Di fronte allo spettacolo blasfemo di Romeo Castellucci occorre regaire. Ci permettiamo di indicare una modalità, a Milano, perché a questa aderisce anche la redazione de La Bussola Quotidiana: domani, martedì 24 alle ore 21, nella chiesa di San Pio X (Piazza Leonardo da Vinci, Città Studi), il parroco don Marco Barbetta celebrerà una Messa di riparazione, a cui invitiamo tutti i nostri lettori che potranno.
Immaginiamo di imbatterci in una situazione dove una persona viene offesa gratuitamente, in modo assolutamente immeritato. Anche se quella persona ci è estranea, se in noi c’è un minimo di dignità, ci facciamo avanti prendendone le difese e, dopo, confortandola con qualche parola buona; magari dicendole – e mostrandole – che non tutti nel mondo sono così cattivi e insensibili. Mettiamo il caso che la persona offesa è un nostro amico o un parente, oppure addirittura la nostra mamma (anche offendendone la sola memoria… ): stento a credere che vi sia qualcuno che rimanga insensibile a un fatto simile. Viene naturale, volendo bene a questa persona, mostrarle la nostra vicinanza, il nostro affetto; e se la cosa è particolarmente grave, dedicandole più tempo e attenzione, quasi a voler compensare in qualche modo il male ricevuto con un sovrappiù d’amore.
Ammettiamo che questa persona non sia una persona qualunque, ma la Persona (con la “p” maiuscola): Colui che sostiene l’universo e a tutto ha dato origine; Colui che gli angeli e i santi adorano eternamente acclamandolo tre volte santo; Colui che per nostro amore si è incarnato e ha subìto i più grandi tormenti per salvarci; Colui che più di tutti merita il nostro amore e la nostra eterna riconoscenza; Colui che siamo chiamati ad amare «con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze» (Deuteronomio 6,5); Colui il cui Volto ci è più caro di qualunque volto perché è il volto di Dio stesso, a noi manifestato nella persona di Gesù Cristo…
Ebbene che sentimenti sorgerebbero nel nostro cuore al vedere questo Santissimo Volto imbrattato di escrementi? Anche se tale gesto si ammantasse della scusa dell’arte (ma l’arte, quella autentica, non era legata al Bello? Dove sta la bellezza in tale gesto?), il nostro cuore di credenti in Gesù Cristo sarebbe trafitto di dolore di fronte a una così terribile scena.
Pur non dovendo assistere a un atto infame di questa portata, al solo pensiero che queste cose accadono nel mondo, se abbiamo fede, restiamo male, molto male.
Ma poi, non potendo impedire un simile fatto (e sarei tentato di dire, e lo dico, non appartenendo ad altre religioni che ricorrerebbero a ben altri gesti), che cosa possiamo fare per “riparare” a questo male? Che cosa possiamo fare per controbilanciare, per così dire, l’offesa che viene fatta a Nostro Signore Gesù Cristo?
La risposta a questa domanda, nella storia della spiritualità cristiana è molteplice, ma si potrebbe compendiare in una parola: riparazione. Anzitutto il miglior atto riparatorio nei confronti di Dio è la conversione personale, nostra.
Di fronte al male che ci aggredisce dobbiamo anzitutto rispondere con un sussulto di vita cristiana, sul piano cultuale e culturale (approfondire il Catechismo della Chiesa Cattolica, leggere qualche libro di buona apologetica, chiarire anzitutto a noi stessi alcuni aspetti più combattuti della nostra fede).
Ma, tornando all’aspetto cultuale, il miglior modo per “riparare” alle offese ricevute da Dio è proprio quello di offrire al Padre la migliore “riparazione” per i nostri peccati, cioè l’offerta di Suo Figlio Gesù Cristo sulla Croce, che si ri-presenta a noi in ogni santa Messa.
A questo scopo, vengono organizzate in vari luoghi “Messe di riparazione”.
Che cos’è una Messa di riparazione? Di per sé ogni santa Messa contiene l’aspetto riparatorio che è intrinseco al sacrificio eucaristico. Però, così come vengono celebrate Messe in occasioni particolari, belle e meno belle della vita, così anche in questo caso è giustificata una santa Messa fatta con un’intenzione speciale. È sempre la santa Messa, però con un’intenzione e con una consapevolezza diverse. Il rito è sempre lo stesso, ma il motivo con cui si è presenti a “quella” Messa, magari in “quel” luogo particolare è un altro.
Ciò che cambia è anche l’omelia del sacerdote che verterà su quel tema specifico; magari anche le letture cambiano, così come sicuramente le intenzioni nella preghiera universale, e così via.
È importante anche manifestare come Popolo di Dio, non solo a livello personale, intimo, la ferita ricevuta e la riparazione pubblica che si vuol fare in occasione di Messe di riparazione; una dimensione pubblica della fede, questa, che oggi sentiamo come urgente da ricuperare.
Quella di riparazione è poi anche una Messa in cui ci ricordiamo di pregare proprio per coloro che con i loro atti sono stati la causa di questo “moto riparatore”.
«Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (Ez 33, 11), dice la Scrittura. La conversione del peccatore è infatti la più grande riparazione che si possa e si debba desiderare. «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34): anche noi cristiani dobbiamo avere nel cuore queste parole di Cristo morente in Croce!
Fra pochi giorni, il 25 gennaio, celebreremo la Festa della Conversione di san Paolo. Se lui, da persecutore di cristiani è diventato uno dei più grandi apostoli, perché non può ripetersi anche oggi questo miracolo?
Santa Teresa di Gesù Bambino, nell’imminenza dell’esecuzione della condanna a morte di un criminale del suo tempo, pregò per quell’uomo di cui lesse nei giornali che rifiutava qualunque discorso religioso , e quell’uomo miracolosamente si convertì chiedendo di confessarsi poco prima di morire. Se la preghiera e i sacrifici di una santa hanno ottenuto da Dio questo miracolo, non lo potranno forse ottenere anche la preghiera e il sacrificio del Figlio di Dio in Croce?
Per questo è importante offrire una santa Messa di riparazione e parteciparvi.
