Il sacramento dell’Amore

di don Pietro Cantoni
“Il Timone” n. 27/2003

Se il Battesimo è il sacramento della fede, l’Eucaristia è il sacramento dell’amore. Questo solo fatto dovrebbe far capire la sua importanza assolutamente centrale e fondamentale. ” Infatti, nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa ” (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sul ministero e la vita dei presbiteri Presbyterorum Ordinis, 5). Questo significa che – ipotizzando un immane disastro che tutto mettesse a soqquadro – ciò che ci dovremmo sforzare di custodire al di là di tutto e soprattutto sarebbe proprio l’Eucaristia. Di lì, come dal centro e come da un germe, tutto potrebbe essere riordinato e ricostruito. Essa infatti cela in sé la realtà del Corpo del Fondatore e Capo della Chiesa e la presenza del gesto con cui “tutto è compiuto” (Gv 19,30) e da cui la Chiesa scaturisce.

Quando ci poniamo davanti all’Eucaristia, alla Messa, ci troviamo in presenza di un “rito”, cioè di gesti, comportamenti, cose e ambienti che si pongono come diversi dall’agire corrente e abituale dell’uomo. Il rito è qualcosa di antico, qualcosa che l’uomo – da che uomo è – si è sempre trovato a fare e a vivere. Un grande storico delle religioni (forse il più grande del secolo scorso), Mircea Eliade (1907-1986), ha descritto il “rito” come lo sforzo di un gruppo umano, un popolo, una tribù di mettersi di nuovo in collegamento con quell’evento che lo ha costituito come tale, come popolo unito da tradizioni e leggi comuni: l’evento fondatore, avvenuto in un tempo “mitico”, in illo tempore. Questa lettura riflette molto bene la realtà delle cose e la ritroviamo anche nella vicenda del popolo di Dio, di Israele. Quando Israele è diventato veramente “popolo”? In Egitto era schiavo e senza nessuna vera unità che non fosse il lontano ricordo di un “Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe”, il ricordo ormai tenue e impallidito dei Dio dei Patriarchi. Finché Dio non suscita la figura di Mosé, il liberatore che guida il popolo fuori dalle tenebre di Egitto, dove non è che un’accozzaglia di schiavi, per diventare attraverso il passaggio del Mar Rosso e la rivelazione del Sinai un popolo dotato di leggi, di un culto e – soprattutto – della consapevolezza di un Dio che lo ama, lo protegge e cammina con lui. Questo è l’evento che fonda il popolo di Israele come popolo di Dio. Esso è un “passaggio” un “attraversamento”, Pesach in ebraico, in aramaico Pascha’, diventato – nel nostro italiano Pasqua. Di questo evento il popolo non si deve più dimenticare, perché quando un popolo, una civiltà si dimentica dei valori che la fondano, allora perisce. Gli viene allora consegnato da Dio un rito, il rito della Pasqua, come “memoriale” perenne di quello che avvenne in quel tempo. La parola memoriale (zikkaron in ebraico) non ci deve ingannare: essa non si riduce ad un semplice ricordo psicologico che si esaurisce nella testa di chi si ricorda. Non è – come ammonisce il concilio di Trento – una nuda commemoratio, un puro e semplice “ricordare” vuoto di realtà, come oggi ci si ricorda di tanti personaggi morti e sepolti, con discorsi, monumenti e altro… Il rito istituito da Dio, per la forza della parola creatrice di Dio, è portatore di presenza e di efficacia, come se Dio – attraverso la forza evocatrice del memoriale – riattualizzasse il suo agire a favore del popolo.

