La morte e i giudizi

di don Pietro Cantoni

La filosofia è per Platone preparazione alla morte. La morte infatti è un evento certissimo che si presenta però come soglia tra questo mondo, che è il mondo della nostra esperienza ordinaria, con l’”altro” mondo che non conosciamo direttamente. La morte ci parla dunque il linguaggio del mistero e – di suo – ci spinge a riflettere, a pensare e a decidere in ordine a tutta quanta la nostra vita. Che ci sarà dopo? Ma ci sarà poi veramente un “dopo”? Sono domande che riguardano il futuro (che può essere anche molto prossimo…) ma inevitabilmente anche il presente, perché “la” fine della vita mi spiega anche “il” suo fine. Se “dopo” non c’è nulla, allora il senso della mia vita è nulla! E questo vale già ora. Ma già ora io vivo come se la mia vita avesse un senso e non posso proprio fare altrimenti. Nessuno compie atti a casaccio, convinto che uno vale l’altro. Mi alzo e mi vesto per recarmi a lavorare. Lavoro per guadagnare di che vivere. Vivo per realizzare diversi scopi: farmi una posizione, avere una famiglia, coltivare i miei interessi… Tutto quello che l’uomo fa lo fa per un fine, per uno scopo. Purtroppo spesso succede che l’uomo si preoccupa solo dei fini prossimi, immediati, lasciando senza risposta la domanda sul fine ultimo, che è poi la più importante. Perché in definitiva faccio tutto quello che faccio? La morte è quell’evento che – se lo prendi sul serio – ti costringe ad arrivare fino a questa domanda fondamentale: qual è il senso della mia vita? Anche chi arrivasse alla tragica conclusione che non vale la pena vivere e volesse suicidarsi, lo farebbe sempre convinto (a torto naturalmente!) di sfuggire così all’infelicità in cui è immerso e raggiungere la pace e la tranquillità… Lo farebbe cioè per un fine.

Il nostro mondo occidentale, a partire dalla fine del Medioevo, ha assunto nei confronti del problema della morte un atteggiamento sempre più imbarazzato. La morte fa paura e si cerca di esorcizzarne il pensiero. Se nei paesini di montagna i cimiteri erano spesso davanti alle chiese, inevitabile e familiare luogo di transito tutte le volte che ci si recava a Messa o ai vespri o a visitare il Signore, nelle moderne città il cimitero si è spostato in periferia, lontano dagli sguardi e dall’attenzione quotidiana. Spesso è come “camuffato” in modo da non dare troppo nell’occhio. La morte per lo più avviene negli ospedali o nelle cliniche, in un luogo asettico e anonimo, lontano da quei luoghi che sono stati quelli della vita quotidiana e degli affetti familiari. La morte dà fastidio, perché fa pensare e fa volgere lo sguardo “oltre” il recinto della vita terrena.

C’è però un modo “tollerato” di parlare della morte: la morte spettacolo, quella dei film di violenza o dell’orrore, dove il sangue scorre a flotti e i morti si sprecano. Ma a morire sono sempre “gli altri”: quella morte non è mai la mia. Questo è il punto: se in una conversazione tra amici si parla della morte spettacolo, la trovata è accolta senza problemi, è divertente… Ma se il discorso si fa impegnativo e si parla della morte come la “mia” morte, come di quell’evento certo e inevitabile che sta davanti a me, sul mio cammino, allora cambia tutto. L’argomento può essere trovato imbarazzante, di cattivo gusto. Epicuro, un altro filosofo greco posteriore a Platone, aveva trovato il modo di esorcizzarlo con questo ragionamento: “La morte non mi riguarda, perché quando c’è lei non ci sono più io e fintanto che io ci sono lei non c’è ancora”. Aveva però dimenticato che la morte è un processo che ci accompagna. “Il vostro corpo è [già] morto a causa del peccato” (Rm 8,10). Tutti noi sperimentiamo, attraverso le debolezze della vita, la malattia e la sofferenza che la morte fa già parte della nostra esistenza. Essa ci accompagna, come accompagna il cavaliere in viaggio nella famosa incisione di Albrecht Dürer. L’uomo può sforzarsi di sfuggirne il pensiero. Ma la realtà della vita continua inesorabilmente a rimetterla davanti ai suoi occhi.

La fede cristiana esorcizza la morte non dimenticandola, nascondendola o minimizzandola, ma conferendole un significato di salvezza. Essa è entrata nel mondo a causa del peccato, ma in Cristo è diventata sorgente di vita. La morte per il cristiano è partecipazione alla morte di Cristo e quindi alla sua resurrezione. Naturalmente deve essere una partecipazione umana, quindi libera. Morire in Cristo, vuol dire morire con fede, facendo della morte un dono della propria vita al Signore.

