Compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennèsaret e approdarono. Scesi dalla barca, la gente subito lo riconobbe e, accorrendo da tutta quella regione, cominciarono a portargli sulle barelle i malati, dovunque udivano che egli si trovasse. E là dove giungeva, in villaggi o città o campagne, deponevano i malati nelle piazze e lo supplicavano di poter toccare almeno il lembo del suo mantello; e quanti lo toccavano venivano salvati. (Mc 6, 53-56)
L’uomo è un essere sociale per natura e non può vivere senza relazione con gli altri. Nella malattia scopre di essere solo, soprattutto quando non può muoversi. Sembra incredibile, ma spesso la malattia rappresenta una grande verifica sociale della nostra vita, perché rivela chi è veramente in relazione con noi. Ha anche una funzione religiosa, perché quando non siamo pressati da incombenze lavorative, prevale la dimensione contemplativa, riflettiamo su tutta la nostra vita ed emerge ciò che è vero da ciò che è falso. Sant’Ignazio di Loyola scrive che la malattia è un dono non inferiore alla salute. Sant’Agostino era un fiero nemico dei pelagiani, che credevano che l’uomo potesse vivere con moralità solo con la forza di volontà. Ma se fosse così, perché allora avrebbe bisogno di Dio? La malattia, la fragilità del nostro corpo, sono i migliori predicatori per convincerci che abbiamo bisogno ad ogni nostro passo della grazia di Dio. Spesso nei santuari vediamo persone che cercano un contatto con la statua del santo o con un oggetto benedetto. C’è chi si scandalizza e li paragona a gesti superstiziosi. Ma chi nel vangelo cercava un contatto con il mantello di Cristo, non era in condizioni differenti dalle nostre.
È la fede che guarisce, non certo il solo contatto di per sé; quanto il contatto come espressione della fede. Il valore dell’uomo è nel suo cuore, nel pensiero, nella fede. Ma ci esprimiamo non solo a parole, bensì con lo sguardo e un infinito panorama di piccoli gesti. Anzi, più le persone si conoscono, meno hanno bisogno di parole. Toccare la cornice di un’immagine sacra di per sé non ha valore, ma per chi crede può essere l’espressione di una grande fiducia, ed è quella fiducia che fa i miracoli. Con la malattia ci rendiamo conto della nostra debolezza davanti a Dio, e questo è un grande dono. La conoscenza della nostra debolezza non toglie però il coraggio e la voglia di vivere. C’è un detto: “È debole solo colui che ha perso la fede in sé stesso ed è piccolo solo colui che ha un piccolo fine”. Il sentimento della debolezza è negativo se accompagnato dalla desolazione, dall’isolamento, dall’abbandono; invece diventa forza se ci dà la possibilità di diventare coscienti della presenza di un Altro, forte, che ci sta accanto per aiutarci. Chi perde la strada, in montagna, a forza di camminare può stancarsi da non reggersi in piedi; ma se a quel punto incontra qualcuno che si offre di ricondurlo a casa, ecco che gli tornano le forze. Così è anche nell’incontro con Gesù, che ci restituisce le energie e ci guarisce con la sua Presenza. Infatti nella malattia il problema non è mai soltanto fisico, c’è sempre al fondo una diminuita volontà di vivere. Con Cristo vicino possiamo vivere anche nella malattia, nella debolezza e persino nella morte, secondo quella libertà e consolazione che Gesù mostra nella sua Passione.
(cfr. T. Spidlik – Il vangelo di ogni giorno)