di Don Pietro Cantoni
tratto da Cristianità, settembre-dicembre 2007
In data 7 luglio 2007 Papa Benedetto XVI ha pubblicato il Motu Proprio che estende la facoltà di celebrare nella forma precedente la riforma liturgica del 1970 (1). Le reazioni al documento pontificio possono apparire sproporzionate se ci si ostina a ridurlo alle modestissime proporzioni di un documento di dialogo ecumenico nei confronti di una esigua minoranza. Se così fosse non si capirebbe davvero l’ostilità con cui è stato accolto in molti ambienti e anche — purtroppo — da parte di qualche vescovo.
In realtà il documento va ben oltre il fatto specifico della celebrazione della Messa secondo il Missale Romanum del 1962.
Per comprendere l’effettiva portata di questo documento conviene partire da che cosa esso non è.
Non è la sconfessione del Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) e neppure della riforma liturgica che ne è conseguita. È cosa talmente ovvia che può apparire persino inutilmente ridondante ripeterlo, se non fosse per l’insistenza con cui il pericolo viene denunciato. Come sempre, davanti a reazioni così insistenti e ad affermazioni così frequentemente ripetute, dobbiamo avere la saggezza di riconoscere un nucleo di verità. Quando vi è tanto fumo, vi deve pur essere un po’ di arrosto. Una sconfessione infatti vi è: non però del Concilio, ma dell’interpretazione del Concilio all’insegna della rottura.
Nell’ormai famoso e difficilmente sopravvalutabile discorso di Papa Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, il Papa poneva alla radice della situazione di crisi in cui versa il mondo cattolico lo scontro fra due interpretazioni dell’ultimo concilio ecumenico: “[…] due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro” (2). Due e non tre. Con quel discorso siamo finalmente usciti dal modello ternario conservatori-progressisti-moderati, che rifletteva di fatto una lettura ideologica della vita della Chiesa. Il modello binario di Papa Benedetto XVI è — come dev’essere — puramente teologico. “Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’”ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.
“L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare” (3). Trattandosi di uno schema binario e non ternario, l’“ermeneutica della rottura” è à double face: una volta ammessa una insanabile spaccatura fra la Chiesa pre-conciliare e la Chiesa post-conciliare — terminologia che ha solo un valore cronologico e non teologico —, si apre la strada a una scelta. Vi è chi sceglie il postconcilio ed è infastidito da tutto quello che succedeva “prima” e vi è chi sceglie il preconcilio e “sopporta” — spesso applicando con larghezza la restrizione mentale — tutto quanto è accaduto dopo. Entrambe queste posizioni si ritrovano unite nell’assunzione di un atteggiamento sostanzialmente soggettivista e in una conseguente ricezione del Magistero — conciliare e non — puramente formale. In conformità con questo approccio il Magistero è accettabile solo se si muove in conformità con “lo spirito del Concilio” oppure solo nella misura in cui riafferma cose già dette prima del Concilio. Non credo sia inutile ricordare che il termine greco hairesis — da cui l’italiano “eresia” — significa “scelta”, “preferenza”, “elezione”, “partito”, implicando sempre una fondamentale affermazione della soggettività. Entrambi questi atteggiamenti, nella esteriore differenza delle forme, esprimono un comune sentire postmoderno e relativista. L’“ermeneutica della riforma”, del “rinnovamento nella continuità” è invece espressione della fede tradizionale della Chiesa Cattolica. Noi cattolici infatti siamo stati spesso accusati dai nostri fratelli protestanti e — prima ancora — dagli ortodossi, di avere “aggiunto” qualcosa al deposito della fede affidato agli Apostoli. È nota la polemica riguardo al Frühkatholizismus per cui alcuni teologi protestanti hanno ravvisato già nel canone delle Sacre Scritture elementi di quel cattolicesimo che doveva poi essere rifiutato da Martin Lutero (1483-1546) in nome di un radicale “ritorno alle origini” (4). Al contrario, la scoperta della categoria dello sviluppo, come indispensabile strumento per comprendere la tradizione patristica e quindi la fede stessa, fu proprio ciò che determinò il passaggio di John Henry Newman (1801-1890) dall’anglicanesimo alla Chiesa Cattolica (5). Nella logica dello sviluppo forme anteriori della fede, quando sono accolte e trasmesse per secoli nella Chiesa non possono essere abolite, ma possono e devono essere di nuovo interpretate per cui, in una fondamentale identità di senso, vengono colte in modo più pieno e profondo: “Per rinnovare non è necessario contraddire, basta approfondire” (6).
