Catechesi liturgiche sulla Messa
III parte – Dall’Offertorio alla Preghiera eucaristica
Filetto, 30 marzo 2014
di Emanuele Borserini
Introduzione
Racconta il cardinale Federico Borromeo, intimo amico di San Filippo Neri come il cugino San Carlo, che egli “sentiva gran consolatione in tener solo il calice nelle mani”. Siamo arrivati al momento della celebrazione in cui il sacerdote si reca all’altare per ricevere il calice e gli altri doni e noi ci mettiamo seduti perché è un momento di preparazione. Per comprendere il senso di questo rito possiamo leggere il vangelo della pesca miracolosa: Gv 21,1-13. Il versetto 1 colloca questo evento straordinario “dopo questi fatti” cioè dopo la risurrezione, siamo quindi nel contesto della Pasqua e della sua celebrazione. Ma i fatti riguardano la Pentecoste: nel capitolo precedente infatti Gesù dice “ricevete lo Spirito Santo” (20,22). Conclusasi la vicenda terrena di Gesù, con la Pentecoste inizia il tempo della Chiesa quindi della liturgia. Ma ancor più chiaramente è il versetto 13 che li assicura alla Messa: “prese” e “diede” sono esattamente i verbi dell’Eucarestia. Leggendo il racconto si percepisce all’inizio quel silenzio convenzionale che segue a certi eventi della vita particolarmente coinvolgenti dal punto di vista emotivo ma che restano non del tutto chiari. Pensiamo a questi uomini che, dopo aver seguito da vicino Gesù che prometteva loro il Regno di Dio e glielo aveva fatto vedere attraverso i miracoli, ad un certo punto se lo vedono strappato e ucciso barbaramente e probabilmente avevano buoni motivi per temere anche per la loro stessa vita; come se non bastasse, succede una cosa ancora più strana che è la risurrezione, iniziavano forse a gustarla ma certo le domande dovevano essere ancora molte. Psicologicamente bombardati e orami ritornati alle loro occupazioni, restano in silenzio ma, come sempre, c’è qualcuno che prende l’iniziativa e rompe questa tensione formale. È Pietro che dice “io vado a pescare” (v. 2), gli altri rispondono prontamente “veniamo anche noi con te” (v. 3) e vengono premiati con un incontro tutto speciale con Gesù. Anche noi, se stiamo con il papa e la Chiesa possiamo essere certi di incontrare Gesù. A volte non capiamo perfettamente tutte le sue scelte ma val la pena di fidarsi. Per la liturgia questo è determinante perché tra le tante sue definizioni la migliore è forse quello di “preghiera della Chiesa”, quando cioè la preghiera non è più soltanto la mia ma il dialogo della Sposa con il suo Sposo. Confrontandosi con la Chiesa, la preghiera personale cresce e nel suo sublime dialogo esce dal rischio di passare dal dialogo al monologo.
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo: dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna
Questa preghiera, insieme a quella del vino, è spesso coperta dal canto ma il sacerdote la recita sempre. Ritorniamo al nostro racconto: Gesù si manifesta, i discepoli lo riconoscono ma fino alla fine non hanno il coraggio di dire nulla, allora di nuovo qualcuno prende l’iniziativa e questa volta è Gesù che dice loro di gettare le reti dall’altra parte (v. 6). Non erano pescatori per hobby e sapevano benissimo cosa fare, se non le avevano gettate a destra c’era un preciso motivo tecnico, tuttavia si fidano: essendosi fidati della Chiesa, ora si possono fidare di Gesù. E scoprono così che il senso e il frutto a tutto il loro fare, al di là delle proprie convinzioni, lo da soltanto il Signore. Nell’offertorio della Messa noi non portiamo all’altare il grano e l’uva ma il pane e il vino cioè gli elementi naturali già trasformati dal nostro lavoro. Il lavoro nasce come maledizione in seguito al peccato originale ma vediamo che anche la maledizione, quindi tutte le fatiche e la dispersione che viviamo ogni giorno, se le diamo al Signore portano misteriosamente frutto. Se uno vuol fare da sé, Dio glielo permette ma sappiamo che “chi non raccoglie con me disperde” (Lc 11,23). Dio crea l’uomo al termine della creazione “che era cosa buona” e tutta la affida a lui perché è “cosa molto buona”. Noi siamo i luogotenenti di Dio nel mondo e questo ruolo comporta una grande responsabilità perché, portando a Dio pochi elementi lavorati, possiamo offrirla tutta a lui, sottrarla al dominio del male sotto sui è caduta a causa del peccato. Secondo il Concilio Vaticano II, questo è il compito preciso dei laici: la consacrazione del mondo (LG 31). Oltre alle