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«In quanto sacrificio, l’Eucaristia viene anche offerta in riparazione
dei peccati dei vivi e dei defunti, e al fine di ottenere da Dio benefici
spirituali o temporali» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1414)
«Sebbene la copiosa redenzione di Cristo, con sovrabbondanza “ci condonò tutti i peccati“, tuttavia, per quella mirabile disposizione della divina Sapienza secondo la quale nel nostro corpo si deve compiere quello che manca dei patimenti di Cristo a favore del corpo di Lui, che è la Chiesa, noi possiamo, anzi dobbiamo aggiungere alle lodi e soddisfazioni “che Cristo in nome dei peccatori tributò a Dio”, anche le nostre lodi e soddisfazioni. Ma conviene sempre ricordare che tutto il valore espiatorio dipende unicamente dal cruento sacrificio di Cristo, il quale si rinnova, senza interruzione, sui nostri altari in modo incruento, poiché “una stessa è la Vittima, uno medesimo è ora l’oblatore mediante il ministero dei sacerdoti, quello stesso che si offrì sulla croce, mutata solamente la maniera dell’oblazione“. Per tale motivo con questo augusto sacrificio Eucaristico si deve congiungere l’immolazione dei ministri e degli altri fedeli, affinché anche essi si offrano quali “vittime vive, sante, gradevoli a Dio”» (Pio XI, Enciclica Miserentissimus Redemptor, 8 maggio 1928).
«Si aggiunga che la passione espiatrice di Cristo si rinnova e in certo qual modo continua nel suo corpo mistico, la Chiesa. Infatti, per servirci nuovamente delle parole di Sant’Agostino: “Cristo patì tutto ciò che doveva patire; né al numero dei patimenti nulla più manca. Dunque i patimenti sono compiuti, ma nel capo; rimanevano tuttora le sofferenze di Cristo da compiersi nel corpo”. Ciò Gesù stesso dichiarò, quando a Saulo, “spirante ancora minacce e stragi contro i discepoli”, disse: “Io sono Gesù che tu perseguiti”, chiaramente significando che le persecuzioni mosse alla Chiesa, vanno a colpire gravemente lo stesso suo Capo divino. A buon diritto, dunque, Cristo sofferente ancora nel suo corpo mistico desidera averci compagni della sua espiazione; così richiede pure la nostra unione con lui; infatti, essendo noi «il corpo di Cristo e membra congiunte», quanto soffre il capo, tanto devono con esso soffrire anche le membra» (Pio XI, ibidem)
Fonte: La Bussola Quotidiana
Libro di don Cantoni getta luce su un dibattito controverso
di Antonio Gaspari
ROMA, sabato, 21 gennaio 2012 (ZENIT.org).- Il Concilio Vaticano II, considerato a ragione un “evento epocale” per la Chiesa cattolica, è oggetto di un intenso dibattito.
A cinquanta anni dalla sua apertura ci sono persone che lo criticano aspramente, c’è chi lo critica perchè avrebbe interrotto e negato la tradizione, c’è chi lo critica perchè avrebbe impedito nuove e più radicali innovazioni, e c’è chi come il Pontefice Benedetto XVI che ha messo il Concilio Vaticano II al centro della riflessione per l’anno della Fede.
Fin dalla Sua lezione il Pontefice ha manifestato l’intenzione di “affermare con forza la decisa volontà di proseguire nell’impegno di attuazione del Concilio Vaticano II” che ha definito “uno straordinario evento ecclesiale”.
Secondo Benedetto XVI “i documenti conciliari non hanno perso di attualità”, ma anzi si rivelano “particolarmente pertinenti in rapporto alle nuove istanze della Chiesa e della presente società globalizzata”.
In questo contesto si comprende perchè la Nota con Indicazioni Pastorali per l’anno della Fede, pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, pone al centro della riflessione proprio il Concilio Vaticano II:
Per cercare di comprendere meglio i vari punti di vista, ZENIT ha intervistato don
Pietro Cantoni, autore del libro Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo, (Sugarco, Milano 2011)
Del Concilio Vaticano II sono molto note soprattutto le posizioni estreme, quelle che il pontefice Benedetto XVI ha indicato come mosse da un «progressismo sbagliato», oppure da un «anti-conciliarismo» radicale. Può illustraci le ragioni di queste due posizioni e perché secondo Lei sono entrambi sbagliate?
Cantoni: Dopo ogni grande concilio c’è sempre un periodo di crisi. È questo uno dei grandi insegnamenti che ci vengono dalla storia della Chiesa. Papa Benedetto XVI, nel famoso discorso tenuto alla curia romana il 22 dicembre 2005, che è un po’ il punto focale del mio libro, prende proprio un esempio dal “postconcilio” del primo concilio ecumenico della Chiesa cattolica, il grande concilio di Nicea del 325. Cita san Basilio che descrive la situazione creatasi come “una battaglia navale nella notte”. Una battaglia dove nessuno dunque vede dove sta l’avversario e dove – nella confusione che ne segue – ci attacca senza criterio. Qui lo sforzo del papa è quello di fare chiarezza; per rimanere nella metafora, di illuminare la battaglia nella notte in modo che gli schieramenti appaiano per quello che veramente sono, cioè appaia chiaro dove sta la verità e dove sta l’errore. Per Benedetto XVI il punto centrale è costituito dall’interpretazione dell’ultimo concilio. Da una parte c’è un’interpretazione errata, secondo cui l’ultima assise conciliare sarebbe paragonabile ad una “costituente”, cioè ad un’assemblea che ha il compito di stilare una nuova carta costituzionale. Ovviamente qui si tratterebbe della Chiesa. Detto al di fuori e al di là di ogni linguaggio “diplomatico”: si tratterebbe del tentativo di rifondare a Chiesa, evidentemente – fa notare il Papa – su altre basi rispetto a quelle poste da nostro Signore Gesù Cristo. Chi poi avrebbe mai dato a codesta costituente il mandato di rifare la costituzione? Certo nessuno ha mai detto a chiare lettere di voler fare una cosa del genere, ma tante espressioni che sono circolate in questo postconcilio e che continuano ancora a circolare conservano questo terribile, velenoso, “sapore”. Si parla e si scrive della “Chiesa del concilio”, spesso contrapposta ad una Chiesa di prima del concilio. Da più parti si è insistito su di una nuova “ecclesiologia”, anzi addirittura si è preteso che, con il concilio, sia nata veramente, per la prima volta, una vera e propria ecclesiologia. Questa operazione ha goduto di una copertura terminologica, in quanto si è insistito sul linguaggio adottato dal magistero, come linguaggio nuovo, “pastorale”, contrapposto a “dogmatico”. Nel mio libro ho raccolto una serie di pronunciamenti del magistero, ininterrotta, dalla fine del concilio fino ai nostri giorni, in cui questi errori sono denunciati e stigmatizzati. Finalmente il papa ha compiuto un passo avanti: li ha per così dire riassunti e ha aiutato a comprendere che in essi sta un problema assolutamente fondamentale per la nuova evangelizzazione. L’intenzione della Chiesa celebrando il concilio ecumenico Vaticano II non fu quello di “cambiare tutto”, di dare origine ad una nuova Chiesa, ma quello molto più modesto, ma nella sua concretezza, molto più vero e quindi influente, di realizzare una “riforma nella continuità”. Tante cose sono cambiate: prima di tutto il linguaggio. Si tratta indubbiamente di una “concilio pastorale”. Ma “pastorale” non va assolutamente inteso come contrapposto a dogmatico. Detto in altri termini: la Chiesa non ha rinunciato ad insegnare e ad insegnare con autorità.
