Considerazioni essenziali sul magistero per regolarsi negli studi teologici

di don Pietro Cantoni
Filetto, 15 dicembre 1997

Dove incontrare la vera fede? Quella fede che cambia la vita, che “giustifica”? Non solo in uno scritto. Non soltanto in parole e neppure in lezioni accademiche. La fede si appoggia sull’incontro con una persona: Gesù. Per questo Gesù, al termine della sua esistenza terrena ci ha lasciato “in eredità” il suo Spirito. “Non vi lascerò orfani” (Gv 14,18), “pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità” (16.17) [1]. “Alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo”” (20,22) [2]. È conforme al senso della fede e al buon senso che la fede non la si possa vivere che in un organismo vivente, un organismo di natura sacramentale: la Chiesa.

Le alternative possibili sono:

a) L’ispirazione diretta di ciascuno. Ma allora non si realizza una vera unità fra gli uomini. Si contraddice alla natura sociale dell’uomo e Dio non contraddice sé stesso.

b) Un libro ispirato. Un “popolo del libro”. Come l’Islam. Ma bisognerebbe non riflettere troppo, non farsi troppe domande, perché altrimenti sorgerebbe subito, come di fatto è successo, il problema di chi interpreta correttamente il libro. Se non c’è un criterio ultimo di interpretazione la frammentazione (le “sette”) è inevitabile.

c) La scienza interpreta il libro. Allora si fa “il papato della scienza”. Ma la scienza è spesso incerta. Si frammenta. E poi: può l’uomo con le sue forze (la scienza) interpretare la Parola di Dio?

d) La santità delle persone. Il santo giudica delle cose di Dio. Ma la santità nasce dalla fede che deve essere garantita altrimenti. È difficile giudicare della santità: spesso ci si rende conto del santo solo quando è morto…

Dio non ha rinunciato a nessuna di queste possibilità, ma le ha racchiuse tutte in una che, per così dire, le compendia: la Chiesa, che è come l’incarnazione dello Spirito Santo. “Colonna e fondamento della verità” (1 Tim 3,15).

Naturalmente perché tutte queste possibilità possano coesistere ci vuole un principio di unità visibile. Quello invisibile è lo Spirito che è l’anima di tutto ciò. Ma la Chiesa deve essere visibile, perché “il Verbo si è fatto carne”. L’unità visibile è garantita dai pastori. Gli Apostoli e i loro successori, Pietro e i suoi successori. Il “magistero” appunto. Magistero in latino voleva dire originariamente un certo primato in qualunque campo. Magister militum: il capo dei soldati. La Chiesa ha dei capi e un capo visibile che mantengono l’unità. Ci sono anche dei dottori, dei profeti, dei santi, un libro, dei sacramenti. Tutte queste cose sono importanti e tutte insieme fanno la Chiesa e sono gli strumenti attraverso cui la fede si trasmette. Tutte però dipendono in qualche misura dai pastori. I dottori (i teologi) non hanno nella Chiesa l’ultima parola, perché la scienza deve servire la fede e non ne può essere il criterio ultimo. I teologi dipendono dai pastori. I pastori non debbono essere necessariamente teologi e debbono lasciare ai dottori il loro compito. Solo i pastori però possono giudicare se la scienza della fede elaborata dai dottori è conforme alla fede stessa. Neppure i santi hanno l’ultima parola: il santo è umile e sottomesso. A volte parla chiaro anche al pastore, ma ne rispetta sempre l’autorità. Così il profeta, il veggente, il destinatario di una rivelazione privata. Solo il pastore può giudicare in ultima istanza se una rivelazione privata è o no conforme alla rivelazione pubblica. Il pastore non dona la fede al popolo. Il cristiano la fede la riceve dallo Spirito Santo che gli è comunicato nei sacramenti: primo fra tutti il Battesimo. Ma il pastore giudica dell’espressione corretta della fede. Il pastore non è padrone dei sacramenti: ma presiede alla loro celebrazione che può essere fatta solo da ministri idonei e legittimi. Il pastore non è superiore alla Parola di Dio scritta, al libro della Bibbia. Ma ne è il guardiano ed è certo superiore ad ogni interpretazione umana della Bibbia, fosse anche quella del più dotto degli esegeti.

Tutto questo complesso di realtà mosse dallo spirito trasmettono la fede, costituiscono la sacra Tradizione della fede. La tradizione è tutto ciò che la Chiesa è e tutto ciò che la Chiesa crede (cfr. DV 8). La verità della fede sussiste nel cuore della Chiesa e non si lascia mai esaurire dai documenti in cui si obiettiva nel corso della sua storia. È tutta contenuta nei libri sacri, ma essi sono vivi e parlanti solo nella Chiesa che, con il suo cuore, li sa capire infallibilmente [3].

Il magistero è garante di tutto ciò. Noi non crediamo al magistero, ma non possiamo credere senza magistero. Il magistero in certe circostanze ci dà un certezza infallibile della Verità contenuta nel deposito. Sempre però ci dà più garanzia di qualunque dottore umano, fosse pure santo.