Nel Motu Proprio, infatti, e nella lettera di accompagnamento (7), il Papa insiste nell’affermare che il Rito Romano precedente la riforma — ma lo stesso, per le stesse ragioni, può essere affermato anche del Rito Ambrosiano — non è mai stto abrogato. “Quanto all’uso del Messale del 1962, come forma extraordinaria della Liturgia della Messa, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso” (8). Infatti: “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso” (9).
Quando fu fatta la riforma liturgica non si pensò di dover abrogare la liturgia precedente. Si era infatti convinti che la cosa sarebbe andata da sé: la nuova liturgia avrebbe insensibilmente e inesorabilmente sostituito l’antica, com’era successo spesso nella lunga storia della Chiesa. Gli eventi presero invece decisamente un’altra direzione. Non si era tenuto conto del fatto che la riforma era avvenuta — o, perlomeno, era stata percepita — come qualcosa di “fatto a tavolino” da un gruppo di esperti e non come il frutto maturo di una impercettibile evoluzione storica. Inoltre si era sottovalutato che si trattava della “più grande riforma liturgica nella storia del cristianesimo” (10).
Verso la metà del 1600 il patriarca di Mosca Nikita Minič Nikon (1605-1681) attuò una riforma del Rito Bizantino slavo celebrato dalla Chiesa russa. La riforma consistette sostanzialmente nel conformare i libri liturgici russi ai libri liturgici greci utilizzati allora a Costantinopoli. In concreto la portata dei cambiamenti era veramente minima: il più significativo è il segno di croce e le benedizioni con tre dita anziché con due. Il risultato fu uno scisma di terribili proporzioni — frantumatosi ben presto in diverse branche — che conta ancora ai nostri giorni milioni di aderenti. Toccare la liturgia è sempre molto rischioso. Così la riforma liturgica non si affermò affatto in modo “indolore”. Da una parte essa fornì l’occasione a una serie di scandalosi abusi, dove l’abuso principale — quello strisciante — era l’idea che la liturgia fosse qualcosa di continuamente da inventare, da “fare” e non piuttosto l’accoglienza e la celebrazione del dono e dell’azione di Dio in mezzo agli uomini: “Tutte le volte che celebriamo questi santi misteri si compie l’opera della nostra redenzione” (11). Dall’altra suscitò una reazione a volte violenta e a volte nascosta, ma comunque reale e fastidiosa, tale da generare un clima di disagio che finì per rendere problematici i suoi innegabili effetti positivi là dove essa era applicata e vissuta in ossequio alle norme e — soprattutto — in conformità con la teologia liturgica che la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium aveva così profondamente delineato (12). Fra gli aspetti positivi della riforma vanno certamente annoverati la maggiore ampiezza del lezionario biblico e l’introduzione della lingua volgare accanto alla lingua liturgica tradizionale dei riti latini: il latino. Questa introduzione infatti — secondo la lettera e lo spirito del Concilio — non voleva affatto determinare l’abolizione della lingua latina: “Linguæ latinæ usus, salvo particulari iure, in ritibus latinis servetur [L’uso della lingua latina, salvo un diritto particolare, sia conservato nei riti latini]” (13). Questa reazione critica era arrivata — in qualche caso — addirittura a mettere in discussione l’ortodossia della riforma. Cosa assurda e teologicamente inconsistente, soprattutto se esaminata dal punto di vista di una corretta ecclesiologia (14), ma che era resa molto credibile dai tanti abusi liturgici che finivano per addolorare e spazientire i fedeli. A un certo punto, vista l’inattesa reazione alla riforma, il presidente del Pontificio Consiglio per l’esecuzione della riforma liturgica, monsignor Annibale Bugnini C.M. (1912-1982), si adoperò presso la Segreteria di Stato per ottenere una inequivocabile dichiarazione dell’avvenuta abrogazione dell’antico rito, ma senza successo (15). Ci si rese infatti subito conto che si trattava di un atto assai problematico. I canonisti avevano ipotizzato la possibilità di una obrogatio, cioè di una eliminazione di fatto dovuta al totale riordino della materia: si sarebbe comunque trattato di qualcosa d’inaudito, cioè dell’abolizione mediante un atto giuridico di un rito liturgico ortodosso e immemoriale (16). Anche in una generica situazione di dubbio ci si doveva allora obbligatoriamente riferire al canone 21 del Codice di Diritto Canonico: “Nel dubbio la revoca della legge preesistente non si presume, ma le leggi posteriori devono essere ricondotte alle precedenti e con queste conciliate, per quanto è possibile”. Qui però subentravano altre gravi considerazioni: a. l’eccezionalità dell’atto legislativo di Papa san Pio V (1566-1572) — era la prima volta che un Papa