tutta la celebrazione eucaristica perché è l’invito a viverla in una comunità concreta. Il sacramento della ristabilita comunione personale con Dio è dato ad ogni cristiano perché ristabilisca la comunione nella Chiesa e tutte le varie attività ecclesiali non sono che l’occasione reale per farlo. Oggi l’annuncio della Pasqua è collocato dopo la proclamazione del Vangelo e deve essere dato dal medesimo luogo perché si tratta di un vero annuncio, non di un semplice pro memoria. Come la Kalenda di Natale e il Preconio della Veglia pasquale, è un solenne atto di evangelizzazione, nel senso letterale della parola perché è un annuncio di gioia (un eu-angelion). Nel testo latino, il tema della gioia è centrale e viene ripetuto più volte: “come ci siamo rallegrati per la nascita del nostro Signore Gesù Cristo così vi annunciamo anche la gioia per la Resurrezione dello stesso Salvatore nostro” e, poco più avanti, “celebrerete con gioia la Pasqua”. Nella prospettiva epifanica che abbiamo illustrato, l’annuncio gioioso della Pasqua è che “nei ritmi e nelle vicende del tempo” possiamo vedere “la gloria del Signore”  perché “si è manifestata e sempre si manifesterà”. Per vedere la gloria di Dio che si manifesta nella storia è, però, necessario purificare il nostro sguardo perché solo i puri di cuore vedranno Dio (cfr. Mt 5, 8), come ci ricorda la sesta beatitudine. Si tratta della capacità attuale di vedere Dio perché “ora egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo” (prefazio dell’Avvento I/A). Serve la purezza della sincerità: arrendersi all’evidenza che Dio guida la storia, quella universale e quella personale perché egli è “Signore del tempo e della storia”. Dobbiamo, come bambini (cfr. Mt 18, 3), lasciarci stupire dalle concrete manifestazioni della potenza di Dio. Questo atteggiamento è necessario anche per entrare nella dinamica sacramentale che San Paolo (1Cor 1, 26-31) utilizza per descrivere i credenti: coloro che si credono sapienti restano confusi perché Dio sceglie le vie più piccole, mentre i puri di cuore sono coloro si mettono su questa stessa linea d’onda e intercettano i messaggi di Dio. Se, dunque, una certa purezza di cuore è necessario metterla in atto per scoprire Dio nei poveri segni della realtà sacramentale, è di gran lunga più importante la dinamica opposta: è proprio questo esercizio che ci purifica gradualmente il cuore ogni volta che celebriamo la liturgia. La liturgia è scuola di purezza di cuore. Attraverso di essa possiamo superare l’evidente stridore tra due locuzioni del nostro testo che descrivono la realtà: tra “Cristo che era, che è e che viene” e la “Chiesa pellegrina sulla terra”. Chiediamo il dono del discernimento per capire che tutto è mutevole e i pericoli sono molti ma c’è “un centro di gravità permanente”, come direbbe Franco Battiato: il Signore Gesù Cristo, il cui nome nel brevissimo testo latino tipico ricorre ben quattro volte; il Signore Gesù Cristo che è “lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 8); il Signore Gesù Cristo a cui “lode perenne nei secoli dei secoli. Amen”.

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