Il Pontefice Benedetto XVI, ha più volte sottolineato che bisogna guardare al Vaticano II secondo i criteri di un “ermeneutica della continuità”.- Che cosa intende dire e perché questo punto di vista sarebbe differente da quello di “rottura”, progressista o tradizionalista?
Cantoni: La “battaglia nella notte” così illuminata, perde i caratteri di terribile confusione e rientra nei connotati, per tanti versi noti e prevedibili, di una nuovo capitolo di storia della Chiesa che – come tutti sanno – conosce sempre la contrapposizione tra verità ed errore, tra ortodossia ed eresia. Dire che quello che è successo al Vaticano II è una riforma nella continuità è fare un’affermazione per tanti versi banale, perché significa affermare che l’evento non esce dagli schemi conosciuti dalla buona teologia cattolica: cioè quelli di cambiamento dogmatico, senza che questo sia un cambiamento sostanziale, cioè una “corruzione”, una “rottura”. Il compito di chiarire in che modo e in che misura ciò sia stato possibile è compito della teologia, quando essa è quello che dovrebbe essere, cioè una riflessione sulla fede non prodotta da chi fa teologia, ma ricevuta dalla Chiesa, il soggetto che sta a monte a tutto questo processo, soggetto nei cui confronti il teologo conserva una sostanziale responsabilità.
Che cosa ha fatto di buono il Concilio Vaticano II?
Cantoni: In un momento della storia in cui pareva che la Chiesa fosse ormai relegata in un angolo, senza più nessuna energia e nessuna possibilità di influire realmente nelle dinamiche della cultura e della vita, Giovanni XXIII ha preso la veramente coraggiosa decisione di indire un concilio e di imprimere a questo concilio un indirizzo ben preciso: riannunciare il Vangelo al mondo. Cambiando se ne necessario il linguaggio, il modo di proporre il messaggio, ma conservando scrupolosamente il messaggio di sempre. Questo è il senso autentico di una parola che è risuonata su mille bocche: “aggiornamento”. Per usare una metafora: si trattava di togliere la polvere che, a causa dell’inevitabile effetto del tempo e anche dell’incuria degli uomini, si era accumulata su un tesoro e che impediva ad esso di brillare in tutta la sua forza e interezza. Si trattò di un atto coraggioso perché “spolverare”, soprattutto quando questo è fatto su materiale delicato, comporta il rischio di rompere… Di compromettere cioè l’integrità di ciò che si vuol rinnovare. Ma la necessità percepita di una “nuova evangelizzazione” premeva alle porte con una urgenza che non poteva essere trascurata. Purtroppo l’operazione provvidenziale avvenne alla vigilia di un sommovimento delle coscienze, della cultura e della vita dell’uomo, di cui facciamo ancora fatica a cogliere la portata: il famoso ’68. Ecco perché ho messo in connessione nel mio libro il discorso del dicembre 2005 con una conversazione che il papa a tenuto a Auronzo di Cadore nel luglio del 2007 dove avanza questa interpretazione della crisi che immediatamente seguì il concilio.
In che modo il beato Giovanni XXIII e Paolo VI riuscirono a superare le grandi difficoltà di quegli anni?
Cantoni: Furono anni difficili, anzi difficilissimi. È difficile dare una risposta esauriente a questa domanda, se non facendo notare l’enorme difficoltà che allora il Papato si è trovato ad affrontare. La sfida era tale da scuotere le fondamenta di tutto l’edificio della Chiesa. Pensare di spiegare tutto sulla base di qualcosa di sbagliato all’interno dei documenti del magistero conciliare, oltre che gravemente erroneo, è – direi – piuttosto ingenuo. Denuncia di non aver capito la portata e la “novità” di quella radicale crisi culturale che è stata (sarei tentato di dire che è) il ’68.
Cosa sarebbe la Chiesa, l’autorità del Pontefice e la Fede, se venissero accettate le tesi di rottura? Che cosa accadrebbe cioè se non fosse vera la tesi della continuità?
Cantoni: Credo che la risposta sia semplice. Se nel concilio – come alcuni vorrebbe dire, altri soltanto “insinuare” – ci fossero delle eresie, la conclusione sarebbe in fondo veramente semplice. Vorrebbe dire che tutti i vescovi, con il Papa in testa, nella loro qualificante maggioranza, hanno firmato un documento eretico, cioè sono diventati eretici. Prevengo subito un’obiezione – che per tanti versi è la “solita” obiezione: ma molti, forse la maggioranza, addirittura la totalità, potrebbero non essersene resi conto… Il problema è che qui quello a cui noi dobbiamo guardare non è l’intenzione soggettiva, che solo Dio conosce fino in fondo, ma quella intenzione percepibile e giudicabile oggettivamente, consegnata in un documento e un documento ufficiale di portata difficilmente sopravvalutabile. Qui, come ho scritto altrove, non ci troveremmo davanti alla medievale “Quaestio de papa haeretico” (questione del papa eretico), ma a una ben più inquietante “Quaestio de magisterio haeretico” (questione del magistero eretico).
