di Emanuele Borserini
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I prefazi del tempo d’Avvento
L’Avvento è, insieme alla Quaresima, un “tempo forte”, un momento propizio per riprendere con entusiasmo e rinnovato impegno il nostro cammino cristiano. Come sappiamo, nelle nostre parrocchie e gruppi è l’occasione per incontrarci più spesso, metterci in ascolto della Parola di Dio con più attenzione e dedicarci più assiduamente a qualche opera di carità o di penitenza per rendere il cuore un po’ meno insensibile all’incontro con Dio. Ogni occasione, dunque, è propizia per sollecitarci a vivere bene questo tempo: tra le tante proposte, possiamo coglierne una molto discreta e sempre disponibile ma anche molto efficace, l’esperienza celebrativa di questo tempo forte. E in modo particolare possiamo addentrarci in essa attraverso un testo strutturale della celebrazione dell’Eucaristia, il prefazio. Il Messale romano in italiano presenta quattro testi per l’Avvento: i primi due (I e I/A) per la parte che arriva fino al 16 dicembre ed è dedicata alla contemplazione e alla preparazione del mistero della parusia cioè dell’ultima e gloriosa venuta di Cristo alla fine dei tempi, gli altri due (II e II/A) per i giorni successivi che, senza smarrire l’attenzione suscitata dalla prima parte dell’Avvento e facendone una categoria interpretativa imprescindibile, ci invita a disporre il cuore e la mente all’esperienza celebrativa della sua prima venuta. Il prefazio è la solenne introduzione della preghiera eucaristica la cui forma rituale specifica è quella di un dialogo tra il presidente e l’assemblea. Quella del dialogo, peraltro, è la modalità in cui la maggior parte dei riti si realizza perché se la liturgia è l’incontro con il Signore è logico che essa ci metta in dialogo con lui. Il prefazio si apre con il saluto liturgico che ritroviamo molte altre volte nel corso dell’Eucaristia: “Il Signore sia con voi”. Esso professa innanzitutto la verità che il Signore è presente, ricordiamo che in latino non c’è il verbo al congiuntivo e, di conseguenza, esprime semplicemente la sua presenza. Tuttavia, proprio questo modo verbale ci invita ad un coinvolgimento esistenziale perché possiamo percepire la sua presenza oggettivamente prodotta dalla celebrazione. Come ogni contenuto liturgico, anche il saluto è espressione della fede e inizio della nostra appropriazione della fede stessa. La risposta dell’assemblea, “E con il tuo spirito”, non è di cortesia ma San Giovanni Crisostomo ci informa che essa fa riferimento al carisma speciale presente nel ministro ordinato. Esprime, dunque, l’identità del ministro e dell’assemblea che vivono in modo diverso il medesimo e unico sacerdozio di Cristo e la modalità specifica è quella di essere l’uno al servizio dell’altro. Presa coscienza di sé, il dialogo prosegue con l’esortazione “In alto i nostri cuori”. L’alto è il luogo in cui da sempre l’uomo ha cercato il divino, è dunque un richiamo a prendere tutto di sé stessi, non solo quanto è già evangelizzato e metterlo in comunicazione con il suo creatore che è, usando la medesima categoria linguistica, l’Altissimo. Questo generico alto si specificherà poi nell’ultimo intervento presidenziale, detto corpo del prefazio, che culminerà dicendo che tutti i motivi della nostra lode avvengono “per Cristo nostro Signore” (o in alcuni casi con una formula leggermente diversa), dove “per” ha valore sia di causa sia di mezzo: solo in Cristo Signore possiamo lodare davvero Dio ed è anzitutto per il dono del suo Figlio nel quale ci da ogni altro bene che ha senso lodarlo. Proprio per questo il prefazio in qualsiasi celebrazione, fosse anche penitenziale o di lutto, ha sempre carattere laudativo, è sempre un testo di festa. A questa esortazione così apparentemente banale che spesso viene confusa con l’invito semplicemente ad alzarsi in piedi, l’assemblea risponde convinta che “sono rivolti al Signore”. Questa affermazione non solo esprime, come ci si augura, che davvero il cuore sia rivolto al Signore dal momento che siamo in chiesa e non altrove, ma soprattutto ha valore performativo cioè fa accadere ciò che dice, caratteristica propria della liturgia. Essa, mentre lo afferma, ha la capacità di portare davvero in alto il cuore, verso un alto che non è più un vago sentimento religioso ma è il Signore. chiarito questo, ecco che riprende il presidente con un’altra esortazione: “Rendiamo grazie a Dio”. La formulazione, per noi scontata, “rendere grazie” è molto importante perché da l’idea di come il nostro ringraziamento sia un’azione, una liturgia appunto e non un semplice e cortese “dire grazie”. Inoltre, il verbo greco che da origine alla parola “eucaristia” significa proprio rendere grazie, è come se il presidente dicesse all’assemblea: “facciamo eucaristia!”