Bibbia e omosessualità

don Pietro Cantoni
ZENIT.org, 24 gennaio 2009
 

La Bibbia continua ad essere il più grande best-seller di tutti i tempi. Non c’è libro che possa vantare un lontanamente paragonabile numero di traduzioni, edizioni, lettori ed estimatori. Ciò comporta l’inevitabile rischio di risultare particolarmente appetibile agli occhi di chi vuole conferire una superiore e incontestabile autorità alle sue umane teorie. Soprattutto quando gli argomenti di ragione fanno difetto.

Alcuni si sono così sforzati di dimostrare che “la Bibbia sostiene la reincarnazione” [1] e oggi ci troviamo davanti ad una crescente ondata opinionistica che tende a diffondere l’idea di una Bibbia non ostile alla pratica omosessuale. Accreditare una visione simpatetica del mondo biblico nei confronti della pratica omosessuale è impresa di gran lunga più difficile che a proposito della reincarnazione, dello spiritismo o di altre dottrine che “galleggiano” nel mare magnum del relativismo contemporaneo.

Il dato storico della Bibbia

Uno studio attento e storicamente fondato dei libri che compongono la “Bibbia”, tenendo conto di tutte le stratificazioni dei loro testi e dei contesti che sono i loro propri, spesso lontani gli uni dagli altri sia cronologicamente che culturalmente, converge in un risultato sorprendente: a differenza del mondo greco-romano in cui condanna e accettazione, rifiuto e simpatia convivono in modo sconcertante, il mondo biblico è unanime nel rifiutare la pratica omosessuale in tutte le sue forme e declinazioni [2].

L’amicizia tra Davide e Gionata non si presta ad una interpretazione di stampo omosessuale. I testi non offrono il benché minimo appiglio (cfr. 1 Sam 18,1-5; 20,30-31; 20,40-21,1). L’episodio di Sodoma e Gomorra (cfr. Gn 19,1-29) attesta certamente che il fulcro della condanna è costituito dalla violazione della legge sacra dell’ospitalità, ma è anche contestualmente chiaro che la condanna dell’omosessualità vi è strettamente ed indissolubilmente connessa: i sodomiti violano la legge dell’ospitalità proprio perché vogliono compiere nei confronti degli ospiti degli atti malvagi.

Il passaggio al Nuovo Testamento non implica nessuna attenuazione, anzi. La descrizione che san Paolo fa dei vizi della società romana comprende senza tentennamenti la pratica omosessuale che è coinvolta integralmente nella condanna: ” Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento ” (Rm 1,26-27). Sul punto il quadro è coerente ed unitario.

Emerge però una facile obiezione. La Bibbia ci dà la testimonianza di pratiche che erano accettate dagli uomini della Bibbia, e non da personaggi marginali, ma da coloro che sono presentati come i modelli, che noi cristiani (e anche ebrei) di oggi consideriamo unanimemente come riprovevoli. Abramo e Giacobbe, due dei patriarchi del popolo di Israele, quindi antenati e modelli di vita, praticano senza scrupoli la poligamia. La cosa per loro va da sé. Anzi, Abramo e sua moglie Sara non trovano niente di riprovevole ad ammettere la relazione sessuale con una serva, Agar, al fine di ottenere un figlio (cfr. Gn 16,2).

Se dunque troviamo la condanna di una pratica come immorale, la dobbiamo valutare accanto all’accettazione di altre pratiche assai discutibili come assolutamente morali. Uno studio storico-critico della Bibbia può si offrirci dei risultati sicuri, ma solo in ordine alla pratica storica degli uomini della Bibbia, da cui però allora non siamo più autorizzati a ricavare nessun modello normativo. Se l’esegesi non si fa più ampia e profonda, cioè teologica, questa condanna rischia di rimanere una affermazione che riguarda il passato e quindi passibile di una lettura relativistica: “così certamente pensavano una volta gli uomini della Bibbia”…

Necessità di una esegesi teologica

Uno studio che voglia programmaticamente limitarsi all’aspetto storico ci mette in possesso di comportamenti fattuali che appartengono al passato, ma per cui non è affatto chiaro il loro rapporto con il presente e quindi il loro valore “assoluto”. Benedetto XVI è intervenuto al recente sinodo dei vescovi su “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” richiamando il valore imprescindibile di una esegesi teologico – spirituale che sappia integrare l’esegesi storico-critica:

” Il Concilio dice, seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario, che la Scrittura è da interpretare nello stesso spirito nel quale è stata scritta ed indica di conseguenza tre elementi metodologici fondamentali al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia: si deve cioè 1) interpretare il testo tenendo presente l’unità di tutta la Scrittura […]; 2) si deve poi tener presente la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente 3) bisogna osservare l’analogia della fede. Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica – di una esegesi adeguata a questo Libro. Mentre circa il primo livello l’attuale esegesi accademica lavora ad un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello. Spesso questo secondo livello, il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla Dei Verbum, appare quasi assente. E questo ha conseguenze piuttosto gravi. La prima conseguenza dell’assenza di questo secondo livello metodologico è che la Bibbia diventa un libro solo del passato ” (Intervento alla XIV congregazione generale, 14 ottobre 2008).