Un documento recente della santa Sede ci fornisce dei principi e dei chiarimenti preziosi sulla “recezione” del Magistero, cioè sul modo corretto con cui i cristiani debbono accoglierlo e quindi servirsene per mantenersi nella retta fede. Quella fede che salva e che cambia la vita. La fede che ci unisce a Gesù e ci permette di vivere nella sua presenza.

Si tratta di:

TARCISIO BERTONE (Arcivescovo emerito di Vercelli Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede), A proposito della recezione dei Documenti del Magistero e del dissenso pubblico, in: L’Osservatore Romano, venerdì 20 dicembre 1996.

Non è una elaborazione teologica privata di Mons. Bertone, ma un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’organismo di cui il Papa si serve ordinariamente per regolare le questioni relative alla promozione e alla diffusione dell’insegnamento della fede. Le questioni di Ortodossia. Non si tratta dunque di un contributo teologico opinabile, ma di un atto di magistero con cui il magistero stesso espone come il suo ruolo debba essere valutato nella difficile e ambigua situazione contemporanea degli studi ecclesiastici.

Ecco le affermazioni fondamentali di questo documento autorevole:

1. Bisogna distinguere fra verità e certezza, fra irreformabilità e infallibilità.

“In primo luogo si deve segnalare la tendenza a misurare tutto con il parametro della distinzione tra “Magistero infallibile” e “Magistero fallibile””.

“In realtà la verità e la irreformabilità di una dottrina dipende dal depositum fidei, trasmesso dalla Scrittura e dalla Tradizione, mentre l’infallibilità si riferisce soltanto al grado di certezza dell’atto dell’insegnamento magisteriale”.

2. Non sono infallibili solo i dogmi definiti, ma anche il magistero ordinario e universale.

“Si dimentica inoltre che il carattere infallibile di un insegnamento e il carattere definitivo e irrevocabile dell’assenso ad esso dovuto non è una prerogativa che spetta soltanto a ciò che è stato “definito” in modo solenne dal Romano Pontefice o dal Concilio ecumenico. Allorché i Vescovi sparsi nelle singole diocesi in comunione con il Successore di Pietro insegnano una dottrina da tenersi in modo definitivo (cfr LG 25 § 2) godono della stessa infallibilità, propria del Magistero del Papa “ex cathedra” o del Concilio”.

3. Anche ciò che è insegnato dal magistero non infallibilmente non può essere considerato alla stregua di una opinione teologica.

“Si deve anche tener presente che se l’autorità degli insegnamenti del Magistero conosce gradi diversi tra loro, ciò non significa che l’autorità di un grado minore possa essere considerata a livello delle opinioni teologiche oppure che al di fuori dell’ambito dell’infallibilità conterebbero solo le argomentazioni e risulterebbe impossibile una comune certezza della Chiesa in materia dottrinale”.

4. Il magistero può insegnare una dottrina definitiva sia definendo un dogma che con il magistero ordinario.

“Considerando l’atto dell’insegnamento, il Magistero può insegnare una dottrina come definitiva o con un atto definitorio o con un atto non definitorio”.

“Il Magistero ordinario pontificio può insegnare come definitiva una dottrina in quanto essa è costantemente conservata e tenuta dalla Tradizione e trasmessa dal Magistero ordinario e universale. L’esercizio del carisma dell’infallibilità in questa ultima fattispecie non si configura come atto definitorio del Papa, ma concerne il Magistero ordinario e universale, che il Papa riassume con il suo formale pronunciamento di conferma e di riaffermazione (generalmente in una Enciclica o Lettera Apostolica)”.

“Il pronunciamento pontificio di conferma gode della stessa infallibilità di cui gode l’insegnamento del Magistero ordinario e universale che include il Papa non come semplice Vescovo, ma come Capo del Collegio Episcopale”.

5. “”Questo Magistero ordinario è così la forma normale dell’infallibilità della Chiesa” [4]. Ne segue che non è affatto necessario che tutto ciò che fa parte della fede debba diventare esplicitamente dogma; è invece normale che la sola comunanza dell’annuncio – che include non solo parole, ma anche fatti – proponga la verità; il rilievo particolare ed esplicito della definizione dogmatica è propriamente un caso straordinario, provocato per lo più da motivi del tutto particolari e ben precisi”.

La funzione del magistero – soprattutto di quello definitorio – è sussidiaria rispetto alla fede della Chiesa. Per comprendere la sussidiarietà del magistero può essere utile rimeditare un passo degli ES di sant’Ignazio:

“Colui che propone ad un altro il modo e l’ordine per meditare o contemplare, deve esporre fedelmente la storia di tale meditazione o contemplazione, limitandosi a scorrere i punti principali e aggiungendo solo una breve e sommaria spiegazione, perché la persona che deve meditare, avendo prima colto il fondamento della verità storica, possa poi ragionare e riflettere da sola. Succede così che quando scopre qualche cosa che fa meglio capire o sentire la storia – sia che ciò succeda per il ragionamento proprio o perché l’intelletto è illuminato dalla luce divina – prova ben più gusto e ottiene un frutto maggiore che se la cosa gli fosse raccontata e spiegata diffusamente da un altro; perché non è il molto sapere che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare le cose internamente” (ES, seconda annotazione).