Quando? Non si sa. Gesù usa un immagine molto vivida: quella del ladro. I ladri non si presentano su appuntamento… “Sappiate bene questo: se il padrone di casa sapesse a che ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate” (Lc 12,39-40). La venuta del Signore si compie improvvisa soprattutto quando l’uomo si bea in una sciocca sicurezza: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto [cioè: stupido!], questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” (Lc 12,16-20). “Come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore. E quando si dirà: “Pace e sicurezza”, allora d’improvviso li colpirà la rovina” (1 Tess 5,2-3; cfr. 25,1-13; 2 Pt 3,10; Ap 3,3; 16,15).

Tutta la nostra vita si svolge alla luce di un giudizio che incombe. C’è però una grande differenza fra il tempo prima e il “tempo” dopo la morte. “Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei per via con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia e tu venga gettato in prigione. In verità ti dico: non uscirai di là finché tu non abbia pagato fino all’ultimo spicciolo!” (Mt 5,25). Il sacramento della penitenza ha la forma di un processo: noi siamo testi di accusa e ci sottoponiamo volontariamente al giudizio di Gesù, tramite il suo ministro, che è giudizio di misericordia (assoluzione). Alla nostra morte, subito, saremo immersi nella luce di Dio che metterà in mostra quelle che realmente siamo. Nulla può rimanere nascosto al suo sguardo e nulla resterà impunito di ciò che non è stato perdonato al tribunale della misericordia.

Oggi si va diffondendo un’altra concezione della morte apparentemente più rassicurante: quella fornita dall’ideologia della reincarnazione. La morte sarebbe solo un passaggio da un corpo ad un altro, da un’esistenza ad un’altra. Si tratta di una dottrina che ha avuto successo soprattutto in oriente. In occidente non è mai stata completamente dimenticata, ma conosce ora un certo revival. Il cristianesimo l’ha sempre respinta sin dalle origini, perché l’esistenza dell’uomo è unica, come unico il suo corpo: “è stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio” (Eb 9,27). Come è evidente dalla parabola del povero Lazzaro e anche dall’episodio del buon ladrone, dopo la morte segue immediatamente il giudizio e la retribuzione in rapporto alla fede e alle opere che da queste fede saranno scaturite. La fede infatti opera mediante l’amore (Gal 5,6) e il giudizio verterà proprio sull’amore: “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore” (san Giovanni della Croce).

Il giudizio incombe sul singolo e sulla storia. Perché il singolo è indissolubilmente legato a tutta la storia. Per cui, finché la storia non è finita non è neppure definitivamente conclusa la vicenda del singolo uomo. Questo è il motivo del giudizio universale e della “risurrezione della carne” che è rimandata a questo evento. “Può un uomo essere considerato già del tutto finito e la sua storia conclusa fintanto che per causa sua si sta ancora soffrendo, fintanto che una colpa commessa da lui continua a ripercuotersi sulla terra e fa soffrire degli uomini? La dottrina del karman (dell’induismo e del buddismo) ha sistematizzato a modo suo questa sapienza da sempre insita nell’uomo e l’ha resa anche più grossolana […]. Tuttavia essa esprime una sapienza arcaica […]: un peccato che continua a ripercuotersi è un pezzo di me stesso, si riflette in me stesso ed è quindi pure una parte del mio costante assoggettamento al tempo, nel quale a causa mia degli uomini continuano a soffrire in un modo molto reale e che riguarda quindi anche me. Tra parentesi: da qui si può comprendere pure la connessione interiore dei dogmi dell’assenza del peccato in Maria e della sua assunzione corporale in cielo: la Madonna è totalmente a casa, perché da lei non è uscita colpa alcuna che faccia soffrire gli uomini e continui ad operare nella passione che è il pungiglione della morte nel mondo” (Joseph Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 1979, p. 197. Traduz. modificata sull’originale).

Ora molte cose rimangono nascoste, ma verrà un giorno in cui tutta la storia sarà giudicata da Cristo. Perché lui è il senso della storia. La nostra vicenda si inserisce in questo grande quadro, dalla Genesi all’Apocalisse. Qualunque sia il nostro ruolo sociale apparente esso ha un senso e un’efficacia rispetto ad esso e anche in quella luce verrà giudicato… La salvezza è un affare personale, ma non individuale.

 

Bibliografia:

Joseph Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna (Piccola Dogmatica Cattolica 9), Cittadella, Assisi 1979.

Giacomo Biffi, Linee di escatologia cristiana, Jaca Book, Milano 1990/2ª ed.

Philippe Ariès, L’ uomo e la morte dal Medioevo a oggi (Biblioteca Universale Laterza 129), Laterza, Bari 1989/2ª.

Vittorio Messori, Scommessa sulla morte, La proposta cristiana: illusione o speranza?, SEI, Torino 1982.

Pietro Cantoni, Cristianesimo e reincarnazione (Religioni e Movimenti 8), Elle Di Ci, Leumann (TO) 1997.

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