Quali fini conta di raggiungere con la pubblicazione di questo libro?
Cantoni: Quello di gettare luce su una questione che è oscura e che molti vogliono mantenere nella sua oscurità. Gettare una luce che non è la mia, ma che è quella che viene dal magistero di chi lo Spirito Santo ha posto alla guida della Chiesa: il Papa.
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«Padre, mi benedica!». Ancora oggi non è raro sentirsi chiedere da un fedele una benedizione o richiederla per il proprio bambino o per un oggetto di devozione. Cosa significa benedire? Già dal verbo latino si può avere un’idea chiara: bene-dicere, dire bene di qualcuno o qualcosa, invocare il bene da Dio. É una lode di Dio per ottenere aiuto e protezione ed è anche una benedizione che sale dalla terra per benedire Lui che è l’Amore sommo: «Popoli, benedite il nostro Dio, fate risuonare la voce della sua lode» (Salmo 66,8). San Paolo, unisce le due benedizioni, ascendente e discendente, all’inizio della Lettera agli Efesini: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (1,3).
La benedizione non è un sacramento ma un sacramentale. Che differenza c’è? Ci viene in aiuto il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) – che il Papa raccomanda di conoscere e diffondere – il quale così recita: «La santa Madre Chiesa ha istituito i sacramentali. Questi sono segni sacri per mezzo dei quali, con una certa imitazione dei sacramenti, sono significati e, per impetrazione della Chiesa, vengono ottenuti effetti soprattutto spirituali. Per mezzo di essi gli uomini vengono disposti a ricevere l’effetto principale dei sacramenti e vengono santificate le varie circostanze della vita» (CCC 1667). Quindi, essi dispongono a ricevere la grazia – che san Tommaso diceva essere un inizio della sperata beatitudine (Summa Theologiae II-II, q.5, a.1) -, a differenza dei sacramenti che sono segni efficaci che comunicano concretamente la grazia che significano.
Inoltre, comportano sempre una preghiera, la lettura della Parola di Dio, un gesto – come ad esempio imporre la mano -, il segno di croce e l’aspersione con l’acqua benedetta. Gesù, nel Vangelo, benedice bambini (cf. Mc 10,16) e alimenti (cf. Mt 14,19) e nella Chiesa si svilupparono riti e formule di benedizione fin dal primo secolo, sia nella Liturgia che fuori di essa – accompagnate dal segno di croce -, benedizioni che si svilupparono ampiamente nel Medioevo. Difatti, il libro delle benedizioni – chiamato Benedizionale – più antico in Occidente è probabilmente del VII secolo (fonte: Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano 1949, vol. II, col. 1299). Le formule di benedizione hanno quindi soprattutto lo scopo di rendere gloria a Dio per i suoi doni, chiedere i suoi favori e sconfiggere il potere dell’avversario di Dio per eccellenza, Satana.
Tra le benedizioni troviamo quelle di persone, oggetti, luoghi, della mensa, della campagna, degli animali, dei mezzi moderni di lavoro ecc. (cf. CCC 1671). Questo a significare come la Chiesa estenda l’amore di Dio e la Sua benevolenza sopra tutta la vita dell’uomo, abbraccia tutto e tutti: come le ali dell’aquila coprono i suoi nati, così ciascuno di noi è protetto e guidato dal Signore che «spiega le sue ali» con le Sue benedizioni (cf. Dt 32,11).
In questo periodo natalizio, per il Rito ambrosiano vigente nella Diocesi di Milano, è tradizione benedire le famiglie e le case. Nel Rito romano, si benedice normalmente nel tempo pasquale o poco prima della Pasqua, in Quaresima. Come nasce questa consuetudine pasquale? Una spiegazione la possiamo cogliere dalla lettura del brano riguardante la Pasqua ebraica nel libro dell’Esodo (12,1-14). Con il sangue dell’agnello immolato per la Pasqua, gli ebrei spalmarono gli stipiti e l’architrave della porta d’ingresso delle loro case. In tal modo il Signore passò oltre le abitazioni ebraiche non permettendo all’angelo sterminatore di uccidere i primogeniti maschi, a differenza dei bambini primogeniti del popolo egiziano – che manteneva in schiavitù il popolo ebreo – che furono uccisi. Così, accogliendo il sacerdote che reca la benedizione di Dio, nella Pasqua cristiana ci si prepara alla liberazione dalla schiavitù del peccato e della morte grazie al sacrificio del vero Agnello, Gesù Cristo, che con il suo sangue sparso sulla croce segna le nostre case portando la pace e la benedizione attraverso il ministro della Chiesa. La Pasqua di Cristo, anche attraverso l’acqua nuova benedetta nella solenne Veglia del Sabato santo, entra nelle nostre case, rinnova la nostra vita come nel Battesimo, ci purifica e ci rende nuove creature rivestendoci di Cristo (cf. Gal 3,27).
Diversa è invece la spiegazione che danno alcuni storici per la tradizionale benedizione natalizia ambrosiana. Sembra che durante la peste del 1576 san Carlo Borromeo visitasse le case degli appestati per portare i conforti religiosi e, a causa della quarantena, i milanesi dovevano restare chiusi in casa durante quell’inverno freddo che già scoraggiava a uscire. Da questo gesto di generosità del santo Vescovo sembra derivi la consuetudine di visitare le case nel tempo invernale-natalizio.
Oppure, una spiegazione più teologica e spirituale, potrebbe far risalire la benedizione al fatto che nell’Avvento ambrosiano, che consta di sei Domeniche invece che quattro come nel Rito romano, si legge il Vangelo dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme (seconda Domenica di Avvento; prima della riforma liturgica era la quarta). Questo episodio, normalmente inserito nella Domenica delle Palme per la sua collocazione storica-cronologica, significa l’incontro definitivo di Gesù con il suo popolo, come un’immagine del ritorno di Cristo alla fine dei tempi. Ma significa anche l’incontro di Gesù con ciascuno di noi, nella nostra vita, l’«ingresso» di Cristo nella nostra quotidianità, nelle nostre case, come avvenne per il pubblicano Zaccheo: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua» (Lc 19,5).