Il Magistero è al servizio della rivelazione che “succede” tutte le volte che uno spirito, nella fede, si apre a Dio che si rivela. La fede non ha come motivo la proposizione del Magistero, ma l’Autorità di Dio che si rivela, cioè la Parola di Dio. È al servizio di questa parola che si pone il magistero.

Leggendo certe presentazioni troppo esclusivamente giuridiche dell'”impegno dell’autorità” nell’esercizio del magistero, non si comprende perché i soggetti del magistero si trattengano il più possibile dall’impegnarsi al massimo. Una inconfessata paura di esagerare? No: è la finalità del magistero che spiega la ragione. L’atto di fede deve essere facilitato, non intralciato dall’intervento di qualcosa che, per quanto necessario, non ne costituisce il motivo formale.

6. L’universalità del magistero ordinario non riguarda solo lo spazio, ma anche il tempo.

“Allorquando si parla della necessità di verificare il consenso effettivo di tutti i vescovi sparsi per l’orbe o addirittura dell’intero popolo cristiano in materia di fede e di morale, non si deve dimenticare che tale consenso non può essere inteso in senso puramente sincronico, ma deve essere compreso in senso diacronico”.

Per documentare questa diacronicità poi non si deve ricorrere ad un criterio esclusivamente storico, ma ad un criterio dogmatico. Perché vi sia certezza che una verità appartiene alla fede della Chiesa o al novero delle verità strettamente e indissolubilmente collegate ad essa non è necessario che essa sia documentata fin dagli inizi. È sufficiente la testimonianza che anche in un singolo momento della sua storia sia stata creduta o tenuta come certa da tutta quanta la Chiesa. Il che per lo più è testimoniato dalla costanza con cui è presente nel suo magistero. La frequente riproposizione di una dottrina come assolutamente indubitabile da parte del magistero è un criterio più che sufficiente del fatto che questa dottrina è sempre stata presente “in corde Ecclesiæ”. Non è infatti possibile che la colonna e il fondamento della verità erri su qualche cosa di attinente alla fede e ai costumi o di talmente essenziale al loro insegnamento da rendere questo impossibile se non fosse vero. Se questo fosse possibile non avremmo più criterio certo di accogliere veramente non parola di uomini, ma parola di Dio. Ciò che distingue il criterio dogmatico da quello storico è proprio questo: la preoccupazione di accogliere la parola di Dio o solo quella di ricostruire una dottrina umana. Il silenzio delle fonti non è poi mai un argomento concludente. Nel diritto la consuetudine precede sempre la legge e così nella fede la persuasione pacifica precede sempre la documentazione teologica o la definizione del magistero. Il “frequente riproporre la stessa dottrina” (LG 25) è uno dei criteri insegnati dal Concilio per valutare la portata del magistero ordinario del papa. Non tanto – e non soltanto – per valutare il grado di autorità con cui si vuole impegnare, quanto per comprendere – nell’insegnamento del Capo – il valore dell’insegnamento di tutto quanto il Collegio. Una dottrina proposta con frequenza dal papa o addirittura dai papi come verità indubitabile non può essere che dottrina definitiva.

7. Il modo proprio del magistero ordinario è quello della persuasione vissuta, che – per lo più – è pacifica.

“La Tradizione è il luogo ermeneutico dove opera e si esprime in forme diverse – tra le quali la persuasione pacifica – la coscienza veritativa della Chiesa”.

“Si può condividere l’istanza della teologia di condurre analisi accurate nella ricerca di motivare l’esistenza di tale consenso o accordo. Tuttavia non è fondata l’interpretazione che la verifica di un insegnamento infallibile del Magistero ordinario e universale richiederebbe anche una particolare formalità nel dichiarare la dottrina in oggetto. Altrimenti si cadrebbe nella fattispecie della definizione solenne del Papa o del Concilio ecumenico”.

8. Il magistero ordinario ha per oggetto anche verità che, pur non essendo formalmente rivelate, sono però assolutamente necessarie alla trasmissione efficace della rivelazione e quindi indubbie.

“Perché si possa parlare di Magistero ordinario e universale infallibile, si deve esigere che il consenso tra i Vescovi abbia come oggetto un insegnamento proposto come formalmente rivelato o come certamente vero e indubbio, tale quindi da richiedere da parte dei fedeli un assenso pieno e irrinunciabile”.

Note

(1) Qui ex Patre procedit.
(2) Filioque.
(3) “Sacra Scriptura principalius est in corde Ecclesiae quam in materialibus instrumentis scripta – la Sacra Scrittura è scritta nel cuore della Chiesa prima che su strumenti materiali” (CCC, n. 113).
(4) J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971, p. 180.

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