Pisa, 24 febbraio 1946 – 11 febbraio 2004
Scompare la figura di un illustre medioevista, cattolico impegnato e perciò ignorato dal mondo accademico, segnato dalla Croce.
Il professor Marco Tangheroni, medioevista di pregio dell’Università di Pisa, è deceduto nel pomeriggio di mercoledì 11 febbraio. Le sue condizioni di salute erano precarie da lungo tempo, ma negli ultimi giorni si erano aggravate in maniera che oggi sappiamo irreversibile. Eppure, con quell’atteggiamento tipicamente umano che mai vorremmo divenisse però troppo e solo umano, Tangheroni sembrava destinato a non andarsene mai.
È paradossalmente più facile scrivere in morte di quegli spiriti grandi e lontani che ammiriamo, ma che stanno là, sulle copertine dei libri o nelle accademie. La distanza, che non diminuisce il rispetto, aiuta, protegge. Pensare, invece, in questi frangenti, di porre mano alla penna per parlare di una persona vicina, che si è conosciuta, frequentata, amata e stimata, una persona con cui si è pranzato e riso, discusso e militato, e da cui soprattutto si è molto imparato, imbarazza, quasi paralizza. Ci si sente – ed è proprio il caso del sottoscritto – come si sentivano nei confronti della Gente Alta quei piccoli hobbit creati dal genio letterario di un autore che Tangheroni apprezzava profondamente: sovrastati, superati e quindi “intimoriti”.
La prima cosa che ho imparato da Marco Tangheroni mi è rimasta fissa nel cuore; e, proprio perché fu la prima, resta la più immediata, la più difficile da scordare. Erano i tempi in cui muovevo i primi passi in un mondo più grande (ma ogni giorno si muovono primi passi in mondi più grandi, sempre più grandi…) accorgendomi non tanto dell’esistenza di “maestri” (mai termine è stato più abusato…), quanto del fatto che nell’esistenza uno di padri ne ha molti. Ovvero scopre di averne molti: insospettati, “strani”, ignorati o scordati per anni, putativi e adottivi, ma sempre fondamentali. Marco Tangheroni, storico attento, usava dire che la storia si fa con i “se” e con i “ma”.
Oggi va di moda chiamarla “storia parallela” (sottobranca di quella che si definisce ucronia), ma per Tangheroni era il modo di sottolineare l’imponderabilità del fattore umano, ossia la grandezza della libertà della persona che nessun riduzionismo deterministico può cancellare. Era il suo modo di fare storia in maniera attenta al suo soggetto principe, l’uomo, senza sacrificarlo agli umanesimi senz’anima. Era il suo modo di raccontare la vicenda umana (l’uomo è l’unico essere creato che sappia dare valore al tempo e quindi fare storia) contro ogni ideologia.
Nato a Pisa il 24 febbraio 1946, in questa stessa città Tangheroni studia per poi laurearsi all’Università di Cagliari con una tesi su Gli Alliata. Una famiglia pisana del Medioevo, relatore il professor Alberto Boscolo (1920-1988). Docente nelle università di Cagliari, di Barcellona, di Sassari e di Pisa, dove è stato professore ordinario di Storia Medievale e direttore del Dipartimento di Medievistica fino alla morte pochi giorni fa, nei suoi studi ha toccato i più diversi aspetti della realtà medioevale, da quelli economici a quelli religiosi, indirizzandosi soprattutto all’area mediterranea. Autore di diversi volumi sulla storia di Pisa, della Toscana e della Sardegna, oltre a un centinaio di articoli scientifici su riviste italiane e straniere, ha pubblicato, fra l’altro, Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel trecento (Pacini, Pisa 1973; n. ed. Plus, Pisa 2002); La città dell’argento. Iglesias dalle origini alla fine del Medioevo (Liguori, Napoli 1985) e Medioevo Tirrenico (Pacini, Pisa 1992). La sua ricerca ha poi trovato espressione compiuta nell’opera Commercio e navigazione nel Medioevo (Laterza, Roma-Bari 1996). Collaboratore dei Il Messaggero Veneto, Avvenire, Secolo d’Italia, il Giornale e L’Unione Sarda, nonché alle riviste Cristianità, Jesus, Storia e Dossier e Medioevo, ha curato l’edizione italiana di opere di grande valore storico, fra cui il volume di Jacques Heers, La città del Medioevo (trad. it., Jaca Book, Milano 1995) e ha collaborato alla redazione del quinto volume di The New Cambridge Medieval History, dedicato al periodo compreso fra il 1189 e il 1300, curato da David Abulafia e pubblicato nel 1999 dalla Cambridge University Press.
Militante dell’associazione civico-culturale Alleanza Cattolica dal 1970, ne è stato socio fondatore dalla sua costituzione giuridica nel 1998, svolgendo un’intensa attività di conferenziere, sia su temi specificamente storici, sia su temi connessi alla dottrina sociale della Chiesa e all’attualità politica.
Tangheroni, infatti, era uno specialista del Medioevo, ma i suoi scritti e i suoi interventi pubblici – dedicati per esempio alla rivoluzione cosiddetta francese o alla storiografia nazionalista di Gioacchino Volpe – brillano ancora oggi per lucidità e per sapidità. Alla Fondazione Volpe, del resto, Tangheroni legò a suo tempo il proprio nome, nel tentativo, in anni oramai lontani e molto diversi da quelli attuali, di offrire un’alternativa culturale credibile a un Paese, il nostro, che, fra relativismo e catto-comunismo, sembrava aver perso la bussola.