preghiere, ci sono alcuni segni che ci ricordano che tutto quello ce facciamo è una continua consacrazione. Per esempio l’incenso: sin dall’antichità ciò che viene incensato diventa diverso da tutto il resto, come se fosse tolto dal resto e riservato a Dio. Incensando il pane e il vino sull’altare, intendiamo consacrare a Dio tutto ciò che con essi portiamo. Nei versetti 9 e 10, vediamo che Gesù ha già preparato il cibo ma chiede ai suoi discepoli di portare un po’ del pesce appena pescato. Sembra un controsenso: è già tutto pronto, eppure vuole che anch’essi portino il loro pesce. Questo è esattamente il senso dell’offertorio: nemmeno la creazione intera con tutte le sue galassie aggiungerebbe nulla all’infinito e all’eterno, eppure Dio vuole ancora qualcosa. Il sacrificio di Gesù sulla croce è perfetto ma ogni volta nell’offertorio è come se ci dicesse: portatemi qualcosa di vostro! Il fondamento è nell’essenza stessa di Dio perché “Dio è amore” (1Gv 4, 8 e 16) e l’amore non si può imporre. Molti sono atei o indifferenti eppure vediamo che vivono tranquillamente, non scende un fuoco dal cielo a consumarli. Dio non vuole una risposta forzata ma libera, se ci obbligasse non ci sarebbe amore perché ha detto “non vi chiamo più servi ma amici” (cfr. Gv 15,15). Dio ha fatto questa scelta, rischiosa ma l’ha fatta. Durante tutto il giorno è un continuo rinnovare la nostra risposta libera a stare con Dio e sappiamo quanto è difficile. Un peccato avviene semplicemente quando diciamo a Dio: non voglio stare con te! Nell’offertorio questo si concretizza portando l’unica tra le cose che Dio ci ha donato che sia completamente a nostra disposizione: la libertà. Il prefazio comune IV dice infatti: “Tu non hai bisogno della nostra lode ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie”. San Paolo usa una bellissima immagine per descrivere questo rapporto: “il mio sangue sta per essere parso in libagione” (Fil 2,17). La libagione era una pratica dei greci e dei romani che prevedeva di versare del vino o dell’olio sopra la vittima immolata agli dei. Il sacrificio dell’animale era di per sé sufficiente ma sentivano il bisogno di aggiungervi qualcosa e Gesù porta a compimento questa esigenza naturale. Cristo è la vera vittima, noi la libagione.
L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di colui che ha voluto assumere la nostra natura umana
Preparando il calice, il sacerdote vi versa qualche goccia d’acqua. Seppur importante, è un gesto piccolo e quasi nascosto forse perché, come Dio che è grande, infinito, eterno è venuto a salvarci incominciando come bambino e finendo come crocifisso, così anche le cose più importanti ce le dice in un modo nascosto al mondo aiutandoci ad affinare la nostra mente e il nostro cuore per riconoscerlo nelle piccole cose. Quelle gocce che non cambiano nulla alla sostanza del vino sono la nostra libagione, un’immagine di come nel culto perfetto di Gesù al Padre ci siamo dentro anche noi. La preghiera che lo accompagna fa riferimento esplicito al mistero fondamentale della liturgia: l’Incarnazione, Dio che ha voluto assumere la nostra natura. Dio si è fatto vedere prendendo un corpo come il nostro, per questo possiamo incontrarlo attraverso i segni e i gesti. Accogliendo Dio che ci viene incontro in questo modo si realizza la profezia del Sal 82,6, “voi siete dèi”. Stando con Dio diventiamo come lui e possiamo cominciare sin d’ora a stare con lui: un’altra bella definizione di liturgia è “il cielo sulla terra” perché lì incominciamo a fare quello che faremo per tutta l’eternità. Ecco perché Adamo ed Eva cascarono tanto facilmente nell’inganno del serpente: non era follia ma la stessa proposta di Dio. La differenza è solo nel modo di arrivarci: stando con Dio o contro di lui. Ogni volta che facciamo un peccato andiamo dietro alla stessa proposta di felicità. Da una parte, ottenendo tutto e subito, dall’altra parte c’è invece uno stare insieme nella libertà e nell’amore. Non ha senso portare all’altare nulla oltre a pane e vino perché se non fosse già tutto dentro a quei doni vorrebbe dire che staremmo in chiesa a perdere tempo. Dobbiamo sentirci dentro a quelle gocce, sentirci dentro nel calice. San Filippo ne traeva grande consolazione spirituale perché sapeva che lì c’era dentro Dio ma anche lui stesso e tutto il suo stare con Dio. Come tutti i santi, egli era sempre alla presenza di Dio ma nella liturgia lo viveva in modo particolare.