Con la venuta del Figlio di Dio fatto uomo, Dio vuol compiere la sua opera di salvezza a favore di tutta l’umanità e per questo – per così dire – rifonda con un gesto definitivo il suo popolo. Anche questa rifondazione riposa su un evento che è il compimento dell’antica Pasqua. Questo evento è la passione e la risurrezione di Gesù. Quello che molto opportunamente chiamiamo “il mistero pasquale”. Anche qui c’è un “passaggio”, un “attraversamento”. I Vangeli, in modo particolare quello di Giovanni, usano spesso immagini dinamiche per descrivere tutta la vicenda della vita terrena di Gesù e soprattutto la sua Pasqua. “Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv. 13, 1). “Dove vado io voi non potete venire” (Gv. 13, 33; 8, 21), è qui indicato chiaramente che il gesto di Gesù, quello del suo sacrificio che nella risurrezione è destinato a vincere la morte, a “sfondare” le barriere dell’inferno, è irraggiungibile per qualsiasi altro che non sia l’uomo-Dio. Gesto che non è però di un “solitario”: “Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io. E del luogo dove io vado, voi conoscete la via” (Gv. 14, 2-4). Ecco allora che anche qui diventa indispensabile un rito che renda presente in tutta la storia degli uomini l’evento fondante, cioè la Pasqua del Signore, perché tutti vi possano, se lo vogliono, partecipare. Come l’antico evento della Pasqua si trova compiuto dalla morte e risurrezione di Gesù, così l’antico memoriale della Pasqua trova il suo compimento nell’Eucaristia, nella Messa cristiana. Gesù infatti prima di affrontare la passione si raccoglie con i suoi apostoli a celebrare il rito della Pasqua, a cui però dà un significato nuovo, quello di essere il memoriale, cioè la ri-attualizzazione, la ri-presentazione non più dell’antico passaggio del Mar Rosso, ma di quello che lui compie con la sua morte e risurrezione, il definitivo passaggio da questo mondo soggetto al peccato al mondo interamente e pienamente soggetto a Dio. Lui, il Capo, il nuovo Adamo, precede e porta con sé tutti quanti in lui credono e accettano di vivere una vita simile alla sua. È importante capire che, così come l’antica Pasqua ebraica non intendeva puramente e semplicemente ripetere o ricordare il rito compiuto dagli antenati, ma si ricollegava direttamente all’evento fondatore, così la Messa non è (come purtroppo si sente dire spesso) il ricordo dell’ultima Cena, ma il memoriale della morte e della risurrezione di Gesù. Memoriale che ha lo scopo di rendere presente l’evento per noi e di consentire a noi di parteciparvi. Questo è d’altronde il senso di tutta quanta la liturgia.