legiferava con tale ampiezza in materia liturgica — che, sovrapponendo una legge alla norma consuetudinaria, prevedeva però la continuazione dei riti bicentenari o immemoriali; b. la dottrina giuridica comunemente recepita nella Chiesa, secondo la quale “ove una determinata materia, già regolata da norma consuetudinaria, venga regolata anche da legge scritta, quest’ultima non sostituisce la norma consuetudinaria ma si aggiunge ad essa” (17). La conclusione che s’imponeva non poteva essere che questa: “Poiché […] la Costituzione “Missale Romanum” forse obroga la “Quo Primum” ma certamente non abroga la consuetudine millenaria e particolare che regolava il rito della messa nella chiesa romana e latina prima della bolla piana, esso rito rimane […] in vigore accanto al nuovo regolato dalla costituzione paolina” (18). Il Motu Proprio non fa dunque che sanzionare questa situazione di fatto: la Chiesa, davanti al rito antico, si trova a riconoscere, come in altri casi analoghi — per esempio l’ordinazione delle donne al ministero presbiterale (19) —, di non avere la facoltà di procedere. Questo non significa affatto una limitazione indebita del potere della Chiesa, ma solo il riconoscimento che la consuetudine liturgica, ortodossa e immemoriale, costituisce una delle espressioni della sua stessa sacra potestas.
Comunemente si confonde la celebrazione secondo il Messale del 1962 con la “Messa in latino” e don Manlio Sodi S.D.B. può giustamente puntualizzare che non è una questione di lingua, perché “anche l’attuale Messale può essere usato nel suo testo originale che è in lingua latina!” (20). Trascura però che, se la gente confonde, non è solo per ignoranza, ma anche perché la prassi postconciliare l’ha indotta a una tale confusione. Infatti, in concreto, a parte le celebrazioni papali, le uniche Messe in latino che normalmente s’incontrano sono quelle celebrate con l’antico Messale. E questa non è solo una situazione di fatto, ma in molti casi anche di diritto: in Italia, per esempio, vige l’obbligo di celebrare la Messa “cum populo” in lingua volgare (21). Il Concilio aveva però — come abbiamo visto — legiferato diversamente.
Già al Concilio di Trento (1545-1563) si discusse animatamente sulla lingua liturgica. Il cap. VIII e — soprattutto — il canone IX della XXII sessione sul sacrificio della Messa non hanno però solo un valore disciplinare: anatematizzando infatti la proposizione “la messa deve essere celebrata solo nella lingua del popolo” (22), il santo sinodo intendeva prendere con chiarezza le distanze dalla concezione dei riformatori secondo cui una celebrazione sacramentale non vale se non è capita da tutti. Una tale posizione infatti misconosceva il valore oggettivo del sacramento come vera e propria azione di Dio in Cristo e la riduceva a semplice azione simbolica finalizzata a suscitare e a eccitare la fede soggettiva che, sola, salva. Dagli atti si evince anche che il concilio non voleva assolutizzare il valore di una lingua liturgica e aveva ben presente la prassi delle Chiese Orientali (23). A quei tempi la lingua latina — pur non essendo più da secoli la lingua del popolo — aveva ancora una posizione culturale e una diffusione di tutto rispetto. San Roberto Bellarmino S.J. (1542-1621) poteva tranquillamente predicare in latino in una chiesa parrocchiale di Lovanio alla presenza non solo di universitari, ma anche di uomini e donne del popolo (24). Oggi una simile performance risulterebbe assai problematica non solo in qualsiasi chiesa d’Europa, ma anche nell’aula magna di un’università pontificia a Roma. Per questo Papa Benedetto XVI, nella lettera di presentazione e d’interpretazione del Motu Proprio, osserva che “l’uso del Messale antico presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina; sia l’una che l’altra non si trovano tanto di frequente” (25). Questa clausola rileva un dato di fatto, da meditare con molta attenzione, ma non configura assolutamente una condizione giuridica per accedere alla Messa “tradizionale”. Quanto alle condizioni culturali, va tenuto presente che, anche nei riti orientali, sussistono problematiche affini. Un liturgista appartenente alla tradizione siro-occidentale, don Nizar Semaan, dopo aver osservato che “noi oggi siamo figli dei padri, portiamo con fierezza tutto il loro patrimonio; domani saremo padri dei figli, a loro dobbiamo consegnare questo patrimonio” (26), conclude: “[…] dobbiamo tener conto delle nuove realtà e della nuova situazione dei nostri credenti: prima di tutto la realtà della lingua siriana perché oggi non tutti i siri parlano o capiscono il siriaco” (27). Perciò “nei paesi nei quali c’è ancora la possibilità di continuare a pregare in lingua siriaca, suggerisco di andare avanti, offrendo corsi estivi per i giovani” (28).