. Il prefazio, dunque, inaugura non solo per motivi tecnici ma con un appassionato dialogo formativo e performativo la preghiera eucaristica. La risposta è il riconoscimento da parte dell’assemblea che non c’è cosa migliore che fare l’Eucaristia per esprimere il nostro rapporto con il divino, che è dignum cioè appropriato e iustum cioè doveroso celebrare davanti a Dio il nostro ringraziamento. A questo punto il dialogo si intensifica ancora di più perché il presidente assume appieno il suo ruolo di guida e maestro nella liturgia spiegando con un linguaggio meravigliosamente poetico perché è buono e giusto ringraziare Dio in questo modo e in quella particolare circostanza. Ancora una volta l’esordio è fortemente relazionale: il presidente-maestro riprende esattamente le stesse parole con cui l’assemblea si era espressa come per confermarla e confortarla, come se iniziasse dicendo: “sì, avete detto bene, è proprio così, ora ve lo spiego meglio, ma siete già sulla strada giusta!”. Questa parte del prefazio è composta di tre momenti che nella pagina del messale appaiono scanditi in modo evidente: un’introduzione piuttosto standardizzata, una parte centrale propria e una conclusione che pur variando nelle parole richiama sempre il tema dell’unione con la lode degli angeli perché introduce al Santo che è propriamente il canto degli angeli. Ascoltiamo, allora, i quattro prefazi dell’Avvento per lasciarci formare e coinvolgere da essi nello spirito di questo tempo forte.
I – La duplice venuta di Cristo
Al suo primo avvento nell’umiltà della nostra natura umana egli portò a compimento la promessa antica, e ci aprì la via dell’eterna salvezza. Verrà di nuovo nello splendore della gloria, e ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa.
Il titolo esprime sinteticamente la connotazione dell’Avvento che è tutto giocato sulla tensione tra l’attesa della celebrazione della prima venuta di Cristo e la rivitalizzazione dell’attesa della sua ultima venuta. Anche dal punto di vista letterario, questo prefazio è ben suddiviso in due parti compiute. La prima è caratterizzata da tre immagini: l’atto di umiliazione della seconda Persona della Trinità come lo descrive l’inno di Fil 2,5-11, il compimento delle promesse che attraversano tutto l’Antico Testamento e il tema altrettanto squisitamente profetico dell’apertura definitiva della via della vita eterna da parte di Gesù che è egli stesso via, verità e vita. La seconda parte si apre con il tema della gloria che si contrappone a quello dell’umiltà per poi istituire un altro forte contrasto: quello tra il verbo presente “osiamo” che amplia in modo drammatico il riferimento alla speranza da una parte e dall’altra il verbo futuro “chiamerà a possedere”. Le parole non sono usate a caso e ci devono colpire con tutta la loro forza. Questa dicotomia si può riassumere efficacemente nel tema del “pegno” dell’orazione sulle offerte della I Domenica d’Avvento, con tutto il significato relazionale ed esistenziale che questa parola porta con sé: non si tratta di un’etica ma di un pegno d’amore che, seppur in germe, anticipa realmente il possesso. È un azzardo questa speranza ma per noi è ben fondata sulla chiamata che abbiamo ricevuto nel battesimo e sulla continua presenza sacramentale del “regno promesso”. Inoltre, ascoltando questo prefazio non si può non riconoscervi l’eco dei vangeli della I Domenica che, in tutti e tre i cicli, sono dedicati alla vigilanza: Mt 24, 37-4; Mc 13, 33-3; Mc 13, 33-3. È dunque un testo di grande impatto che suscita le giuste emozioni per intraprendere e vivere in pienezza questo tempo d’Avvento.