Ma forse, più semplicemente, questo Bambino che nasce a Natale, il Verbo di Dio fatto Uomo, rifiutato a Betlemme e dal mondo attuale, deve trovare spazio nel nostro intimo, nelle nostre case, e la benedizione natalizia vuole ricordarci che se non apriamo la porta del nostro cuore non potremo essere veramente in comunione con Dio. «C’è soprattutto un aspetto che è stato evidenziato anche dal Santo Padre Benedetto XVI nell’udienza di mercoledì 21 dicembre: “L’evento di Betlemme deve essere considerato alla luce del Mistero Pasquale: l’uno e l’altro sono parte dell’unica opera redentrice di Cristo. L’Incarnazione e la nascita di Gesù ci invitano già ad indirizzare lo sguardo verso la sua morte e la sua risurrezione: Natale e Pasqua sono entrambe feste della redenzione”. Sembra proprio che le consuetudini della benedizione delle famiglie nei due Riti, Ambrosiano e Romano, vogliano sottolineare questi due misteri della vita di Gesù, e che la tradizione milanese orienti verso quella romana».
Certamente, qualunque sia l’origine storica di questo gesto, vi è sotteso un significato importante: Gesù, attraverso la sua Chiesa, viene a visitarci e a portarci la gioia e la pace che solo Lui può donare. Non la falsa pace del mondo o quella contraffatta dei pacifisti nostrani stile bandiere arcobaleno. Gesù, infatti, dice così nel Vangelo di Luca: «In qualunque casa entriate, prima dite Pace a questa casa» (Lc 10, 5), ed entrando nel cenacolo a porte chiuse la sera della resurrezione esclama: «Pace a voi!» (Gv 20,19). La sollecitudine e la carità pastorale del sacerdote devono condurlo, quindi, a non rinunciare facilmente a questa occasione annuale di evangelizzazione e di conoscenza personale di tutti i suoi parrocchiani e delle loro famiglie.
Riportiamo la bella preghiera di benedizione del Rito romano nel tempo pasquale che, meglio di ogni cosa, riassume il significato profondo della benedizione delle famiglie: «Benedetto sei tu, Signore, che nella Pasqua dell’esodo hai preservato incolumi le case del tuo popolo asperse con il sangue dell’agnello. Nella Pasqua della nuova alleanza ci hai donato il Cristo tuo Figlio, crocifisso e risorto, come vero Agnello immolato per noi, per liberarci dal maligno e colmarci del tuo Spirito. Benedici questa famiglia e questa casa, e allieta tutti i suoi membri con l’esperienza viva del tuo amore».
Fonte: La Bussola Quotidiana
di Francesco Pappalardo
1. La formazione spirituale
Secondo dei diciotto figli di Jean-Baptiste (1647-1716), avvocato, e di Jeanne Robert de la Vizeule (1649-1718), Luigi Grignion nasce il 31 gennaio 1673 a Montfort-la-Cane, oggi Montfort-sur-Meu, in Bretagna, nella Francia nordoccidentale. La sua vita, breve secondo i normali criteri di valutazione — morirà a quarantatré anni —, s’iscrive quasi perfettamente entro i limiti cronologici (1680-1715) del periodo trattato dallo storico Paul Hazard (1878-1944) nella sua opera sulla crisi della coscienza europea, cioè l’epoca dei razionalisti e dei libertini, del deismo e del giansenismo, dell’attacco contro le credenze tradizionali, soprattutto in Francia. L’aver intuito l’esistenza di un’unità di fondo di queste correnti e tendenze è il grande merito di Montfort, che si dedicherà alla riconquista delle anime con ardente carità missionaria.
Egli riceve la prima educazione in una famiglia profondamente cristiana e manifesta molto presto attenzione alla vita interiore, vocazione all’apostolato e una tenera devozione alla Santa Vergine, espressa anche con l’aggiunta del nome di Maria a quello di Luigi in occasione della Cresima. Compie quindi gli studi umanistici e filosofici nel collegio San Tommaso Becket di Rennes, tenuto dai padri gesuiti, dove stringe amicizia con il futuro canonico Jean-Baptiste Blain (1674-1751), che ha lasciato una preziosa testimonianza di prima mano sulla sua vita, e con Claude-François Poullart des Places (1679-1709), più tardi fondatore della Congregazione dello Spirito Santo, e matura la vocazione sacerdotale.
Nell’autunno del 1692 si trasferisce a Parigi per studiare teologia alla Sorbona ed entra, grazie a una borsa di studio, nel seminario di Saint-Sulpice, vivaio del clero di Francia, distinguendosi per il rigore ascetico e per i gesti di carità, e alimentandosi alla grande scuola spirituale francese del secolo XVII, il cui inizio è fatto risalire al card. Pierre de Bérulle (1575-1629), principale artefice della Riforma cattolica in Francia. Il 5 giugno 1700, a ventisette anni, riceve l’ordinazione sacerdotale e comincia a dedicarsi al riscatto spirituale del popolo, rianimandone la fede e difendendone la pietà contro gli attacchi degli innovatori.
Nel novembre del 1701, nominato cappellano dell’ospedale di Poitiers dal vescovo diocesano, mons. Claude de La Poype de Vertrieu (1655-1732), si preoccupa di porre ordine, spirituale e materiale, in quella “povera Babilonia”, stimolando riforme e dando esempi di grande abnegazione. In città conosce Marie-Louise Trichet (1684-1759), la futura beata suor Maria Luisa di Gesù, figlia del procuratore generale, con la quale fonderà le Figlie della Carità, che si dedicheranno all’istruzione dei fanciulli e all’assistenza negli ospedali. Tuttavia, un uragano furioso — scatenato dagli scettici e dai giansenisti, che mal ne sopportavano lo zelo missionario, la purezza morale e la profonda devozione mariana — si leva contro la sua predicazione fin dall’inizio. Le resistenze e le ostilità sono tali che dopo quattro anni deve lasciare l’incarico, nonostante l’affetto e la gratitudine dei malati, dimostrati anche in modo clamoroso.
