Mercoledì 2 novembre 2022. Misurare la propria idea di Dio e del Giudizio universale con Mt 25
di Michele Brambilla
Mercoledì 2 novembre Papa Francesco presiede una Messa in S. Pietro per i cardinali e i vescovi cattolici deceduti nel corso dell’anno. L’omelia inizia con una parola: “attesa”, intesa come l’attesa escatologica. «Attesa esprime il senso della vita, perché viviamo nell’attesa dell’incontro: l’incontro con Dio, che è il motivo della nostra preghiera di intercessione oggi», rivolta ad una categoria particolare, ma estendibile ad ogni uomo e ad ogni donna che cammini sulla Terra.
«Tutti viviamo nell’attesa, nella speranza di sentirci rivolte un giorno quelle parole di Gesù: “Venite, benedetti dal Padre mio” (Mt 25,34)», pensando al fatto che «siamo nella sala d’attesa del mondo per entrare in paradiso, per prendere parte a quel “banchetto per tutti i popoli” di cui ci ha parlato il profeta Isaia (cfr 25,6). Egli dice qualcosa che ci scalda il cuore perché porterà a compimento proprio le nostre attese più grandi: il Signore “eliminerà la morte per sempre” e “asciugherà le lacrime su ogni volto” (v. 8)».
Contemplando la Gerusalemme celeste, «ci fa bene oggi chiederci se i nostri desideri hanno a che fare con il Cielo. Perché rischiamo di aspirare continuamente a cose che passano, di confondere i desideri con i bisogni, di anteporre le aspettative del mondo all’attesa di Dio. Ma perdere di vista ciò che conta per inseguire il vento sarebbe lo sbaglio più grande della vita. Guardiamo in alto», esorta il Pontefice, «perché siamo in cammino verso l’Alto, mentre le cose di quaggiù non andranno lassù: le migliori carriere, i più grandi successi, i titoli e i riconoscimenti più prestigiosi, le ricchezze accumulate e i guadagni terreni, tutto svanirà in un attimo, tutto», e sarà solo il bene compiuto a contare.
«E qui emerge la seconda parola che vorrei condividere con voi: sorpresa», esplicitata dalla domanda che sia i dannati che i beati rivolgono al Giudice in Mt 25: «quando mai?». Quando mai abbiamo visto il Signore povero, malato, carcerato e lo abbiamo soccorso? «Quando mai? Lo potremmo dire anche noi: ci aspetteremmo che il giudizio sulla vita e sul mondo avvenga all’insegna della giustizia, davanti a un tribunale risolutore che, vagliando ogni elemento, faccia chiarezza per sempre sulle situazioni e sulle intenzioni. Invece, nel tribunale divino, l’unico capo di merito e di accusa è la misericordia verso i poveri e gli scartati», il che, a ben vedere, non è esattamente una sorpresa, perché dovremmo avere ormai capito tutti che questo è il metro di giudizio della civiltà umana. Dovremmo, perché malati e poveri continuano ad essere scartati anche nella nostra “avanzatissima” civiltà postmoderna, «ma il giudizio avverrà così perché a emetterlo sarà Gesù, il Dio dell’amore umile, Colui che, nato e morto povero, ha vissuto da servo. La sua misura è un amore che va oltre le nostre misure e il suo metro di giudizio è la gratuità. Allora, per prepararci sappiamo che cosa fare: amare gratuitamente e a fondo perduto, senza attendere contraccambio, chi rientra nella sua lista di preferenze, chi non può restituirci nulla, chi non ci attira, chi serve i più piccoli».
Il Papa confida, in proposito, che «questa mattina ho ricevuto una lettera da un cappellano di una casa di bambini, un cappellano protestante, luterano, in una casa di bambini in Ucraina. Bambini orfani di guerra, bambini soli, abbandonati. E lui diceva: “Questo è il mio servizio: accompagnare questi scartati, perché hanno perso i genitori, la guerra crudele li ha fatti rimanere soli”. Quest’uomo fa quello che Gesù gli chiede: curare i più piccoli della tragedia. E quando ho letto quella lettera, scritta con tanto dolore, mi sono commosso, perché ho detto: “Signore, si vede che tu continui a ispirare i veri valori del Regno”».
«Fratelli, sorelle, non lasciamoci sorprendere anche noi. Stiamo ben attenti a non addolcire il sapore del Vangelo. Perché spesso, per convenienza o per comodità, tendiamo ad attenuare il messaggio di Gesù, ad annacquare le sue parole», dicendo “si” con le labbra, ma non con tutto il cuore. Il nostro destino ultraterreno «sta nelle nostre mani, nelle nostre opere di misericordia: non nelle puntualizzazioni e nelle analisi raffinate, non nelle giustificazioni individuali o sociali. Nelle nostre mani, e noi siamo responsabili. Oggi il Signore ci ricorda che la morte giunge a fare verità sulla vita e rimuove ogni attenuante alla misericordia».