I/A – Cristo, Signore e giudice della storia
Tu ci hai nascosto il giorno e l’ora, in cui il Cristo tuo Figlio, Signore e giudice della storia, apparirà sulle nubi del cielo rivestito di potenza e splendore. In quel giorno tremendo e glorioso passerà il mondo presente e sorgeranno cieli nuovi e terra nuova. Ora egli viene incontro a noi in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo nell’amore la beata speranza del suo regno.
Il proprium di questo prefazio d’Avvento si espande informando di sé anche l’introduzione e la conclusione che, mentre permangono nelle loro caratteristiche funzionali di raccordo con ciò che c’è prima e ciò che viene dopo (il dialogo introduttivo e il Santo), diventano a loro volta più avventizie rispetto alla consueta formulazione: il Padre destinatario della lode è il “principio e fine di tutte le cose” e la raccomandazione alla liturgia celeste avviene “in attesa del suo ultimo avvento”. Qui manca un riferimento esplicito alla prima venuta di Cristo ma, con lo stile enfatico che le spetta (“tremendo e glorioso”), tutto è proiettato a quella ultima e definitiva. Continua invece il confronto tra il presente e il futuro: drastico è il passaggio da “quel giorno” a “ora” eppure proprio questa repentinità riesce a mettere in continuità e quasi sullo stesso piano queste due venute di Cristo dando serietà e importanza al suo venire in forma nascosta nei fratelli che incontriamo ogni giorno. I riferimenti scritturistici sottesi a questo prefazio sono molti e vanno dai brani evangelici nei quali Gesù afferma che non è dato all’uomo conoscere i tempi nei quali il Figlio dell’uomo tornerà nella gloria (Mt 24,42-51; Lc 12,40-51; At 1,6-11) a quelli nei quali egli racconta il giudizio che promulgherà al suo ritorno (Mt 25,31-46; Mt 26,64); vi si riconoscono echi dei profeti come Daniele che hanno avuto visioni di uno simile ad un figlio di uomo che appare sulle nubi del cielo (Dn 7,13-14); si sente l’eco delle parabole del Regno che annunciano un cambiamento che pur positivo nel suo esito è allo stesso tempo causa di sofferenza (Mt 13,24s; Lc 13,22-30; 19,11-27), riprendendo peraltro l’esperienza del divino comune ad ogni uomo e che lo percepisce come fascinosum (capace di attrarre a sé) ma anche tremendum (perché chi lo vuol seguire seriamente deve prendere la sua croce); non può non essere colta anche la citazione dei cieli nuovi e della terra nuova del libro dell’Apocalisse (Ap 21,1s), segno concreto del rinnovamento operato dalla radicale e definitiva vittoria di Gesù; infine, il riferimento alla vita di ogni giorno sembra un compendio del giudizio universale di Mt 25,31-46. Interessante anche l’evocazione conclusiva delle tre virtù teologali per vivere con serietà l’Avvento e con spirito d’avvento tutta la vita: la speranza, la virtù tipica dell’Avvento, si accoglie con la fede e si testimonia con la carità.
II – L’attesa gioiosa del Cristo
Egli fu annunziato da tutti i profeti, la Vergine Madre l’attese e lo portò in grembo con ineffabile amore, Giovanni proclamò la sua venuta e lo indicò presente nel mondo. Lo stesso Signore, che ci invita a preparare il suo Natale ci trovi vigilanti nella preghiera, esultanti nella lode.