Si trattiene a Poitiers ancora un anno, quindi, provando il desiderio di dedicarsi alla salvezza degl’infedeli, compie un pellegrinaggio a Roma, a piedi, per consigliarsi con il Vicario di Cristo. Papa Clemente XI (1700-1721), ricevendolo in udienza il 6 giugno 1706, lo dissuade da quel proposito, gli conferisce il titolo di Missionario Apostolico e gl’ingiunge di riprendere l’apostolato in Francia.
2. L’attività missionaria
Poiché la diocesi di Poitiers continua a essergli preclusa, Montfort si dedica alla predicazione nella nativa Bretagna e in Vandea, proseguendo la tradizione delle missioni al popolo, espressione del movimento missionario sorto agli inizi del secolo XVII e realizzato da personalità eminenti come san Vincenzo de’ Paoli (1581-1660), san Giovanni Eudes (1601-1680) e il gesuita beato Giuliano Maunoir (1606-1683).
Luigi Maria Grignion è l’ultimo di questi grandi missionari e, sebbene i suoi metodi innovassero solo aspetti secondari, immette nella loro applicazione un dinamismo creativo e un ardore apostolico eccezionali. Le sue missioni sono caratterizzate dalla predicazione del catechismo e da grandi manifestazioni pubbliche di culto, soprattutto da solenni processioni, che culminano nella rinnovazione da parte dei partecipanti delle promesse battesimali e nell’innalzamento, in luogo eminente, della croce della missione. Egli dà grande importanza a queste pratiche, sia per rendere visibili le principali verità della fede e per radicare gli effetti della sua ardente predicazione, sia per prendere una posizione chiara nei confronti degli innovatori, che attaccavano proprio queste manifestazioni in nome e sotto il pretesto di una religiosità più intima e più austera. Una parte di rilievo nella sua predicazione hanno anche i canti popolari, da lui composti in gran numero e utilizzati non solo per trasmettere il messaggio cristiano e per educare le menti, ma anche per scaldare i cuori dei semplici e per scuotere quelli più induriti.
Allo scopo di perpetuare la sua opera Montfort fonda la Compagnia di Maria, una congregazione di sacerdoti, detti monfortani, votati unicamente alle missioni al popolo. Nel 1708, a Nantes, fonda anche l’associazione laicale degli Amici della Croce, alla quale indirizzerà sei anni dopo la Lettera agli Amici della Croce — l’unico scritto dato alle stampe quando era ancora in vita —, in cui condensa il suo pensiero sul significato della Croce nella vita cristiana. Nella Croce egli vede la fonte di una superiore sapienza, la sapienza cristiana, che si è incarnata ed e stata crocifissa, che insegna all’uomo a preporre la fede alla ragione orgogliosa, la retta ragione ai sensi ribelli, la morale alla volontà sregolata, l’eterno al contingente e al transitorio. Analoghe considerazioni aveva svolto nel suo primo scritto, L’amore dell’eterna Sapienza, composto a Parigi fra la fine del 1703 e l’inizio del 1704, in cui oppone la Saggezza vera e profonda, quella consistente nell’unirsi a Cristo e alla sua Croce, alla saggezza superficiale e salottiera che cominciava a dominare la cultura francese laica e, in parte, quella cattolica.
Il successo delle sue iniziative è grande, ma grandi sono anche le ostilità incontrate e le prove affrontate. Così, per esempio, il vescovo di Saint-Malo, mons. Vincenzo Francesco Desmarets (1657-1739), che simpatizza per i giansenisti, in un primo tempo gli proibisce ogni predicazione, quindi, ritirato questo drastico ordine, gli limita comunque la possibilità d’azione. Ancor più dolorosa è la prova che lo aspetta nella diocesi di Nantes, il cui vescovo, mons. Egidio de Beauveau (1653-1717), nega la benedizione al Calvario di Pontchâteau, costruito in quindici mesi grazie al concorso di una moltitudine di persone di ogni sesso, età e condizione sociale, e distrutto poco dopo per ordine di re Luigi XIV di Borbone (1638-1715), sobillato da nemici di Montfort. Il Calvario, ricostruito anni dopo, sarà distrutto una seconda volta durante la Rivoluzione francese; oggi, nuovamente ricostruito, è un centro di pietà e una meta di pellegrinaggi.
Finalmente, quasi a divina ricompensa della carità e dell’umiltà dimostrate, Luigi Maria Grignion viene chiamato nelle diocesi di Luçon e di La Rochelle dai rispettivi vescovi, mons. Jean-François de Valdèries de Lescure (1644-1723) e mons. Etienne de Champflour (1647-1724), ferventi antigiansenisti, e vi predica durante gli ultimi cinque anni di vita. In quel periodo compone Il segreto ammirabile del Santo Rosario per ribattere alle obiezioni formulate contro tale forma di devozione, per spiegare i sacri misteri e per diffonderne ulteriormente la pratica.
Consumato dalle fatiche e dalle sofferenze, nonostante una tempra straordinariamente resistente, muore il 28 aprile 1716, al suo posto di combattimento, come un autentico soldato di Cristo, predicando una missione a Saint-Laurent-sur-Sèvre.
3. San Luigi Maria attraverso i secoli
La causa di beatificazione di Luigi Maria Grignion viene introdotta nel 1838, Papa Pio IX (1846-1878) ne proclama l’eroicità delle virtù il 29 settembre 1869, Papa Leone XIII (1878-1903) lo proclama beato il 22 gennaio 1888 e Papa Pio XII (1939-1958) lo eleva alla gloria degli altari il 20 luglio 1947.
Il più alto riconoscimento della dottrina spirituale di Grignion da Montfort, che molti vorrebbero fosse dichiarato Dottore della Chiesa, è venuto da Papa Giovanni Paolo II il quale, oltre a trarre il motto del suo pontificato, Totus tuus, proprio dagli scritti del santo, nell’enciclica Redemptoris Mater, del 25 marzo 1987, lo indica come testimone e come guida della spiritualità mariana. Inoltre, il 20 luglio 1996 ha stabilito che il suo nome fosse iscritto nel Calendario generale della Chiesa, proponendone quindi la venerazione a tutti i fedeli.