Lavami, Signore, da ogni colpa, purificami da ogni peccato
Dopodiché il sacerdote compie un altro gesto simbolico, il lavabo. Esso è del tutto inutile perché si spera abbia già lavato le mani prima di salire all’altare di Dio. Queste preghiere che non sentiamo mai, come quella che recita appena prima “Umili e pentiti accoglici, o Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te”, si chiamano apologie. È vero che il sacerdote ha un ruolo determinante nella liturgia che è quello di presiederla e deve far vedere in ogni modo che egli è sacramento di Cristo-capo, però è vero anche che Dio rispetta sempre la libertà, anche del sacerdote, quindi anch’egli sale all’altare con tutta la sua umanità e tutte le sue fragilità e qualche volta ha bisogno di dire qualche preghiera per se stesso. Ed è bene che se lo ricordi perché il protagonista della liturgia non è il prete ma Gesù. Finiscono così i gesti di preparazione, quindi ci si alza e si viene incensati. Il cristiano partecipa alla Messa diversamente da un non battezzato perché con il battesimo cambia qualcosa in noi: abbiamo una dignità nuova tanto da poter essere incensati. Ci sono stati migliaia di cristiani che nei primi secoli si sono fatti uccidere per non bruciare un poco di incenso a una persona, l’imperatore romano. Eppure noi veniamo incensati perché abbiamo una dignità di consacrati, siamo separati dagli altri, riservati a Dio come le offerte poste poco prima sull’altare. Scrive San Leone Magno: “riconosci, cristiano, la tua dignità!”.
Pregate, fratelli, perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente
Diverso è però il modo di essere consacrati, per questo il sacerdote non dice “nostro sacrificio” ma “mio e vostro”. Riconoscere questa verità non sminuisce nessuno perché quella del sacerdote è una consacrazione speciale proprio perché è volta al servizio di quella battesimale. Ed è un servizio che Dio stesso ha voluto fosse necessario perché il nostro sacerdozio potesse essere efficace. Tutto il nostro dialogo con Dio non può che passare attraverso Cristo per mezzo del quale e in vista del quale siamo creati: in quel momento egli si rende presente nel sacerdote. Questo è il senso del gesto tipicamente presidenziale delle mani allargate che formano come un alveo per cui passano le nostre preghiere. Tutto quello che abbiamo portato, il nostro saltar dentro nel calice verrà innalzato dal sacerdote. Nella Chiesa la gerarchia è intrinsecamente servizio come ha mostrato Gesù stesso con la lavanda dei piedi. Per chi si conforma a Cristo, quindi ogni battezzato, l’unica dinamica efficace per vivere tale consacrazione è quella dell’amore e del servizio reciproco.
Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa
Scopo della liturgia è benedire la gloria del Signore ma anche quello di chiedere la sua benevolenza. Ogni volta che benediciamo Dio essa ritorna come sua benedizione su tutta la Chiesa perché tutto ciò che doniamo a Dio non ci è sottratto ma restituito infinitamente migliore. Abbiamo dunque una responsabilità: siamo lì non solo per salvarci l’anima ma anche per collaborare alla salvezza di tutti gli uomini. Gesù è l’unico redentore ma anche noi collaboriamo alla sua opera di salvezza con la nostra preghiera. Questo dialogo mistico con Dio è reso visibile dalla liturgia attraverso i numerosi dialoghi tra l’assemblea e il celebrante. Infine, l’orazione sulle offerte conclude questo lungo rito che possiamo chiamare primo offertorio.