Questo prefazio ripercorre sinteticamente la preparazione alla prima venuta di Cristo: la lunga e intensa epopea profetica che lo annunziò, Maria che lo portò fisicamente e Giovanni che non solo ebbe un ruolo profetico di annuncio ma anche il privilegio di vederlo e indicarlo presente. Con il tema della presenza, questo testo riassume lo spirito della seconda parte dell’Avvento. Ci sono ancora preparazione, vigilanza, attesa ma soprattutto è ormai tempo di esultare nella lode perché egli è presente. Del resto, anche il titolo, ripreso poi con parole diverse, mette a tema la gioia. L’invito a preparare la celebrazione del suo Natale ha senso perché egli è presente, una presenza liturgica cioè discreta, non invadente e non prepotente ma continua ed efficace. Nella conclusione si può scorgere anche un’indicazione sul rapporto tra la preghiera personale e la liturgia: la preghiera personale ravviva la liturgia perché ci mette la vigilanza cioè un sentimento che ci coinvolge e riempie di partecipazione le formule prescritte, dall’altra parte la liturgia da senso alla preghiera personale perché le da la forma della lode che difficilmente ci viene spontanea, chiediamo e ringraziamo ma la lode è la preghiera pura e potente che ci mette in relazione profonda con Dio perché proclamando le sue opere lo rende presente.
II/A – Maria nuova Eva
Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti glorifichiamo, per il mistero della Vergine Madre. Dall’antico avversario venne la rovina, dal grembo verginale della figlia di Sion è germinato colui che ci nutre con il pane degli angeli ed è scaturita per tutto il genere umano la salvezza e la pace. La grazia che Eva ci tolse ci è ridonata in Maria. In lei, madre di tutti gli uomini, la maternità, redenta dal peccato e dalla morte, si apre al dono della vita nuova. Dove abbondò la colpa, sovrabbonda la tua misericordia in Cristo nostro Salvatore.
Anche questo prefazio caratterizza a modo suo la conclusione: è infatti “nell’attesa della sua venuta” che avviene la connessione con la liturgia celeste. Come il precedente prende le mosse dalla contemplazione di Maria vergine e madre, che è in un certo senso protagonista dell’Avvento, ma lo fa da un’angolazione specifica mettendola in parallelo con Eva. E questo confronto avviene attraverso il titolo di “madre di tutti i viventi” (Gen 3,20) che il libro della Genesi attribuisce a Eva in quanto capostipite della natura umana ma che ora va attribuito a Maria che per grazia esercita una maternità, se ci è possibile immaginarlo, più forte di quella biologica. A più riprese, con fare squisitamente poetico, si ribadisce che nel mistero del Natale, attraverso di lei, viene recuperato ciò che era andato perduto a causa della prevaricazione del primo uomo, corrotto dall’antico avversario (Gen 3,1-5; Ap 12,9): è ora possibile rinascere dallo Spirito e dall’alto (Gv 3,1-21). Se il riferimento ad Eva richiama da un lato il peccato delle origini, dall’altro ci fa soffermare sulla nostra comune identità: siamo tutti uomini nati nella carne, una carne segnata dall’esperienza del peccato e tutti condividiamo questa natura fragile. Il tema della nostra carne, peraltro, è di capitale importanza per la celebrazione e la comprensione del mistero dell’Incarnazione del Verbo e si propone l’approdo teologico di tutti i temi preparatori dei precedenti prefazi. Cristo è qui evocato con due immagini poetiche della Scrittura: il germoglio (Is 11,1) e il pane degli angeli (Gv 6). L’ultimo riferimento è ancora incentrato sulla sua opera redentrice ed è una citazione quasi letterale di Rm 5,20 dove il sovrabbondare esprime molto chiaramente come la salvezza conquistata da Cristo per l’umanità sia di gran lunga superiore non solo al peccato ma perfino allo stato di grazia nel quale viveva l’uomo prima della caduta. È un testo complesso che riecheggia con solennità molti testi biblici ma anche dal sapore quasi intimo, per esempio attraverso il tema della maternità che non può lasciare indifferente nessuno. Solennità e intimità sono proprio le due connotazioni opposte che la liturgia darà a tutto il tempo di Natale e al quale questo ultimo prefazio d’Avvento ormai apre.
Ascoltiamo con attenzione questi testi splendidi e lasciamo che suscitino tutte le suggestioni che possono suggerirci richiamando alla memoria i testi della Scrittura ed evocando esperienze ed emozioni personalissime per coinvolgerci sempre più pienamente nel mistero della nostra redenzione che si attua nella sua celebrazione (cfr. l’Orazione sulle offerte della III Domenica d’Avvento).