Fu proprio per i tipi di Giovanni Volpe, infatti, che Tangheroni promosse e curò personalmente le edizioni italiane di due opere straordinarie, sia per i loro meriti intrinseci, sia per il carattere dirompente che la loro pubblicazione ebbe in un clima assolutamente ostile: Ritorno al reale. Nuove Diagnosi di Gustave Thibon nel 1972 e Luce del medioevo di Régine Pernoud nel 1978. Due opere provenienti dalla Francia e assolutamente “controcorrente”, che Tangheroni riuscì a far portare in lingua italiana dall’editore Volpe su indicazione di Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica. Nella prima, Gustave Thibon, un vignaiolo autodidatta del Midi francese (colui che, tra l’altro, salvò Simon Weil dalla persecuzione antiebraica) riempiva pagina dopo pagina di aforismi e di pensieri implicitamente alla scuola della filosofia che oggi – dopo gl’importanti studi svolti da monsignor Antonio Livi – definiremmo del “senso comune”, ottenendo così la stima e il rispetto (anche per le sua capacità di arguzia filosofica, per esempio nei riguardi della speculazione tomista) di Jacques Maritain, di Gabriel Marcel e di Marcel de Corte (quest’ultimo amico personale e maestro, questa volta sì, di Tangheroni stesso). La traduzione in lingua italiana di Ritorno al reale venne pubblicata con questa dedica thiboniana autografa: “Ai giovani amici pisani che hanno voluto l’edizione italiana di questo libro, all’editore Giovanni Volpe che lo ha pubblicato, con viva amicizia e gratitudine”. I “giovani amici pisani” erano il nucleo locale di Alleanza Cattolica, “capitanato” da Marco Tangheroni.
Nella seconda, Régine Pérnoud – una storica ignorata dalla “cultura ufficiale, forse solo perché rea di dire la verità, e di documentarla, sull’epoca più bistratta di tutta la storia occidentale – compila una sorta di manualetto controcorrente rispetto alla cattiva vulgata che circola a proposito della Cristianità romano-germanica, spregiativamente, illuministicamente detta “Medioevo”.
Tangheroni descriveva la Pernoud (tra l’altro frequentatrice dello stesso padre spirituale, il domenicano Joseph-Marie Perrin, che aveva messo in contatto Thibon e la Weil) come una specialista sui generis solamente perché… svolgeva appieno il mestiere dello storico. Non senza qualche ragione, Umberto Eco – che Tangheroni attaccò senza mezzi termini per quel suo Il nome della rosa, che del cosiddetto “Medioevo” offre un’immagine bugiarda – ha scritto che tutti i libri sono in realtà libri di libri, in questo imitando Jorge Louis Borges. Eppure per uno storico non dovrebbe essere così. Tangheroni sottolineava che la Pernoud non si limitò a compilare le proprie opere come centoni delle opere di altri, i quali a loro volta usano libri di altri storici, e così via non tanto all’infinito quanto in un cerchio eternamente autoreferenziale. La Pernoud si differenziava da molti suoi colleghi – soprattutto francesi – più noti e coccolati dai media e dalla “cultura ufficiale” perché restava e sempre partiva dai documenti, dalle biblioteche, dai fondi di archivio. Sembra un assurdo, ma in realtà pochi lo fanno.
Ebbene, Tangheroni era come la Pernoud. Chi fosse chiamato a elencare i grandi storici contemporanei della nostra Italia, forse si scorderebbe di ricordare il medioevista pisano: e questo, ancora una volta paradossalmente, proprio perché, lontano dalle luci della ribalta e dalla smania per i media che travolge anche i professionisti in tesi più integerrimi, Tangheroni ha svolto davvero il lavoro dello storico. Forse ce ne si renderà conto solo in futuro, in un mondo diverso da quello attuale.
Ma, lungi dall’essere un topo esclusivamente di biblioteca, il professor Marco Tangheroni fu animato anche dalla passione per le sorti civili e politiche di questo Paese, e alla bisogna non esitò mai a schierarsi apertamente. Dire che non lo fece a sinistra sarebbe un eufemismo, addirittura un understatement. Cattolico integrale, sapeva bene che la vittoria non è di questo mondo e tantomeno il paradiso: sapeva però altrettanto bene quanto sia importante lasciare da questa parte del Cielo un poco di ordine in più affinché le persone possano essere aiutate a non smarrirsi.
Diceva Thibon: “Porto in me dei morti più viventi che i vivi. Il mio più grande desiderio è quello di ritrovarli”. Ora Marco Tangheroni è un amico in più Là dove sul serio conta. Pax tibi Marce.
Autore: Marco Respinti
di don Giovanni Poggiali
Ricordo la morte prematura, nel 1989 a 36 anni, di un sacerdote della mia parrocchia a Milano, Don Giorgio Ciani, che così scrisse nel suo testamento già vergato nel 1983: “Sono contento di vivere questa “fuggevole esistenza”; sono contento di essere prete; sono contento di essere prete, qui adesso!“. La testimonianza di questo buon prete lombardo, riecheggia le parole lapidarie di Sant’Ambrogio Vescovo di Milano (340-397): “Cristo è tutto per noi“, che ci ricordano il fondamento della nostra speranza e l’elemento originario per comprendere in profondità il nostro sacerdozio: apparteniamo a Colui che è la Via, la Verità e la Vita (cf. Gv 14,6), a Colui “che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,6), a Colui che ha versato il proprio sangue e non sangue di capri e di vitelli per strapparci dalla morte e conquistarci una redenzione eterna (cf Eb 9,12), per farci partecipi della sua natura divina (cf 2 Pt 1,4).
Servizio alla gioia
E’ la bellezza straordinaria di Gesù, “autore e perfezionatore della fede” (Eb 12,2), che vogliamo testimoniare ed annunciare con la nostra vita sacerdotale ed il nostro servizio alla Chiesa e al mondo. Questo servizio, come ribadito recentemente da Papa Benedetto XVI, è un servizio alla gioia (cf 1 Cor 1,24): “La missione affidata ai sacerdoti è veramente un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che brama irrompere nel mondo” (Benedetto XVI, Santa Messa del 18 aprile 2010, Floriana – Malta).
Scopo della vocazione
Nell’Anno Sacerdotale, è importante ricordare quale è lo scopo della nostra vocazione, per non scoraggiarci: è la santità, la perfezione dell’amore, una vita donata e offerta per Cristo e i fratelli. La gran parte dei sacerdoti desidera questo, è giusto ribadirlo. Ciò può sembrare difficile, irraggiungibile, per alcuni forse desueto, ma “l’amore di Cristo ci spinge” (2 Cor 5,14) a offrire noi stessi per Lui: “Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?… Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rom 8,35-39). La santità personale per la santificazione dei fedeli diventa un dono e un compito affascinante nella sequela di Cristo.
