di don Emanuele Borserini
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Con questa domenica entriamo in un tempo liturgico particolare, non definito da un nome specifico come l’Avvento, la Quaresima, il Tempo di Natale, di Pasqua e il Tempo Ordinario ma che si riconosce facilmente ascoltando la particolare intonazione della liturgia della Parola e delle orazioni. È un tempo che sta a cavallo tra le ultime domeniche del Tempo ordinario (in un numero variabile secondo i cicli A, B e C) e le prime due domeniche dell’Avvento. Come sempre, è un’occasione apparentemente scontata da cui la Chiesa parte per farci ampliare lo sguardo. Siamo alla fine dell’anno liturgico, un passaggio che viviamo continuamente senza porci molte domande ma la Chiesa ci invita a coglierlo per guardare direttamente alla fine di tutti gli anni, liturgici e civili, alla fine dei tempi. L’anno liturgico è il compendio della vita di Gesù e di tutta la storia della salvezza offerte a noi condensate nel tempo di un anno perché possiamo entrarci celebrandole, conoscerle ma soprattutto incontrarle. È propriamente la modalità liturgica che ci permette non tanto di imparare nozioni su Dio quanto piuttosto di conoscerlo facendo qualcosa insieme con lui, realizzando qualcosa di straordinario insieme. Ogni anno liturgico è un approfondimento di questa relazione con Dio, nessuno è mai uguale al precedente anche se il percorso è il medesimo perché diversi siamo noi e diversa è la qualità della relazione che abbiamo costruito con Dio. Più che una linea sempre dritta e sempre uguale è una spirale di ingresso progressivo nell’infinito mistero di Dio. Oppure di regresso, perché una relazione o cresce o decresce, certo non sta ferma. Ecco dunque che la fine dell’anno liturgico non può che diventare simbolo della conclusione di questo cammino, di quando giungerà alla sua meta: la visione di Dio. È un tempo liturgico offertoci per esercitarci nello stile stranissimo che deve contraddistinguere tutta la vita del cristiano: l’attesa di qualcuno che è già presente molto più di quanto pensiamo. Osserviamo in modo particolare il passaggio dall’anno A all’anno B che stiamo vivendo.
Domenica XXXII del Tempo Ordinario anno A:
La fine dei tempi sarà dunque qualcosa di eclatante sì, come una tromba angelica, ma soprattutto ci riguarderà personalmente e interiormente perché sarà l’incontro definitivo con colui che abbiamo tanto atteso e tante volte incontrato nella celebrazione dei suoi misteri.
Domenica XXXIII del Tempo Ordinario anno A:
La luce in cui viviamo, pur non essendo quella della visione piena, è proprio quella che ci permette di entrare già in connessione con essa, attraverso una paziente frequentazione che pian piano ci imprime il suo stile.
Solennità di Cristo Re dell’universo:
Al centro di questo speciale tempo liturgico ecco trionfare il punto di riferimento di tutto: Cristo re di tutto, il medesimo che aspettiamo a portare il suo Regno ma che già regna sul mondo, suo per creazione.
Domenica I d’Avvento anno B:
Il modo migliore per vegliare è partecipare profondamente allo squarcio dei cieli che avviene continuamente nella celebrazione dei divini misteri, dobbiamo solo avere l’attenzione necessaria per riconoscerlo.
Domenica II d’Avvento anno B:
Nella celebrazione dei divini misteri tutto ci parla di questa attesa del ritorno glorioso di Cristo alla fine dei tempi a partire dallo spazio stesso in cui essa si realizza. Sin dal momento in cui entriamo in chiesa possiamo notare come alla convergenza di ogni punto sorga l’altare, l’elemento che rappresenta per tutte le culture la comunicazione tra l’uomo e Dio. Esso è simbolo di Cristo perché in lui trova compimento l’anelito di comunicazione con la divinità che giace in ogni uomo. In Gesù, vero uomo e vero Dio, l’unione tanto ricercata tra uomo e Dio trova la sua perfetta realizzazione. L’altare è simbolo di Cristo in modo tanto forte che viene incensato anche nella celebrazione solenne della Liturgia delle Ore (durante il cantico evangelico delle Lodi mattutine e dei Vespri) e anche al di fuori delle celebrazioni deve essere circondato di attenzione e venerazione e non può mai diventare un piano d’appoggio per altre cose.