Tuttavia, per oltre un secolo dopo la morte, l’influenza del “buon padre di Montfort”, come il santo era chiamato comunemente dai fedeli, si manifesta soprattutto grazie alle sue fondazioni, fra cui anche quella dei Fratelli dell’Istruzione cristiana di San Gabriele, riorganizzata dal sacerdote Gabriel Deshayes (1767-1841). Queste istituzioni, inizialmente poco consistenti e oggetto di violenti attacchi da parte di giansenisti e di razionalisti nonché di persecuzioni durante la Rivoluzione francese e a opera della massonica Terza Repubblica francese, avranno nel tempo un grande sviluppo, segno del fecondo lascito spirituale del loro fondatore.
In particolare, l’opera missionaria di Montfort e dei suoi successori porrà le basi spirituali della resistenza contro-rivoluzionaria delle genti della Bretagna e della Vandea, cioè delle regioni nelle quali egli poté svolgere liberamente il suo apostolato. I sacerdoti della Compagnia furono le guide spirituali di quei coraggiosi improvvisatisi soldati per Dio, per la Francia e per il re, e i canti composti da Luigi Maria Grignion si contrapposero a quelli rivoluzionari.
Il ritrovamento fortuito, nel 1842, del manoscritto del Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, sepolto per oltre un secolo “nel silenzio d’un cofano”, secondo la profetica visione del suo autore, dà inizio alla diffusione delle opere e del pensiero monfortano in tutto il mondo. Nel Trattato Montfort raccomanda che i devoti si consacrino interamente a Gesù attraverso Maria nelle forme di un’amorosa schiavitù, cioè di una dedizione di mirabile radicalità, comprendente non solo i beni materiali dell’uomo ma anche il merito delle sue buone opere e preghiere. In cambio di questa consacrazione la Vergine agisce nell’interiorità della persona in modo meraviglioso, istituendo con lei un’unione ineffabile. L’opera, insieme a Il segreto di Maria — stampato integralmente soltanto nel 1898 ma pubblicato ormai in trecentocinquanta edizioni e in venticinque lingue — e con Le glorie di Maria, di sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), rappresenta uno dei libri mariani più conosciuti e amati degli ultimi secoli, e fra quelli che più hanno alimentato la pietà cristiana.
Inoltre, gli scritti monfortani forniscono alla scuola di pensiero e d’azione della Contro-Rivoluzione cattolica del secolo XX, di cui è figura eminente il pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), una teologia della storia in cui inserire l’ascesi sociale, cioè l’apostolato mirante alla restaurazione di una civiltà cristiana. Questa scuola condivide con il santo missionario della Vandea la speranza, alimentata dalla promessa di Fatima — “Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà” —, di una grande conversione e di un tempo storico di trionfo della Chiesa cattolica. La “vera devozione” prepara gli eroi che schiacceranno la Rivoluzione, i santi missionari dei “tempi ultimi” — il cui profilo morale è tracciato da Luigi Maria Grignion nella famosa Preghiera infuocata — che lotteranno per la realizzazione del regno di Maria.
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ATTO DI CONSACRAZIONE A MARIA di San Luigi Maria Grignion da Montfort
O Sapienza eterna ed incarnata, o amabilissimo e adorabilissimo Gesù, vero Dio e vero Uomo, Figlio unico dell’eterno Padre e di Maria sempre Vergine, io ti adoro profondamente sia nel seno e negli splendori del Padre, durante l’eternità, sia nel seno verginale di Maria, tua degnissima Madre, nel tempo dell’Incarnazione.
Ti ringrazio perché ti sei annientato prendendo la forma di uno schiavo, per liberarmi dalla crudele schiavitù del demonio. Ti lodo e ti glorifico per aver voluto sottometterti a Maria, tua santa Madre, in ogni cosa, al fine di rendermi per mezzo di lei tuo schiavo fedele.
Ma, ingrato ed infedele che sono, non ho mantenuto i voti e le promesse che ti ho fatto così solennemente nel santo Battesimo e non ho adempiuto ai miei obblighi. Non merito di essere chiamato tuo figlio e tuo schiavo. E siccome non c’è nulla in me che non meriti le tue ripulse e il tuo sdegno, non oso più avvicinarmi da solo alla tua santissima e augustissima Maestà.
Ricorrerò all’intercessione della tua santa Madre, che mi hai assegnata come mediatrice presso di te: per mezzo suo spero di ottenere da te la contrizione e il perdono dei miei peccati, l’acquisto e la conservazione della sapienza.
Ti saluto, dunque, o Maria Immacolata, tabernacolo vivente della Divinità, in cui nascosta la Sapienza eterna vuol essere adorata dagli angeli e dagli uomini. Io ti saluto, Regina del cielo e della terra, al cui impero è sottomesso ogni suddito di Dio. Ti saluto, rifugio sicuro dei peccatori, la cui misericordia non mancò mai a nessuno. Esaudisci i desideri che ho della divina Sapienza e ricevi i voti e le offerte che la mia pochezza ti presenta.
Io (nome), peccatore infedele, rinnovo e riaffermo nelle tue mani i voti del mio Battesimo: rinunzio per sempre a Satana, alle sue vanità e alle sue opere, e mi do interamente a Gesù Cristo, Sapienza incarnata, per portare dietro a Lui la mia croce, tutti i giorni della mia vita.
E affinché gli sia più fedele di quanto lo fui fin qui, io ti eleggo oggi, o Maria, alla presenza di tutta la corte celeste, per mia Madre e Padrona.
Mi abbandono e consacro, come schiavo, il mio corpo e la mia anima, i miei beni interiori ed esteriori, e il valore stesso delle mie azioni buone, passate, presenti e future, lasciandoti intero e pieno diritto di disporre di me e di quanto mi appartiene, senza eccezione, per la maggior gloria di Dio nel tempo e nell’eternità.