La pienezza dell’umano in Cristo
L’Apostolo Paolo, con la sua fortezza e la sua passione per Cristo, il Santo Curato d’Ars e milioni di santi testimoni, ci ricordano questa verità: non c’è vita più bella che una vita donata per Cristo, non c’è esistenza umana pienamente vissuta che non sia segnata da Cristo, non c’è vocazione o scelta nella vita che possa portare ad una pienezza e ad una realizzazione autentica senza Cristo. Egli è la sorgente e il compimento dell’umano. Egli ci amati per primo ed è alla fonte di ogni cosa, del nostro essere e del nostro operare e in Lui Dio Padre ci ha benedetti nei cieli (cf Ef 1,3). Il Sacerdote è alter Christus, un altro Cristo, e quando celebra l’Eucaristia, che solo lui può offrire come solo lui può perdonare in nome di Gesù, agisce in persona Christi: Cristo opera in lui e l’uomo offre le sue mani, i suoi gesti, le sue parole, tutto se stesso per trasmettere (tradizione) Gesù Cristo. Pur essendo servo inutile, è indispensabile per Cristo, mentre tutti gli altri sono utili ma non indispensabili. Cristo vuole dipendere dal suo ministro per entrare realmente nelle pieghe della storia e redimerla!
Nell’Eucaristia, nella preghiera, nell’ascolto della Parola di Dio, in Maria, il sacerdote trova l’alimento della sua vita: nemo dat quod non habet, nessuno dà ciò che non ha, e occorre essere conquistati da Cristo (cf Fil 3,12), conoscerlo, frequentarlo, amarlo, seguirlo per farlo conoscere, farlo frequentare, farlo amare, farlo seguire. Non sentiamo il bisogno di preti assistenti sociali o preti copertina, di burocrati o funzionari. Neanche di preti che contestano il Papa e il Magistero: la forza del Magistero non sono le argomentazioni ma la sua stessa autorità e oggi non c’è più il rispetto dell’autorità (vedi l’illuminante articolo di Mons. Giampaolo Crepaldi, Gli antipapi e i pericoli del magistero parallelo, www.zenit.org – 21 marzo 2010). Vogliamo, e noi dobbiamo esserlo, preti che ci parlano di Dio, ci donano gioia, entusiasmo, passione per questa vita e la vita eterna, parole di consolazione e di speranza. Che ci donano la Verità posseduta non per merito ma da cui sono posseduti per Grazia. Così sono stati i santi. Papa Benedetto, nell’udienza del 28 aprile scorso, ha citato le parole di san Leonardo Murialdo (1828-1900) che chiamava il sacerdozio “scelta di predilezione” e che scriveva: “Dio ha scelto me! Egli mi ha chiamato, mi ha perfino forzato all’onore, alla gloria, alla felicità ineffabile di essere suo ministro, di essere “un altro Cristo””.
Una testimonianza episcopale
Il Patriarca di Venezia, Cardinal Angelo Scola, il 1 aprile scorso nella Messa Crismale, ha detto ai suoi sacerdoti queste significative parole: “Nella consapevolezza che siamo tenuti in ogni istante per mano dal Padre misericordioso che ci ama per primo acquistano ogni giorno la loro decisiva forza quelle pratiche virtuose che abbiamo imparato fin dai tempi del seminario. Ringraziare il Signore fin dal primo mattino per averci creato, offrirGli le azioni della giornata. Recitare il breviario con cura, celebrare la Messa quotidiana, visitare Gesù sacramentato, pregare Maria, confessarsi assiduamente, non abbandonare lo studio necessario per il nostro ministero. (…) In una parola chiedere con umiltà ogni giorno il dono di diventare santi”. Questa è bellezza che porta frutto, che allontana lo scoraggiamento, che rende felice il sacerdote. La sua vita non è esente da croci, prove, tentazioni, come la vita di ogni uomo. Ma le croci, prove e tentazioni non diventano uno scandalo, non schiacciano, non deprimono il prete che ha sempre lo sguardo fissato su Cristo (cf Eb 12,2), che prega con umiltà, che dona se stesso e che si sforza di amare tutti coloro che Dio gli ha affidato.
Con cuore indiviso
È importante sottolineare ancora la grandezza del celibato. Questa legge della Chiesa latina non è per chiudere il sacerdote nella solitudine ma per donarlo a tutti gli uomini, sull’esempio di Cristo Sacerdote. Non è una menomazione psicofisica né tantomeno spirituale. Con cuore indiviso, il sacerdote ama tutti ma non è di nessuno se non di Cristo. Appartiene a Lui, e non è mai solo. Ed è più dentro alle cose degli uomini degli uomini stessi, anche se non le vive direttamente, come per esempio il matrimonio, ma la grazia del Sacramento dell’Ordine agisce attualmente donando gli aiuti necessari per comprendere. Il prete non è un indifferente, si appassiona all’umano, tutto, con cuore indiviso. Frequentando l’umanità ferita, dolorante, segnata nel profondo impara ad amare e riceve molto più di ciò che dona. Le relazioni che instaura con gli altri sono, spesso, di una pienezza e di un’autenticità uniche, vere, reali. Diventa punto di riferimento e sostegno per molti, avendo l’accortezza di non fermare nessuno presso di sé ma di orientare all’Unico che salva, che è Gesù Cristo. Piange con chi piange, ride con chi ride, ama molto l’amicizia e cerca di portare i pesi degli altri (cf Gal 6,2), offrendo al Signore durante la Messa tutti coloro che ha conosciuto, che ha confessato, che ha battezzato, che ha comunicato, che ha incontrato magari solo con uno sguardo fugace e che gli si sono raccomandati. Affida gli stessi al Signore, alla sera, durante la preghiera di Compieta, con la quale termina le giornate chiedendo perdono per sé e per loro, perché la Misericordia di Dio sani le ferite causate dai peccati. Spesso, con gratitudine, apre le braccia e le mani a Dio che è Padre, le impone sul capo di chi desidera una benedizione, porta sollievo ai malati e nella Liturgia rende grazie ed intercede per i vivi e per i morti offrendo il Sacrificio dell’altare. Dio, ciò che di più grande l’uomo possa desiderare, è fra le mani di un peccatore sotto le specie di un po’ di Pane e di un po’ di Vino. Che grande dono e che dignità è il sacerdozio, riversato in vasi di creta! (cf 2 Cor 4,7).