Il Signore sia con voi. E con il tuo spirito. In alto i nostri cuori. Sono rivolti al Signore. Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio. É cosa buona e giusta
Quello che apre il prefazio è un dialogo che affonda le sue radici nella liturgia della Pasqua ebraica. Essa prevede che il più piccolo chieda al capo famiglia il motivo per cui si compie quel rito e la risposta del padre, raccontando le meraviglie fatte da Dio per Israele, le rende presenti e operanti nei presenti. Questo è ciò che significa memoriale: “Il Signore non ha stabilito questa alleanza con i nostri padri, ma con noi che siamo qui oggi tutti vivi” (Dt 5,2-3). Il testo del prefazio recitato dal sacerdote-padre è proprio questa risposta e ci dice che la salvezza sta succedendo qui e oggi. Con questo rimando forte, il prefazio ci immette nel momento centrale della Messa, la liturgia eucaristica. Inoltre, l’Eucarestia, che significa letteralmente ringraziamento, è la più logica conseguenza dell’invito del dialogo. I testi dei prefazi sono meravigliosi anche dal punto di vista letterario. Sono dei compendi di teologia espressi in poesia che difficilmente un manuale potrà raggiungere per quante pagine possa riempire. Sono una vera miniera spirituale, pregare con i prefazi è quasi come pregare con i salmi.
Santo, santo, santo il Signore Dio dell’universo
Il prefazio si conclude con il canto degli angeli. Essi, se non por incarichi speciali di Dio, non fanno altro che dirsi l’un l’altro quanto è santo il Signore (cfr. Is 6, 3). In quel momento cantiamo insieme con gli angeli, davvero possiamo sentire il cielo sulla terra. È un canto e come l’Alleluia va cantato altrimenti perde molto del suo senso. Tuttavia, “Dio dell’Universo” non è la traduzione migliore della parola ebraica originale che è rimasta pressoché identica nel latino sabaoth perché essa significa “Dio degli eserciti”. E questo nome, mentre ci fa cantare con gli angeli, ci riporta alla dura realtà: la vita cristiana è una battaglia e la liturgia non è da meno. Tutta la storia della salvezza è la guerra tra Bene e il male, Dio l’ha già vinta ma ancora stiamo combattendo le ultime battaglie. Nella liturgia riceviamo dal Generale le strategie per combattere le piccole battaglie di ogni girono.
Manda il tuo Spirito a santificare questi doni
Incomincia così la preghiera eucaristica. Dopo qualche altra parola di lode, ecco una preghiera che si chiama epiclesi, parola difficile che significa semplicemente invocazione dello Spirito Santo. Dopo il primo offertorio ecco la prima epiclesi dove lo Spirito Santo è invocato perché faccia diventare il pane e il vino corpo e sangue di Gesù. Il suo compito è quello di santificare, lo dice il nome stesso, cioè far diventare diverse le cose, farle diventare come Dio che è santo. L’epiclesi è sempre unita ad un gesto tanto semplice quanto grande: l’imposizione delle mani. Tutte le cose che Dio compie nell’Antico Testamento sono raccontate come l’agire del suo braccio, della sua mano o anche solo del suo dito. Il Veni creator chiama lo Spirito Santo proprio digitus paternae dexterae, dito della mano destra di Dio. Davanti a questa potenza di Dio, i si mete in ginocchio. Le norme generali del Messale prevedono che ci si inginocchia dall’epiclesi al “Mistero della fede”, tuttavia, dicono anche che dove è uso che ci si inginocchi sin dal Santo “tale uso può essere lodevolmente conservato” (IGMR 43). Che non sia obbligatorio non significa che sia accuratamente da evitare.
Ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie questo sacrificio vivo e santo. Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa, la vittima immolata per la nostra redenzione
Poi accade il grande miracolo della presenza reale di Gesù con il suo copro e il suo sangue di cui parleremo la prossima volta. Ed ora che essa è lì presente possiamo fare l’unica vera offerta gradita al Padre. E con Gesù ci siamo anche noi dentro a quel calice. È il secondo offertorio.
E a noi che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo, in Cristo, un solo corpo e un solo spirito
Come dopo il primo offertorio c’era un’ epiclesi, così dopo il secondo c’è la seconda epiclesi. Ed è l’invocazione dello Spirito Santo su di noi uniti a Gesù. Lo Spirito Santo viene chiamato a santificare anche noi cioè a farci diventare come Dio. Unendoci a lui, in un modo apparentemente inutile come il pesce pescato messo insieme al pesce già preparato da Gesù, diventiamo come lui. Se invece mangiamo del frutto dell’albero diventiamo come il diavolo, infelici. L’augurio è quello di sentire la stessa consolazione di San Filippo tenendo attraverso il prete quel calice tra le mani per diventare “un sacrificio perenne a te gradito” come prosegue il testo di questa seconda epiclesi.