Quanto alle condizioni giuridiche, esse sono chiaramente delineate dal Motu Proprio. La legittima esistenza del rito, che dev’essere inteso come forma straordinaria dell’unico Rito Romano, configura infatti un corrispondente diritto dei fedeli. Perciò, se un sacerdote decide di celebrarlo nella forma “sine populo” — cioè al di fuori delle Messe di orario parrocchiali o comunque pubbliche —, qualunque fedele può accedere alla sua celebrazione, senza che né il sacerdote, né i fedeli debbano chiedere l’autorizzazione a chicchessia (29). Per le Messe parrocchiali bisogna che i fedeli costituiscano un gruppo stabile e facciano richiesta al parroco. Se i fedeli legati alla liturgia tradizionale appartengono a diverse parrocchie, è prevista anche la possibilità — a prudente giudizio dell’ordinario — di una parrocchia personale (30). Tutto ciò, assieme alle altre norme che si possono leggere nel documento, aiuta a capire che, se si configura un diritto dei fedeli, esso però dev’essere vissuto non in un clima da “rivendicazione sindacale” ma nella prospettiva del bene comune della Chiesa e dell’ordine che a esso intrinsecamente appartiene (cfr. 1 Cor. 14, 40; 11, 16).
Dom François Cassingena-Trévedy O.S.B., monaco dell’Abbazia di San Martino a Ligugé, in Francia, e docente all’Istituto Superiore di Liturgia di Parigi, ha messo opportunamente in luce che alle due forme rituali competono due distinte “personalità” liturgiche: dionisiano-misterica al rito tridentino, agostiniano-sociale al messale di Papa Paolo VI (1963-1978) (31). Ora la Messa tradizionale è spesso colta come “la Messa del sacrificio” e questo le conviene certamente. La contraddistingue qualcosa che — a causa dell’anticipazione sacrificale del suo offertorio, l’arcana maestosità del canone silenzioso e l’orientamento dell’altare che, se non le conviene in proprio, certamente le appartiene per lo più di fatto — ha un valore dogmatico non sopravvalutabile. Fermo restando che — pur non altrettanto enfatizzato — il carattere sacrificale è assolutamente presente anche nel Novus Ordo Missæ (32).
Due forme rituali che — all’interno di uno stesso rito, il Rito Romano — coesistono pacificamente come forma ordinaria — il Rito Romano frutto della riforma liturgica del 1970 — e straordinaria — il rito precedente la riforma — appaiono così come l’icona vivente del modo corretto d’interpretare qualunque riforma nella Chiesa e quindi anche l’ultimo concilio ecumenico. Ecco perché, anche se apparentemente circoscritto quanto alla sua materia propria, il Motu Proprio Summorum Pontificum è così importante e suscita tanto clamore. Qualcuno lo ha visto polemicamente come una specie di Apocalisse: la fine del “fermento” innovativo del Concilio. In un certo senso lo è: Apocalisse come fine del Konzilsungeist, del “cattivo spirito del Concilio” in quanto suo smascheramento; Apocalisse vuol dire infatti “rivelazione” e questo documento sta rivelando il pensiero nascosto di molti cuori (cfr. Lc. 2, 34).
Note