“Magnifico compito”
Papa Benedetto, nella Santa Messa a Malta già citata, ha ricordato ai sacerdoti il senso e la bellezza del loro ministero: “Ricordate anche la domanda che il Signore Risorto ha rivolto tre volte a Pietro: “Mi ami tu?”. Questa è la domanda che egli rivolge a ciascuno di voi. Lo amate? Desiderate servirlo con il dono della vostra intera vita? Desiderate condurre altri a conoscerlo ed amarlo? Con Pietro abbiate il coraggio di rispondere: “Sì, Signore, tu sai che io ti amo” e accogliete con cuore grato il magnifico compito che egli vi ha assegnato”.
Bibliografia
Visita a Malta di Benedetto XVI, 17-18 aprile 2010. Cf. sito visitato il 28.4.2010
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/travels/2010/index_malta_it.htm
Joseph Ratzinger, Servitori della vostra gioia. Meditazioni sulla spiritualità sacerdotale, Ancora, Milano 2002 (3° ed.).
di don Giovanni Poggiali
Non è azzardato il paragone tra una Cattedrale gotica e un sistema intellettuale, filosofico e teologico, medievale. Nel suo bel libro intitolato Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale (Ed. Cantagalli, Siena 2007), Thomas E.Woods Jr. dice espressamente che “la forma mentis scolastica è stata spesso indicata come la fonte primaria della cattedrale gotica. Gli scolastici, di cui san Tommaso d’Aquino fu il più illustro rappresentante, furono costruttori di sistemi intellettuali. Cercarono non solo di rispondere a questa o quella questione, ma di costruire interi edifici di pensiero. Le loro summae, in cui cercarono di esplorare ogni questione significativa relativa al soggetto della loro indagine, erano sistemi coerenti, in cui ciascuna conclusione individuale si riferiva armoniosamente a tutte le altre, proprio come gli elementi che compongono la cattedrale gotica operavano insieme per creare una struttura di notevole coerenza interna” (p.131). Tali ingegni dell’uomo, la cattedrale e la summa, sono stati possibili grazie al dono dell’intelligenza e della creatività dati dal Creatore. Basta osservare la “cattedrale della natura”, il mondo plasmato da Dio, per rendersene conto.
La Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino (1225-1274) è una delle opere più significative del genio medievale e di tutta la storia umana. La Summa era un termine che indicava l’esposizione della materia in un dato ambito, sia come sintesi delle parti principali di una dottrina, sia come esposizione dettagliata e sistematica. San Tommaso, cerca di dare risposte a migliaia di domande filosofiche e teologiche, dalla domanda sull’esistenza di Dio a quella sulla giustezza della guerra. La scolastica, termine con cui si definisce il lavoro scientifico filosofico e teologico (allargato poi ad altri rami del sapere) nelle “scuole” o Università europee medievali, aveva dei criteri precisi di lavoro: la distinzione degli ambiti teologici e filosofici e l’uso della ragione al servizio della fede. M.D. Chenu nel suo libro Introduzione allo studio di S.Tommaso D’Aquino (Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1953), afferma infatti che il carattere proprio della teologia scolastica è “la fiducia della fede nelle risorse della ragione, dalla dialettica alla metafisica” (p. 61). Il Papa Benedetto XVI, nell’Angelus del 28 gennaio scorso festa liturgica del Dottore Angelico, ha riaffermato il tema del rapporto tra fede e ragione, unendosi alla linea tracciata dalla summa: “La fede suppone la ragione e la perfeziona, e la ragione, illuminata dalla fede, trova la forza per elevarsi alla conoscenza di Dio e delle realtà spirituali. La ragione umana non perde nulla aprendosi ai contenuti di fede, anzi, questi richiedono la sua libera e consapevole adesione”.
La Summa Theologiae fu scritta dal Dottor Angelico per aiutare i principianti (incipientes) nel comprendere la religione cristiana e per evitare la moltiplicazione di questioni e argomenti inutili con conseguenti ridondanze e confusioni. L’intento di Tommaso è di esporre chiaramente la Sacra Doctrina (Teologia), il cui fine è la “contemplazione della Verità prima in patria”, cioè la contemplazione faccia a faccia di Dio, la visione beatifica. Che cos’è, in fondo, la Teologia? E’ la riflessione sulla fede e sulle domande che essa fa alla ragione. E’ una scienza, un sapere che accresce la conoscenza di Dio, dell’uomo e del mondo. Tommaso mostra, con la sua riflessione limpida, la grande apertura intellettuale dei medievali, la loro passione per la Verità, la non preclusione verso fonti non cristiane (pensiamo ad Aristotele), la memoria gigantesca e la padronanza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa. Il Dottore Angelico dirà che da qualunque parte venga la verità, essa viene dallo Spirito Santo, cioè dall’amore di Dio. Comprendiamo allora come il famigerato “Medioevo” non sia assolutamente l’epoca buia che si studia nei libri di scuola, ma sia molto più luminoso di tante apparenti “luci” storiche, come per esempio la cosiddetta epoca dei Lumi (Illuminismo).
