Mercoledì 28 febbraio 2024. A muovere il primo assassino dell’umanità l’invidia, ma è altrettanto letale la vanagloria, con cui va molto d’accordo
di Michele Brambilla
Papa Francesco presenta nell’udienza del 28 febbraio due vizi: invidia e vanagloria. «Partiamo dall’invidia. Se leggiamo la Sacra Scrittura (cfr Gen 4), essa ci appare come uno dei vizi più antichi: l’odio di Caino nei confronti di Abele si scatena quando si accorge che i sacrifici del fratello sono graditi a Dio» più dei suoi.
«Caino era il primogenito di Adamo ed Eva, si era preso la parte più cospicua dell’eredità paterna; eppure, basta che Abele, il fratello minore, riesca in una piccola impresa, che Caino si rabbuia» e si roda nel desiderio di rivalsa. Il volto dell’invidioso è sempre triste, osserva il Papa, «perché la mente è avviluppata da pensieri pieni di cattiveria». Infatti, Abele sarà ucciso.
L’invidia è oggetto non solo della teologia cattolica, ma anche del pensiero di molti filosofi: tutti hanno saputo cogliere che «alla sua base c’è un rapporto di odio e amore: si vuole il male dell’altro, ma segretamente si desidera essere come lui. L’altro è l’epifania di ciò che vorremmo essere, e che in realtà non siamo». Questo perché, in ultima analisi, «non si accetta che Dio abbia la sua “matematica”, diversa dalla nostra. Ad esempio, nella parabola di Gesù sui lavoratori chiamati dal padrone ad andare nella vigna alle diverse ore del giorno, quelli della prima ora credono di aver diritto a un salario maggiore di quelli arrivati per ultimi» e si lamentano con il padrone della parabola, il quale risponde loro: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?» (Mt 20,15).
Veniamo, così, alla vanagloria. «Essa va a braccetto con il demone dell’invidia, e insieme questi due vizi sono propri di una persona che ambisce ad essere il centro del mondo, libera di sfruttare tutto e tutti, oggetto di ogni lode e di ogni amore. La vanagloria è un’autostima gonfiata e senza fondamenti», indice, dice il Pontefice, di «un “io” ingombrante: non ha empatia e non si accorge che nel mondo esistono altre persone oltre a lui. I suoi rapporti sono sempre strumentali, improntati alla sopraffazione dell’altro. La sua persona, le sue imprese, i suoi successi devono essere mostrati a tutti: è un perenne mendicante di attenzione. E se qualche volta le sue qualità non vengono riconosciute, allora si arrabbia ferocemente».
«Per guarire il vanaglorioso, i maestri spirituali non suggeriscono molti rimedi. Perché in fondo il male della vanità ha il suo rimedio in sé stesso: le lodi che il vanaglorioso sperava di mietere nel mondo presto gli si rivolteranno contro», quando emergerà la sua arroganza. «L’istruzione più bella per vincere la vanagloria la possiamo trovare nella testimonianza di San Paolo. L’Apostolo fece sempre i conti con un difetto che non riuscì mai a vincere. Per ben tre volte chiese al Signore di liberarlo da quel tormento, ma alla fine Gesù gli rispose: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”», perché è proprio quando l’apostolo si rivela peccatore e insufficiente che si capisce che ad operare attraverso i suoi discepoli è il Signore.