Torniamo al rito della Messa, così come si presenta alla nostra esperienza di cristiani. Esso è costituito da un insieme di gesti e di preghiere. Un passo di san Luca ci può aiutare a discernere gli elementi essenziali. È chiaro che l’evangelista ha raccolto la tradizione di questo episodio con l’intenzione di farvi trasparire come già la primitiva comunità a lui contemporanea celebrava l’Eucaristia. Si tratta del noto episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35). Due discepoli si stanno allontanando da Gerusalemme dopo l’evento della morte e della sepoltura di Gesù. Sono tristi e sfiduciati; un’espressione descrive bene il loro stato d’animo: “noi speravamo” (Lc 24,21) che Gesù fosse il liberatore d’Israele. Quanto in realtà avvenuto contraddiceva troppo apertamente le loro umane aspettative per consentire che la speranza vivesse ancora nei loro cuori. Un misterioso pellegrino si affianca loro nel viaggio verso Emmaus, località non troppo distante dove uno dei due ha una casa, considerata rifugio più sicuro della Città Santa dopo quanto vi era successo. Si avvia una conversazione e l’argomento non può che essere lui, il Signore Gesù ” E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui ” (v. 27). Il misterioso personaggio si fa interprete delle Scritture per far loro vedere che, se ciò che era effettivamente accaduto non corrispondeva alle loro aspettative e ai loro umani desideri, era però proprio quello che le Scritture avevano annunciato e promesso tanto tempo prima attraverso Mosè e i profeti. A questo punto un calore nasce nel cuore (cfr. v. 32), quando il cuore si sa liberare dei suoi poveri desideri e delle sue misere aspettative per aprirsi a qualcosa di più alto, misterioso e inaudito, che però viene da Dio… E l’ardore si fa preghiera. “Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: “Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino”. Egli entrò per rimanere con loro” (vv. 28-29). Qui si riproduce la situazione di quell’ultima Pasqua celebrata con il Signore, quando lui disse quella frase – forse lì per lì dimenticata – “fate questo in memoria di me” (Lc 22,19). ” Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro ” (24,30). Qui, alla preghiera di benedizione e all’eloquente gesto di Gesù (perché lui è il pellegrino) gli occhi dei discepoli si aprono e tutto diventa finalmente chiaro. Il loro cammino si inverte in tutti sensi: se erano partiti scendendo da Gerusalemme tristi, ora vi risalgono quasi correndo pieni di gioia per annunciare la risurrezione del Signore. Non facciamo fatica a riconoscere in questo racconto – come in filigrana – le parti essenziali della Messa. Innanzitutto l’annuncio e la spiegazione delle Scritture, di cui la morte e la risurrezione di Gesù costituiscono la chiave che ne rivela in pienezza il senso. È la prima parte della Messa, detta anche “liturgia della parola”. In fondo nella distribuzione del pane su cui è stata pronunciata la benedizione non si fa fatica a riconoscere il rito di comunione, dove emerge l’aspetto conviviale dell’Eucaristia. Ma non deve assolutamente sfuggire ciò che sta al centro e costituisce dunque come il “cuore” della celebrazione: quella preghiera di benedizione sul pane e sul vino che fa memoria dell’evento e quindi lo riattualizza e non lascia più sul tavolo pane e vino, ma il corpo e il sangue di Gesù, cioè tutta la sua persona ormai per sempre vivente, su cui la morte non ha più potere. Questa è quella che chiamiamo “liturgia eucaristica” o “liturgia del sacrificio”. È in questa solenne preghiera – il “canone” o “preghiera eucaristica” o “anafora” – che troviamo il “cuore” della Messa, che è anche il cuore della Chiesa e della vita cristiana, la presenza di quell’atto di amore infinito con cui Gesù ha vinto il peccato e la morte, quell’amore che – se noi lo accogliamo partecipandovi – ci può rendere veramente capaci di amare a nostra volta. E ” chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui ” (1 Gv 4,16).

Palchetto sulla Messa tradizionale:

Il Concilio ecumenico Vaticano II, nel suo sforzo di riattualizzazione di tutto il messaggio cristiano in vista di una indispensabile Nuova Evangelizzazione, si è sforzato di ridare freschezza e vigore alla liturgia. In particolare il rito della Messa si è trovato riproposto in tutte le sue componenti essenziali: didattica, sacrificale, conviviale. Purtroppo spesso l’ansia della valorizzazione del momento didattico e conviviale ha rischiato di occultare il “cuore” dell’Eucaristia, la ri-presentazione del sacrificio di Gesù, del suo atto di amore supremo consumato sulla Croce e sfociato nella vittoria della Risurrezione. Non pochi fedeli hanno così trovato questa centralità del sacrificio di Gesù espressa con più efficacia nella forma rituale che la Messa aveva prima della riforma liturgica: la cosiddetta “Messa di S.Pio V”. La Chiesa riconosce la legittimità di questo legame all’antica forma rituale una volta che si ammetta che la ri-presentazione del sacrificio di Gesù costituisce l’essenza della Messa, senza nessuna ambiguità, nella liturgia scaturita dalla riforma, il Novus Ordo Missae, di cui non è ovviamente lecito mettere in discussione né la legittimità né l’ortodossia. Recentemente il card. Darío Castrillón Hoyos ha celebrato solennemente secondo questo rito nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma proprio per dare un chiaro segnale di questa intenzione della Chiesa.

Bibliografia

Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1322-1419

Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia del 17 aprile 2003

Joseph Ratzinger, La festa della fede, Saggi di Teologia liturgica, Jaca Book, Milano 1983.

Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2001.

Pietro Cantoni, Per un “nuovo” movimento liturgico, in: Cristianità anno XXX (n. 309, 2002), pp. 5-18.

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