Qual è il metodo di San Tommaso e come è divisa la summa? Il metodo scolastico che andò affermandosi, fu quello per cui l’autore del trattato presentava una questione (per esempio An Deus sit: se Dio esista), poneva l’esame degli argomenti pro e contro tale questione, quindi esplicitava la propria opinione e la sua risposta alle obiezioni. Queste venivano esposte per prime, come a significare il grande rispetto per il pensiero altrui. Inoltre, la summa è divisa in tre parti: la prima pars tratta dell’essenza di Dio in se stesso (l’esistenza, le sue perfezioni, le sue qualità, i modi in cui viene chiamato ecc.), della Trinità delle Persone divine, della creazione e delle cose create, tra cui l’uomo. La seconda pars, divisa in due sezioni, tratta del movimento dell’uomo verso Dio suo fine ultimo (si parla del fine dell’uomo, che è la beatitudine, dei mezzi per raggiungerlo e degli ostacoli che lo impediscono). Infine la tertia pars, unita al supplemento, tratta di Cristo, il quale, in quanto uomo, è la via per andare a Dio (qui incontriamo tutto ciò che concerne la Persona di Gesù, la sua vita, ed inoltre il trattato sui Sacramenti e le questioni sulla vita dopo la morte). Lo schema si può ricondurre a due parole: exitus e reditus, cioè uscita del Verbo da Dio per la Redenzione del mondo e ritorno in Dio dopo aver compiuto la Volontà del Padre “che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Il Proemio della III° parte, quella che tratta di Gesù Cristo, mostra il genio sintetico del santo Dottore che, in poche battute, delinea la storia della salvezza e il fine a cui siamo destinati: “Poiché il Signore, Gesù Cristo, Salvatore nostro, salvando, come attesta l’angelo, il suo popolo dai peccati, ci ha presentato in se stesso la via della verità, per la quale possiamo giungere, mediante la risurrezione, alla beatitudine della vita immortale, è necessario, per condurre a termine tutto il corso teologico, che alla considerazione dell’ultimo fine della vita umana, delle virtù e dei vizi, segua lo studio dello stesso Salvatore universale e dei benefici da lui apportati al genere umano”.
Ciò che colpisce e che attrae dell’opera di San Tommaso è la logica stringente, la consequenzialità delle argomentazioni, l’ordine della materia e la sapienza di cui è innervata. Egli dettava ai suoi scrivani più opere contemporaneamente, con una memoria simile ai nostri moderni computer. Le sue tesi sono state ripetute per secoli e la Chiesa ha abbondantemente ripetuto di rivolgersi a lui come a un modello.
Il 6 dicembre 1273, alla fine della vita, mentre celebrava la Santa Messa, Dio gli fece fare esperienza viva del divino, di tutto ciò che Tommaso aveva fino a quel momento contemplato, studiato e amato. Fu un’esperienza talmente forte che, di fronte alle insistenze di Reginaldo per farsi spiegare l’accaduto, disse: “Reginaldo, non posso, perché tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato”. Vengono in mente le parole di San Paolo: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9). Dio, il 6 dicembre 1273, le mostrò a Tommaso per l’amore con cui l’Angelico l’aveva amato.
di don Giovanni Poggiali
“Chi propaga il Rosario è salvo!”. Così si esprimeva il beato Bartolo Longo, un vero apostolo del Rosario, citato dall’attuale pontefice Giovanni Paolo II nella recente Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae (16 ottobre 2002) dedicata alla preghiera del Santo Rosario, preghiera e devozione così profondamente radicata nel popolo cristiano. Il Santo Padre ha inoltre proclamato l’anno del Rosario (ottobre 2002 – ottobre 2003), e desidera che questa devozione venga recitata con fede da ogni cristiano e soprattutto all’interno delle famiglie, per ricercare l’unione e la concordia che solo dalla preghiera possono scaturire.
Come è nato e come si è sviluppato il Rosario che Pio XII descrisse come “sintesi di tutto il vangelo, meditazione dei misteri del Signore, corona di rose e inno di lode”?
La storia è complessa e alcuni passaggi non sono storicamente chiari. I monaci nei Monasteri, nelle varie ore del giorno, recitavano il Salterio (i 150 salmi della Bibbia) e la Liturgia delle Ore (più comunemente conosciuta come il “Breviario”) per obbedire all’invito del Signore Gesù che li richiamava alla preghiera costante: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi (Lc 18,1) e di s.Paolo: “State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie” (1 Ts 5, 16-18). Nell’VIII° secolo, per aiutare i monaci illetterati e quelli che non conoscevano il latino, si cominciò a dire: “Chi non è capace di salmodiare reciti dei Pater”. I salmi, così, vennero sostituiti da 150 Padre Nostro. I monaci cercavano il silenzio interiore, la pace del cuore attraverso la meditazione e allora vollero facilitare questo per tutti, mediante una preghiera continua, ripetuta e semplice.
Ad un certo punto, all’inizio del XII° secolo, si diffonde in occidente la recita della prima parte dell’Ave Maria la cui origine è di alcuni secoli prima. E’ l’istinto della fede che ha condotto i cristiani a comporre l’Ave Maria: quando è cominciata la salvezza? Nel momento in cui il Verbo di Dio si fece carne. Dal Vangelo di Luca ricavarono allora le parole che l’Angelo Gabriele e santa Elisabetta dissero alla Vergine (cf. Lc 1,28.42). Certamente, come accennato, il saluto angelico era conosciuto anche prima del XII° sec. (ricordiamo che il culto mariano è molto antico, infatti la famosa preghiera mariana Sub tuum praesidium risale al III° secolo e l’archeologia ha portato alla luce notevoli testimonianze del culto mariano fin dai primi secoli: cf “Il Timone” n. 23, pp. 64-66) ma la novità è la ripetizione della preghiera come una devota litania. Più tardi, alla fine del XV° secolo, si diffonderà l’uso della seconda parte dell’Ave Maria (Santa Maria Madre di Dio…: fu il Concilio di Efeso del 431 a definire la maternità divina di Maria) con l’aggiunta del Nome Gesù al centro delle due parti. Ci si chiese: perché non mettere il Nome di Colui che è dichiarato Benedetto? S.Paolo infatti, nella lettera ai Filippesi, afferma che il Nome di Gesù è al di sopra di ogni altro nome e dinanzi al Quale occorre prostrarsi (cf. Fil 2,10). Le Ave Maria sostituirono i Pater ed ecco quindi la trasformazione del Salterio biblico in un “salterio semplice”, o “salterio mariano”, recitabile da chiunque.