Se la Bibbia – come libro unico e divino – è nato nella Chiesa e non si sarebbe formato senza di essa, non può neppure essere correttamente interpretato senza – a maggior ragione mai contro – il suo autorevole insegnamento. Questo insegnamento non si giustappone al testo biblico e non è, né può mai essere a lui superiore, ma ne fa emergere le virtualità nascoste. Tale è sempre infatti una vera ed autentica ermeneutica. Sensus – diceva il giurista romano Ulpiano – non est afferendus ma efferendus. L’interpretazione non addossa al testo un senso a lui estraneo, ma lo ricava dal testo facendolo emergere come il suo proprio. L’interprete non è superiore al testo che interpreta, ma lo serve. La Chiesa quindi non è superiore alla Bibbia: è però importante aggiungere che essa si ritiene superiore a tutti gli interpreti umani della Bibbia. La sua interpretazione è quindi autorevole, “autentica”. Il dato biblico così come emerge dal lavoro dell’esegeta che utilizza con correttezza e sforzo di obiettività il metodo storico-critico non è quindi mai di suo sufficiente, ma necessita di integrazione in un contesto teologico più vasto. La razionalità storico-critica deve essere allargata in senso teologico. Ciò non costituisce affatto una forzatura: la Bibbia deve essere interpretata in quello stesso Spirito in cui è stata scritta.

Per tornare al nostro argomento, possiamo allora dire che alla luce delle parole “definitive” di Gesù: ” da principio non fu così ” (Mt 19,8), dobbiamo, guidati dalla Tradizione vivente della Chiesa (e quindi anche dal suo vivo Magistero), rileggere il processo storico per cui nella Bibbia si passa da una antica accettazione della poligamia al suo progressivo abbandono, come espressione della condiscendenza di Dio che va a raggiungere l’uomo là dove lo ha portato il peccato (“la durezza del vostro cuore” Mt 19,8) – Adamo “Dove sei?” (Gn 3,9) – per condurlo progressivamente ad accogliere in pienezza il progetto di Dio, quel progetto che era presente nel “principio” della creazione e Gesù vuole restaurare nella sua integralità. L’insegnamento di Gesù viene dunque ad incontrare e a compiere un processo già in atto nel mondo biblico. Già infatti con il postesilio la poligamia era scomparsa in Israele e si era andato progressivamente affermando il principio dell’unione matrimoniale come relazione personale e quindi unica.

Se in san Paolo troviamo l’affermazione del celibato come di una via migliore (cfr. 1 Cor 7,25-40), questo non lo dobbiamo banalmente attribuire ad un presunto “errore” dell’Apostolo riguardo all’imminente fine del mondo, ma al fatto che Paolo riconosce una gerarchia di valori in cui il non sposarsi per il regno dei cieli è meglio rispetto al matrimonio, il quale – peraltro – configura un mistero grande (” Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! ” Ef 5,32) ed è quindi incontestabilmente buono e santo. Né vale dire che l’affermazione della santità del matrimonio emerge soprattutto (ma non solo!) nella lettera agli Efesini, la cui autenticità paolina è da alcuni contestata. È fuori dubbio infatti che il contenuto della lettera agli Efesini è incontestabilmente paolino e – soprattutto – biblico.

A qualcuno però è venuta la tentazione di trasferire questo schema “non sposarsi è meglio”, anche alla nostra questione: certamente la relazione matrimoniale è quella che meglio assicura la relazionalità sessuale umana, ma chi ci dice – soprattutto constatando l’incertezza dei valori morali che il mondo della Bibbia ci trasmette – che anche una relazionalità tra uomo e uomo, tra donna e donna, non possa esprimere, anche se in grado inferiore, dei valori autentici? In realtà una lettura storico-teologica, guidata dalla Tradizione e dal Magistero della Chiesa, non autorizza affatto un’operazione del genere. Il matrimonio tra uomo e donna non è solo “meglio” della relazione omosessuale, ma è l’unico esercizio della sessualità umana conforme al progetto che ha presieduto alla creazione dell’uomo. Mentre infatti la poligamia e il ripudio fanno parte di un processo che culmina nella parole di Gesù: “da principio non fu così”, l’omosessualità è parte integrante della storia del peccato dall’inizio alla fine, senza soluzione di continuità. E questo sia nel dato biblico sondato con gli strumenti della storia, che nello stesso dato riletto alla luce della Tradizione vivente della Chiesa:

” Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, [Cf Gen 19,1-29; Rm 1,24-27; 1Cor 6,10; 1Tm 1,10 ] la Tradizione ha sempre dichiarato che “gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati” [Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Persona humana, 8]. Sono contrari alla legge naturale. Precludono all’atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale. In nessun caso possono essere approvati ” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2357).