Ricevi, o Vergine benigna, questa piccola offerta della mia schiavitù, in onore e in unione della sottomissione che la Sapienza eterna si compiacque di avere alla tua maternità, in omaggio al potere che entrambi avete su questo miserabile peccatore, in ringraziamento dei privilegi di cui ti favorì la Santissima Trinità.
Dichiaro che d’ora innanzi io voglio, quale tuo vero schiavo, cercare il tuo onore e la tua obbedienza in ogni cosa.
O Madre ammirabile, presentami al tuo caro Figlio, in qualità d’eterno schiavo, affinché avendomi riscattato per mezzo tuo, per mezzo tuo mi riceva.
O Madre di Misericordia, concedimi la grazia di ottenere la vera sapienza di Dio e di mettermi nel numero di quelli che tu ami, ammaestri, guidi, nutri e proteggi, come tuoi figli e tuoi schiavi.
O Vergine fedele, rendimi in tutte le cose un così perfetto discepolo, imitatore e schiavo della Sapienza incarnata, Gesù Cristo, tuo Figlio, affinché io giunga, per tua intercessione e a tuo esempio, alla pienezza della Sua età sulla terra e della Sua gloria in Cielo.
Amen.
Per una fraternità sacerdotale come la nostra, ma questo vale per ogni comunità religiosa, è cosa importante l’unità attorno al carisma, la comprensione profonda di ciò che si è. Il carisma, che è un dono dello Spirito per il bene di una comunità secondo l’insegnamento di s.Paolo (cf. 1 Cor 12-13), per l’Opus Mariae può essere descritto come un diamante a più facce dove ogni faccia ne riflette un aspetto. Tutto però è profondamente unito nel diamante stesso che è uno solo. Quali sono le facce di questo diamante?
Anzitutto, ciò per cui siamo nati e che ci motiva profondamente è la Nuova Evangelizzazione a cui prima il santo padre Giovanni Paolo II e poi Benedetto XVI ci richiamano continuamente. La Chiesa o è missionaria o non è. Questo per noi significa annunciare Gesù Cristo, la Sua Verità, il Suo Vangelo, in unione con la Chiesa Cattolica, il Papa e i pastori. Significa predicare integralmente la dottrina, con carità ma senza sconti; significa obbedienza e fedeltà al depositum fidei che abbiamo ricevuto dalle generazioni cristiane che ci hanno preceduto, spesso anche versando sangue di martiri.
Ma questo scopo che ci unisce e dà ragione al nostro esistere ha una connotazione mariana. La nostra opera è chiamata Opera di Maria Madre della Chiesa: èMaria la nostra Madre, è Maria la protagonista di questa nuova evangelizzazione.
Così come con l’Incarnazione del Verbo in Maria, arrivò a pienezza la storia della salvezza, così ogni inizio, ogni cosa che comincia deve avere Maria come protagonista. È Lei l’unità profonda delle facce del diamante. L’aspetto mariano per noi è fondamentale. Ciascuno di noi ha sperimentato la bellezza della maternità del Cuore immacolato di Maria nella sua vita e questa esperienza essenziale la vogliamo comunicare. Papa Giovanni Paolo II ha vissuto la sua vita sacerdotale, episcopale e petrina secondo questo Cuore.
Altro aspetto del carisma sono gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Lojola. È difficile in poche parole descriverne la bellezza: sono un itinerario in interiore homine per cercare e trovare Dio e imparare a stare con Lui. Che cosa c’è di più bello? Noi li abbiamo ricevuti e li guidiamo, per chi vuol fare questa esperienza, secondo lo schema di cinque giorni nel silenzio e nella preghiera.
La Liturgia è un’altra faccia fondamentale del diamante. Con essa si respira il divino sulla terra, si tocca il cielo. Lo splendore dell’antica liturgia latina, da noi ancora celebrata, insieme al rito promulgato dopo il concilio Vaticano II sono un unico invito all’unione profonda con Dio attraverso Gesù Cristo nello Spirito Santo che la Liturgia ogni giorno ci fa vivere e gustare. Il sacrificio di Cristo offerto al Padre dalla Chiesa, è l’atto più importante della storia e grazie alla Liturgia noi possiamo comunicare ed essere presenti a tale evento. Nei sacramenti, e in particolare nell’Eucaristia, c’è Cristo che si comunica a noi. La Liturgia, celebrata e vissuta, è per noi un aspetto essenziale.
La formazione. Significa prepararsi adeguatamente, in campo teologico e spirituale, per essere all’altezza delle sfide di un mondo relativista che attacca la Chiesa e sopporta solo verità relative e non impegnative che camminano l’una accanto all’altra come sulla passerella di una sfilata di moda. Ma noi non siamo relativisti. Rifiutiamo la “dittatura del relativismo” (Benedetto XVI, 2005). Per noi esiste la Verità: è Gesù Cristo, Figlio di Dio, incarnato morto e risorto per noi e per la salvezza del mondo. Questa Verità non è paragonabile con nessun’altra. Formarsi allora è un dovere: lo studio, l’esperienza, le conoscenze acquisite servono per crescere e far crescere gli altri. È un atto d’amore, anzitutto per i seminaristi dell’Opus e in futuro per i sacerdoti della comunità e non solo. Ecco perché alcuni di noi sono al servizio della formazione, si formano per servire e formare gli altri.
La Sacra Scrittura: la preghiera con la parola di Dio e la vita in essa cambiano la mentalità e i criteri di giudizio. Si cercherà allora, con la preghiera del cuore, ciò che Dio vuole in quella particolare situazione e ciò che Dio dice a me in quel momento. Le parole umane lasceranno lo spazio a quelle divine.
La pastorale: il nostro ministero viene esercitato principalmente nelle parrocchie a noi affidate che sono terreno di evangelizzazione quotidiana e di relazione con la concretezza delle varie situazioni umane. Sono un dono del Signore, così come tutte la facce di questo diamante che, per l’opera della grazia di Dio e l’intercessione di Maria e non per le nostre forze, poniamo al servizio della Chiesa.
Fonte: Periodico dell’Opus Mariæ Matris Ecclesiæ Anno XI n° 2, Luglio 2006