Nel XIV° secolo il certosino Enrico di Kalkar operò un’ulteriore suddivisione del “salterio mariano” dividendolo in 15 decine e inserendo, tra una decina e l’altra, il Padre Nostro. Inoltre in quell’epoca si diffuse la tradizione che il Rosario fu istituito da s.Domenico, fondatore dell’Ordine mendicante dei Domenicani, tradizione portata avanti da Alano de la Roche, domenicano anch’egli. Tale tradizione ha buoni motivi di veridicità in quanto il Rosario si diffuse dal Medioevo in poi grazie all’Ordine Domenicano che lo usava per la predicazione e per le missioni popolari. Nel XV° secolo, nell’ambiente certosino, nasce la proposta di recitare una forma di salterio mariano ridotta, con 50 Ave Maria, ma a ciascuna di esse era aggiunta una clausola o specificazione inerente la vita di Gesù. Si cominciò così a meditare sui misteri evangelici coniugando preghiera vocale e orazione mentale. Grazie all’ambiente certosino e ai domenicani la pratica si allargò grandemente anche a causa delle confraternite laiche mariane ormai numerose. Tra il popolo il Rosario ebbe grande favore e la formula si semplificò ulteriormente nel XVI° secolo quando il domenicano Alberto da Castello (gli storici però discutono su questa paternità) scelse 15 misteri tra i tanti ormai esistenti della vita di Gesù e Maria proponendoli alla meditazione e portando il Rosario alla forma moderna che conosciamo oggi. Un manoscritto del 1501 riportava, come una sintesi storica, queste parole: “Il Rosario ha avuto la sua origine principale dall’ordine di s.Benedetto (in particolare la riforma dei Cistercensi), si è rafforzato con i Certosini, ultimamente ha preso sviluppo dall’ordine dei Predicatori (Domenicani)“. Lo “strumento” della corona per pregare, invece, ha un’origine antica risalente ai Padri del Deserto del III° e IV° secolo dopo Cristo, che usavano cordicelle o stringhe per la preghiera ripetitiva.
Una tappa fondamentale per la diffusione della pratica mariana è sicuramente la battaglia di Lepanto (dentro i territori dell’Impero Ottomano, nell’attuale Grecia) tra la flotta cristiana e quella turca. Nel XVI° secolo i turchi sono fortissimi e avanzano all’interno della Cristianità quasi senza sconfitte avendo come obiettivo di innalzare la mezzaluna a Roma. Il papa S.Pio V, preoccupato per la situazione, riesce a riunire sotto le insegne della croce una flotta composta da galee pontificie, spagnole e della Repubblica veneta mentre i francesi erano presenti con alcuni cavalieri volontari. A capo della flotta cristiana viene chiamato Giovanni d’Austria. Individuata la flotta turca nelle acque di Lepanto i cristiani la raggiungono il 7 ottobre 1571 e così avviene la battaglia decisiva per la Cristianità contro l’Impero Ottomano. Intanto S.Pio V invita tutti alla preghiera del Rosario (che lui stesso consacrò nella forma sostanzialmente in uso al giorno d’oggi con la bolla Consueverunt romani Pontifices del 1569), a fare processioni pubbliche e penitenze, e quando ancora non poteva sapere della vittoria ne dà l’annuncio facendo suonare tutte le campane di Roma e decretando che la flotta cristiana ha vinto grazie all’intercessione della Madonna del Rosario. Il papa inserì nelle litanie l’invocazione di Maria come Auxilium Christianorum e decretò che il 7 ottobre fosse commemorata S.Maria della Vittoria. Fu poi papa Gregorio XIII che istituì il 7 ottobre come festa della Madonna del Rosario.
Un’altra decisiva tappa per la diffusione della preghiera mariana fu il 12 settembre 1683, quando il re polacco Giovanni Sobieski sconfisse a Vienna i Turchi e impedì definitivamente la conquista all’Islam dell’occidente Cristiano. In questa occasione il pontefice Innocenzo XI istituì la festa del Nome di Maria il 12 settembre.
Nell’epoca contemporanea non si può non fare riferimento alle grandi apparizioni mariane. A Lourdes, sui Pirenei nel sud della Francia, la Vergine appare nel febbraio del 1858 a s.Bernadetta Soubirous con la corona del Rosario in mano invitando tutti alla preghiera e alla penitenza, e a Fatima nel 1917 dove la Madonna fa un appello urgente, attraverso i tre veggenti Lucia Francesco e Giacinta (questi due ultimi beatificati da papa Giovanni Paolo II), alla preghiera del Santo Rosario meditato, alla penitenza, alla comunione riparatrice dei primi 5 sabati del mese e alla devozione al Cuore Immacolato di Maria. Il 13 luglio 1917 la Madonna apparendo disse: “Voglio che veniate qui il giorno 13 del mese prossimo, che continuiate a recitare tutti i giorni il rosario in onore della Madonna del Rosario, per ottenere la pace del mondo e la fine della guerra, perché soltanto lei ve la potrà meritare”. Queste parole, più che mai attuali, indicano come il Signore, attraverso Maria, è sempre stato premuroso verso i suoi figli che però, purtroppo, non vogliono ascoltare la sua voce e ne pagano conseguenze durissime.
È importante, inoltre, un accenno al magistero pontificio degli ultimi decenni. Numerosissimi sono i documenti papali che riguardano il Rosario e più di ogni altro fu Leone XIII, chiamato il Papa del Rosario, a diffondere tale pratica. Portano la sua firma 12 lettere encicliche dedicate alla preghiera mariana. Consacrò ad essa il mese di ottobre ed il suo impegno in questo senso fu per aiutare i cristiani a “superare l’avversione al sacrificio e alla sofferenza ponendo la propria fede e il proprio sguardo sulle sofferenze di Cristo; l’avversione alla vita umile e laboriosa si supera da parte del cristiano meditando sull’umiltà del Salvatore e di Maria; l’indifferenza verso i misteri della vita futura e l’attaccamento ai beni materiali si guariscono meditando e contemplando i misteri della gloria di Cristo, di Maria e dei santi” (cit. in Nuovo Dizionario di Mariologia, voce Rosario, p.1209). Pio XII scrisse l’enciclica Ingruentium malorum, del 15 settembre 1951, con l’invito a confidare nella Vergine soprattutto nei momenti più difficili e a recitare il Rosario per custodire la concordia in famiglia, per far crescere le virtù cristiane, per implorare la pace, il rispetto dei diritti della Chiesa e per ottenere conforto ai malati e ai diseredati. Il Beato Giovanni XIII fece del Rosario parte integrante della sua spiritualità, così come Paolo VI che, nella Marialis cultus (2 febbraio 1974), descrive gli elementi costitutivi del Rosario ripresi anche nella Rosarium Virginis Mariae da Giovanni Paolo II: il Rosario come compendio del Vangelo, come preghiera contemplativa e cristologica.