La discriminazione e l’omofobia

In questo modo però non si attua una odiosa discriminazione e non si indulge ad una pericolosa e crudele omofobia? Ci troviamo qui davanti ad autentiche “parole talismano”, parole cioè portatrici di una strutturale ambiguità che – se non sciolta per tempo – porta a conclusioni contraddittorie e liberticide. Che cosa vuol dire “discriminazione”? Se per discriminazione sessuale si intende il discernimento morale in tema di sessualità, la condanna della discriminazione sessuale è solo un capitolo, e non dei più secondari, del processo che conduce alla “dittatura del relativismo” denunciata a suo tempo dall’allora card. Joseph Ratzinger [3]. Un passaggio che non solo contraddice la dottrina cattolica e la libertà religiosa, ma che è anche intrinsecamente contraddittorio: ogni discriminazione è da condannare, tranne quella che discrimina tra coloro che condividono valori morali certi e irrinunciabili e i relativisti…

Se però per discriminazione si intende l’uso del disprezzo, dell’ironia e dell’irrisione nei confronti delle persone che hanno un determinato orientamento sessuale, allora essa è da combattere. Anche se certi atteggiamenti appartengo ad un remoto o anche recente passato ecclesiale essi vanno coraggiosamente abbandonati. Se non altro perché esistono molte persone che hanno un orientamento omosessuale senza loro colpa e che lo vivono nel dolore. Il Catechismo della Chiesa Cattolica nella sua edizione tipica latina ha corretto la precedente versione sul punto in cui si parlava di tendenze innate. L’espressione poteva far pensare ad un fantomatico fattore genetico dell’omosessualità. Si è perciò preferito usare il termine “tendenze omosessuali profondamente radicate” (n. 2358) [4]. Queste persone vivono molto spesso questa situazione – peraltro modificabile – con fatica e dolore. Certamente non li si aiuta con il disprezzo o la derisione. Il cristiano poi sa che l’odio per il peccato deve convivere con l’amore per il peccatore. Il suo giudizio non è mai giudizio ultimativo sulle persone, ma solo sui loro atti. Distinzione non facile: non si incontrano per strada “peccati” perché non sono sostanze, ma sempre e solo peccatori, i quali a volte vivono i loro peccati con una tale radicata ed anche aggressiva convinzione da costruire con essi una unità almeno apparentemente inestricabile. Situazioni reali che rendono la distinzione difficile ma pur sempre vera. La via dell’amore, l’unica via praticabile dal cristiano, comporta questo passaggio difficile. Difficile come sono difficili le cose belle. Perché la vita nell’amore è bella, è bella di quella bellezza che contempliamo sorgivamente in Cristo e che siamo chiamati ad accogliere ed manifestare anche nelle nostre storie umane.

Conclusione

Tutti gli atti che hanno per soggetto la persona umana, quando sono atti che procedono dalla sua volontà (atti umani quindi e non solo atti dell’uomo) sono essenzialmente linguaggio. L’omosessualità imita, senza poterci riuscire pienamente, la naturale relazione sessuale tra uomo e donna. Non è né può essere aperta alla vita; se è – come è sempre – linguaggio, è linguaggio irrimediabilmente falso, non può mai declinare la verità dell’uomo. Se anche nasce da un sincero desiderio di relazionalità affettiva, è strutturalmente incapace di esprimerla. Quando il cristiano testimonia la verità biblica sull’omosessualità, compie dunque un atto di amore verso l’uomo: “[…] conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Testimonianza che oggi – in clima di crescente “dittatura del relativismo” – si fa sempre più espressione di vero anticonformismo e di autentico coraggio.



[1] Mi permetto qui di rimandare al mio: Cristianesimo e reincarnazione, Elledici, Leumann (TO) 1997.

[2] Cfr. soprattutto: Robert A. J. Gagnon, The Bible and Homosexual Practice: Texts and Hermeneutics, Abingdon Press, Nashville – TN 2002. Ma si veda anche: Innocent Himbaza – Adrien Schenker – Jean-Baptiste Edart, Clarifications sur l’homosexualité dans la Bible, Cerf, Paris 2007.

[3] “Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie” (Card. Joseph Ratzinger, Missa pro eligendo Romano Pontifice, 18 aprile 2005).

[4] Su punto e sul suo significato, cfr. Gianfranco Ghirlanda, S.J., Gli omosessuali e l’ammissione al sacerdozio. Aspetti canonici, in La Civiltà Cattolica, quaderno 3761 (2007), pp. 437-438.

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