Le grandi basiliche paleocristiane derivano la loro struttura dall’edificio pubblico romano che era identificato con questo nome. Si trattava di grandissimi spazi rettangolari coperti e caratterizzati dalla presenza di due absidi sui lati corti, l’ingresso sul lato lungo, un peristilio interno e molte absidiole minori o altri spazi ricavati lungo le pareti interne. In ognuno di questi spazi si poteva trovare una diversa attività sociale. Quando il cristianesimo ereditò e accolse questa struttura che ben si adattava per le sue riunioni, la trasformò immediatamente e con tutta naturalezza informandola della sua concezione spazio-temporale. Ecco dunque che la basilica cristiana si presenta con una sola abside su un lato corto, l’ingresso sul lato opposto e una precisa convergenza verso un punto, l’altare. All’interno di essa tutto andava dunque a suggerire l’idea di un cammino con un preciso inizio, la porta, e una precisa direzione, l’altare ad oriente. Quello della celebrazione del culto cristiano è uno “spazio temporalizzato” e sempre, anche nelle chiese a pianta centrale, la direzione del cammino cristiano è chiaramente espressa: c’è un inizio e una fine. Soprattutto c’è un fine: il Signore Gesù Cristo. È qui che “si compie il disegno del Padre: fare di Cristo il cuore del mondo” (antifona del terzo Salmo dei Vespri del Lunedì della II Settimana del Salterio). Cristo è il centro dell’universo perché è colui che sta all’inizio e alla fine, l’alfa e l’omega (la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto greco). Secondo ciò che il Signore stesso dice di sé nell’Apocalisse (cfr. Ap 21,6), all’inizio della grande veglia pasquale, queste lettere vengono incise sul cero dicendo: “Il Cristo ieri e oggi: Principio e Fine, Alfa e Omega. A lui appartengono il tempo e i secoli. A lui la gloria e il potere per tutti i secoli in eterno”. Mentre vengono proclamate queste solenni parole, il celebrante incide sul cero anche il numero dell’anno corrente. La signoria di Cristo celebrata viene così applicata alla drammatica realtà del tempo e dello spazio in cui l’uomo si trova a vivere. Egli è entrato nel tempo una volta con il suo corpo, vi entra continuamente e vi rimane con il suo corpo sacramentato e tornerà a chiudere definitivamente quel tempo in un modo misterioso ma che è certo che avverrà. La liturgia è il cielo sulla terra, l’irruzione nel tempo fatto di passato, presente e futuro del presente eterno di Dio. Per questo la celebrazione è un momento che sconvolge l’universo. Non è solo una questione cronologica ma ontologica perché Cristo è il nostro orizzonte di senso.
Ci sono alcuni punti focali della liturgia eucaristica della Messa in cui emerge in modo evidente la connotazione escatologica di tutta la celebrazione. Al centro della grande preghiera eucaristica, per esempio, c’è un solenne dialogo tra il presidente e l’assemblea. Esso inizia con l’invito “Mistero della fede” che erompe come un grido di gioia e sorpresa dal silenzio adorante seguito all’elevazione del calice. Segue la festosa e convinta risposta dell’assemblea per poi continuare nella ripresa presidenziale che conferma e illumina la risposta. La conclusione delle prime due formule di risposta all’invito presidenziale ci pone “nell’attesa della tua venuta”: contempliamo il Mistero sotto i veli del sacramento, che è il modo più sicuro e chiaro datoci su questa terra per avvicinarlo, ma sappiamo che un giorno tutto sarà svelato completamente. Così come la preghiera presidenziale che segue il Padre nostro, l’embolismo, conclude dicendo “nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro salvatore Gesù Cristo”. Allora, non ci sarà più liturgia perché tutto sarà chiaro, ma per poter accedere a quel giorno non possiamo che abituarci ad avvicinarlo proprio in questo modo. La liturgia è escatologica per definizione, perché viene celebrata finché il Signore ritornerà (donec venias). La parusia è la pienezza della liturgia perché, essendo la liturgia l’evento pasquale in mezzo a noi, è naturalmente ordinata a compiersi nel ritorno glorioso del Signore risorto. L’Eucarestia, che è l’apice di tutta la liturgia, è dunque l’“escatologia realizzata” (Joseph Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella editrice, Assisi 2008). L’Eucaristia, dunque, non è una supplenza della venuta escatologica perché l’incontro finale è lì già sperimentabile; in forma diversa, ma sostanzialmente è lo stesso Signore Gesù Cristo: la venuta intermedia, tra quella nella carne e quella nella gloria, non è un surrogato di esse ma è davvero il Signore che ha promesso di essere con noi per sempre (cfr. Mt 28,20). Il fervore con cui aspettiamo la sua venuta, che nessuno sa quando e come avverrà, deve essere lo stesso con cui attendiamo la Messa, di cui conosciamo perfettamente l’orario e lo svolgimento perché “nella liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla liturgia celeste” (SC, 8). Ed ecco che al termine delle intercessioni di cui è composta la seconda parte di ogni preghiera eucaristica, viene evocata la Chiesa celeste, Maria Santissima, San Giuseppe suo sposo e con varie formule tutti i Santi: un escalation che allarga il cuore dei componenti dell’assemblea eucaristica a tutto lo spazio ed il tempo (le intercessioni per la Chiesa universale e per il mondo intero) e giunge a contemplare il suo stesso destino finale. Infine, come a suggellare la tensione escatologica di ogni celebrazione c’è l’orazione dopo la Comunione che sempre chiede il passaggio dalla celebrazione dei misteri alle realtà eterne che essi contengono. Come ogni testo liturgico, questa orazione da una parte chiede a Dio e dall’altra suggerisce a noi ciò che esprime perché sentendo queste parole comprendiamo la vera dimensione di tutto quello che abbiamo compiuto: l’eternità. Dopo averla intravvista nello squarcio del cielo che è ogni celebrazione liturgica, quando sta per terminare il tempo a sua disposizione, la Chiesa prega che attraverso il banchetto festoso del sacramento entriamo con la mente e col cuore nel banchetto dell’eternità e, raccomandati da questa esperienza rituale, possiamo entrarci definitivamente nell’ultimo giorno. La Chiesa in queste ultimissime battute della celebrazione eucaristica fa come quella devota vecchietta che sentendo prossima la morte chiese al suo parroco di porle tra le mani un cucchiaino quando l’avessero sistemata nella bara e spiegò la strana richiesta in questo modo: mi è sempre piaciuto partecipare ai pranzi e alle cene delle feste in parrocchia, quando arrivavo al mio posto guardavo subito se c’era il cucchiaino vicino al piatto perché significava che il meglio sarebbe arrivato alla fine; quando passeranno vicino alla mia bara e si chiederanno il perché di quel cucchiaino voglio che lei risponda: il meglio sta arrivando!