Concludo questa sintesi con una citazione dalla Rosarium Virginis Mariae dove il regnante pontefice, oltre a rinnovare la pratica integrando i misteri gaudiosi dolorosi e gloriosi con quelli della luce, riprende una frase dell’inizio del suo pontificato (1978) e manifesta in pienezza il suo cuore mariano: “Il Rosario è la mia preghiera prediletta. Preghiera meravigliosa! Meravigliosa nella sua semplicità e nella sua profondità” (n.2).
BIBLIOGRAFIA
Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae, 16.10.2002.
F.M. Willam, Storia del Rosario, trad. it., Orbis catholicus, Roma 1957.
S. Orlandi, Libro del rosario della gloriosa Vergine Maria (studi e testi),:Centro internazionale domenicano del rosario, Roma 1965.
Stefano De Fiores e Salvatore Meo (a cura di), Nuovo Dizionario di Mariologia, voce Rosario, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1985.
Massimo Introvigne, La meravigliosa storia del Rosario, in Cristianità, 275-276 (1998).
di don Giovanni Poggiali
“Il Timone” – Gennaio 2009
La Chiesa è il corpo di Cristo, come dice san Paolo: “Egli [Cristo] è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa” (Col 1,18). Pur essendo, come il corpo, costituita da molte membra la Chiesa è Una ed è unita inscindibilmente al suo Signore che è il Capo. Il primato di Cristo, questa signoria che è il suo Regno, Egli lo estende a tutto il mondo per mezzo della Chiesa, prefigurata nell’Antico Testamento, e in essa dilata la preghiera che è comunione con Lui e che diviene autentica preghiera cristiana perché trova in Lui la propria origine. La preghiera, che è il tratto più profondo e rivelativo del rapporto tra Gesù e il Padre, viene donata alla Chiesa la quale risponde all’amore del Signore mediante il proprio amore e il proprio desiderio, manifestando pienamente al mondo ciò che essa è, ciò che essa crede.
Attraverso la Tradizione, che è comunicazione e trasmissione vivente di Gesù Cristo e del suo insegnamento (si può dire che è la Chiesa la viva Tradizione), lo Spirito Santo insegna la preghiera nella Chiesa: lo Spirito di Cristo ci suggerisce come pregare e cosa domandare e ci dona la libertà di pronunciare: “Abbà, Padre” (cf. Rom 8,15; Gal 4,6) ponendoci, come figli adottivi, in relazione con Dio. Questa comunione avviene massimamente nella Liturgia, opera di Dio, in cui “Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua Sposa amatissima, la quale prega il suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’Eterno Padre” (Sacrosanctum Concilium, 7). La Liturgia, esercizio del culto divino, realizza e manifesta la Chiesa come segno visibile di tale comunione tra Dio e gli uomini.
Non si può, allora, cercare e trovare la fonte della preghiera nella Chiesa se non in Gesù Cristo: Egli prega il Padre, spesso nel silenzio della notte e prima di ogni decisione importante o scelta decisiva, e diviene per noi sorgente e modello di preghiera. Pensiamo alla Sua preghiera nel Battesimo (cf. Lc 3,21), prima della vita pubblica nei 40 giorni di deserto (cf. Lc 4), prima della scelta degli Apostoli (cf Lc 6,12-13), prima della sua Passione (cf Lc 22,39-46)… Così, in Cristo, Dio manifesta il proprio volto: l’uomo si comprende ed è compreso solo nella relazione personale con Dio e tale relazione ha il suo luogo principale nella preghiera, la quale diventa un ascoltare e un parlare con Dio che rivela l’uomo a sé stesso. Pregando, l’uomo compie un atto “divino”, perché entra in comunicazione con Dio, si abbandona a Lui e si lascia amare da Dio per amare i fratelli. Quale povertà la mancanza di preghiera nell’uomo! Quale aridità l’assenza di una vita spirituale: Gesù ci insegna infatti che occorre pregare sempre senza stancarci (cf. Lc 18,1).
Un giorno, mentre Gesù era in preghiera e dopo che ebbe finito, uno dei discepoli gli chiese di insegnare loro a pregare. Gesù pronunciò la preghiera del Padre Nostro, la sintesi di tutto il Vangelo come la chiamerà Tertulliano (De oratione, 1). Questa preghiera, scaturita dallo stesso Figlio di Dio – dal suo cuore e dalle sue labbra -, indica che l’autentica preghiera cristiana è personale ma ha anche una dimensione comunitaria (Padre nostro): “Nell’atto del pregare, l’aspetto esclusivamente personale e quello comunitario devono sempre compenetrarsi” (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, 158). Anche quando l’uomo prega nel segreto della sua camera, ossia nell’intimo del proprio cuore, è preghiera della Chiesa, perché la nostra vita non può mai essere dissociata dai nostri fratelli, essendo figli dello stesso Padre ed essendo rigenerati dallo stesso Sangue del Verbo incarnato. Chi prega, lo fa anche per chi non prega. Non dobbiamo desiderare la salvezza solo per noi.
Tale preghiera comunitaria si manifesta in varie forme nella Chiesa: la preghiera di benedizione esprime l’incontro tra Dio, fonte di ogni benedizione, e l’uomo che risponde nel suo cuore: bene-dicere, dire bene. Dio fa questo con la Sua presenza e provvidenza. Egli ci benedice nei cieli in Cristo (cf. Ef 1,3) e invita noi a bene-dire (di) Lui che ci ama (qui si comprende la gravità della bestemmia). La preghiera di adorazione esprime la nostra creaturalità, la nostra dipendenza da Dio, l’Unico che si deve adorare esaltandone la grandezza, la misericordia, l’onnipotenza, bandendo gli idoli dal nostro cuore. Ma esprime e manifesta anche l’intimità stessa di Dio che è Trinità, un Dio in cui il Figlio è rivolto sempre verso il Padre e la cui esistenza filiale può essere intesa come una grande preghiera offerta al Padre nello Spirito Santo. La domanda esprime la forma più comune e abituale di preghiera per l’uomo che entra in relazione con Dio. Gesù stesso invitava a domandare insistentemente: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Mt 7,7-8). Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice che “in Cristo risorto, la domanda della Chiesa è sostenuta dalla speranza” (2630). Noi chiediamo aiuto a Dio, per noi e per i fratelli, perché speriamo nel suo perdono e perché desideriamo che venga il suo Regno. Esiste una gerarchia nella domanda, che non si riduce solo alla richiesta di “cose” materiali, pur importanti, ma implora anzitutto lo Spirito Santo, vita stessa di Dio e respiro del Suo amore. La preghiera di intercessione ci rende conformi a Cristo, intercessore per noi peccatori presso il Padre. Colui che intercede si preoccupa delle necessità di un altro: è un grande atto di misericordia, una delle più belle beatitudini – Beati i misericordiosi (Mt 5,7) – e ci avvicina ai Patriarchi (pensiamo all’intercessione di Abramo e di Mosè). Ci rende simili anche al cuore di Maria, la Madre di Gesù, che intercede sempre per noi suoi figli. La preghiera di ringraziamento è il primo movimento che scaturisce da un cuore grato e riconoscente per tutti i doni di Dio: “Tutto proviene da Dio” (1 Cor 11,12), dice san Paolo che aggiunge: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7). Ogni dono ci giunge dall’amore di Dio ed è per questo che è frutto di umiltà rendere grazie in ogni cosa (cf. 1 Ts 5,18). Infine, la preghiera di lode. Lodare Dio significa riconoscerlo per ciò che Egli è, lodare è lo stupore per le Sue meraviglie: “Siate ricolmi dello Spirito intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore”. Ecco la lode a Dio!
Tutte queste forme di preghiera nella Chiesa sono realizzate ed espresse dalla Liturgia, in particolare dall’Eucaristia, nella quale rendiamo grazie al Padre per il sacrificio del Figlio che viene offerto e si offre in espiazione per salvarci dai nostri peccati. Nella Liturgia noi adoriamo Dio, lo ringraziamo, lo lodiamo, impetriamo e benediciamo Colui dal Quale siamo amati e benedetti. La preghiera liturgica, rivolta al Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo, è comunione con la Trinità Santa, mistero d’amore rivelato a noi da Gesù e comunicato alla Chiesa per l’evangelizzazione del mondo. La preghiera nella Chiesa e della Chiesa ci pone in relazione con tutto questo e ci guida verso l’intimità con Cristo, sorgente e culmine della vita cristiana. Parlando di Origene (vissuto tra il II e il III secolo) e dei suoi scritti sulla preghiera, papa Benedetto XVI ha detto: “A suo parere, infatti, l’intelligenza delle Scritture richiede, più ancora che lo studio, l’intimità con Cristo e la preghiera. Egli è convinto che la via privilegiata per conoscere Dio è l’amore, e che non si dia un’autentica scientia Christi senza innamorarsi di Lui” (Udienza generale, 2 maggio 2007). Questo è il termine e lo scopo dell’azione della Chiesa: innamorarsi di Cristo per fare innamorare di Cristo.
Chi più dei santi ha vissuto questa esaltante esperienza? Nella comunione dei santi, la Chiesa pellegrina sulla terra è unita a quella del Cielo dove i nostri fratelli glorificati intercedono per noi e ci fanno da guida. Questa “nube di testimoni”, come la chiama il Catechismo, ha combattuto il buon combattimento della preghiera e della fede, a cominciare dai giusti dell’Antico Testamento e da Maria Madre di Gesù. Le grandi e diverse spiritualità scaturite dall’esperienza spirituale dei santi, contribuiscono a formare la grande Tradizione della Chiesa e ci indicano una via. Proverbiale fu l’esperienza di santa Teresa d’Avila che disse: “L’orazione mentale, a mio parere, non è che un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si intrattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati” (Libro della mia vita, 8). La preghiera deve superare tante difficoltà – tentazioni, pigrizia, accidia, distrazioni, aridità – ma, alla fine, è una questione di desiderio, di amore, di volontà. Sant’Alfonso Maria de Liguori, a questo riguardo, dirà che “chi prega, certamente si salva; chi non prega certamente si danna” (Del gran mezzo della preghiera)….
I santi ci insegnano ciò che più è importante nella nostra vita e anche nella vita della Chiesa: il rapporto con Dio, il desiderare un’intimità profonda con Lui, il cercarlo con ferma fiducia. Questa è la via alla santità cristiana, cioè alla perfezione dell’amore, al vivere straordinariamente bene le cose ordinarie. Questo procura la vera gioia. Gesù stesso ce lo ha insegnato con la Sua vita. Infatti, “si prega come si vive, perché si vive come si prega”…(CCC 2752).
Infine, è la Chiesa stessa che ci offre tutti quei mezzi che ci conducono alla santità e all’incontro con il Signore: la celebrazione della Santa Messa, l’adorazione eucaristica, la devozione alla Madonna – soprattutto la recita del Rosario –, la lettura quotidiana della Sacra Scrittura, la confessione frequente e l’esperienza dei Santi. Così, noi membra della Chiesa, possiamo giungere a contemplare quel Dio che desidera unirsi con noi per farci partecipare al banchetto di nozze dell’Agnello (cf. Ap 19,9) dove Dio stesso, dono inaudito, passerà a servirci (cf. Lc 12,37).
BIBLIOGRAFIA
Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, pp. 157-201.
Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), dal n. 2559 al n. 2758.