don Pietro Cantoni
(Cristianità n. 118, febbraio 1985, pp. 13-15)
Domande al cardinale Joseph Ratzinger. Una serie di giudizi del teologo prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, provocati dal quinto centenario della nascita di Lutero. Le permanenti radicali divergenze fra il cattolicesimo e la Riforma, e il carattere utopistico di “soluzioni ecumeniche” sostanzialmente fondate su operazioni di politica, ecclesiastica.
Il quinto centenario della nascita di Lutero, che è caduto il 10 novembre 1983, è ormai alle spalle, ma la eco delle dichiarazioni, delle discussioni e delle polemiche che ha suscitato non si è ancora spenta.
Il cattolico si è trovato di fronte ad affermazioni che hanno talora colpito profondamente la sua coscienza di fedele, tese a presentare il maggiore esponente della Riforma protestantica addirittura come “testimone della fede” e come “padre della fede”; e il suo sbalordimento è stato tanto maggiore in quanto esse non sono state fatte dagli ambienti del protestantesimo, ma da personalità – e, spesso, non di secondo piano – della stessa Chiesa cattolica.
E dunque radicalmente cambiata la immagine cattolica di Lutero? Si è veramente passati dalla “scomunica” alla “canonizzazione”? E vero che la ricerca scientifica ha ormai condotto, inesorabilmente, a una revisione della vecchia immagine cattolica del principale protagonista della rivolta protestantica?
Ancora: alla base di quella tremenda scissione, che proietta la sua ombra su tutta la storia della Chiesa e della Cristianità, sta, quindi, solamente un tragico equivoco? Che cosa si aspetta, allora, a dissiparlo al più presto? Se lo stesso punto di partenza della divisione non è più oggetto di contesa, che cosa ormai distingue i cattolici dai riformati?
Questi e altri interrogativi si sono certamente affacciati alla mente e alla coscienza del fedele, incessantemente colpito da quanto giornali, radio e televisione hanno detto a proposito di Lutero. E questi interrogativi gli si sono presentati con caratteri tanto più inquietanti quanto più la reiterazione delle tesi citate è caduta su un terreno particolarmente sguarnito, dal momento che la corretta informazione a proposito di Lutero non caratterizza certamente la maggioranza dei fedeli cattolici italiani.
Gli autentici contributi alla chiarezza non sono stati particolarmente abbondanti, e la opinione pubblica cattolica italiana è stata, anzi, privata di uno dei più importanti, costituito da una intervista rilasciata dal cardinale Joseph Ratzinger alla rivista Communio (1).
Anche se non si tratta di una presa di posizione ufficiale del prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede in quanto tale, essa risente, tuttavia, della morale autorevolezza dell’intervistato, nonché dell’autorità scientifica indiscussa del teologo Joseph Ratzinger. Come fattore che accredita ulteriormente la “conoscenza di causa” si può aggiungere anche la nazionalità del porporato, dal momento che il noto biografo spagnolo di Lutero Ricardo Garcia-Villoslada, al termine di una fatica ingente per mole e per serietà scientifica, ha creduto di potere affermare che il perfetto biografo del riformatore può essere soltanto tedesco.
Certo, al fedele cattolico in quanto tale non interessa tanto il problema – tutto di competenza dello specialista – relativo a quale sia stata, nei dettagli, la personalità autentica del dottor Martin Lutero, quanto quello, molto più vitale, riguardante gli errori del riformatore tedesco e se li debba ancora considerare come tali.
Si è sentito dire che la Lutherforschung, cioè la “ricerca su Lutero” cattolica degli ultimi anni avrebbe provocato un radicale mutamento di prospettiva.
Il cardinale Ratzinger, nella intervista cui faccio riferimento, tratteggia i passaggi fondamentali di questa ricerca, dall’opera fortemente polemica di padre Heinrich Denifle O.P. alla interpretazione psicologica di padre Hartmann Grisar S.J., fino al decisivo apporto conciliatore di Joseph Lortz, del quale è la tesi secondo cui “Lutero ha combattuto in sè stesso un cattolicesimo che non era cattolico”.
“Sebbene Lortz stesso – dice il porporato – non abbia misconosciuto la profonda lacerazione, che si era in realtà consumata nella contrapposizione del riformatore, si è giunti, riallacciandosi alla sua opera e nella volgarizzazione delle sue affermazioni, a sviluppare la tesi secondo cui la divisione della Chiesa è stata propriamente un equivoco, che Pastori più riflessivi e attenti avrebbero potuto evitare”.
Le cose non sono, però, rimaste al punto in cui le ha lasciate Joseph Lortz. La generazione successiva ha mostrato come l’approfondimento scientifico potesse condurre a posizioni diverse. In particolare, il cardinale ricorda Paul Hacker, che identifica “la vera e propria svolta riformatrice nel mutamento della struttura fondamentale dell’atto di fede”, così come Theobald Beer, che constata non soltanto una profonda contrapposizione tra Lutero e la Scolastica – in questo sta uno dei positivi apporti di padre Denifle – ma anche tra Lutero e Sant’Agostino, con “importanti cedimenti nel campo della cristologia”. Sia nella prospettiva di Paul Hacker che in quella di Theobald Beer non vi è assolutamente spazio per la “teoria dell’equivoco” e per tentativi di armonizzazione.
Il problema dunque, anche dal punto di vista strettamente storico – ma non è, osserva il cardinale, solamente storico – resta almeno aperto.
Che cosa dire, quindi, della scomunica di Lutero? Il prefetto della Sacra, Congregazione per la Dottrina della Fede si ribella alla genericità della domanda. Infatti, “scomunica” è termine – in questo contesto – decisamente ambiguo: si deve distinguere la scomunica come misura disciplinare comminata a una determinata persona dai contenuti materiali che ne sono stati il motivo. “Poichè il potere canonico della Chiesa si riferisce naturalmente soltanti ai vivi, la scomunica finisce con la morte di colui che ne è colpito. Così, il problema di una soppressione della scomunica nei confronti della persona di Lutero è ozioso; essa è finita con la sua morte, perché il giudizio dopo la morte appartiene solo a Dio”.
Completamente diversa è la questione se la dottrina insegnata da Lutero sia ancora oggi causa di divisione. Questo è l’autentico nocciolo del problema. “Bisogna poi osservare che non vi sono soltanto gli anatemi cattolici contro la dottrina di Lutero, ma anche un rifiuto assolutamente esplicito di ciò che è cattolico da parte del riformatore e dei suoi seguaci, che ha il suo vertice nelle parole di Lutero secondo cui noi siamo divisi per l’eternità”.
Infatti, se è vero che “non si possono prendere semplicemente le parole scritte da Lutero a proposito del Concilio di Trento, in preda a una collera furibonda, per dimostrare quanto fu deciso il suo rifiuto del cattolicesimo: “[…] bisogna prendere il Papa, i cardinali e tutta la canaglia della sua empietà e della sua papale santità e strappare loro – come bestemmiatori – la lingua fino dal fondo della gola e, in fila, inchiodarli alla forca […]. Poi si lasci loro tenere un concilio, o quello che vogliono, sulla forca, oppure all’inferno sotto i diavoli””; tuttavia è fuori discussione che “Lutero, dopo la rottura definitiva, non ha soltanto rifìutato categoricamente il Papato, ma ha visto nella dottrina cattolica del sacrificio della messa un culto idolatrico […]. Ridurre semplicemente tutte queste contrapposizioni a equivoci è, a mio parere, un modo di procedere illuministico, che non tiene conto della lotta appassionata di quell’uomo e del peso delle realtà che erano oggetto di discussione”.
Certo, ammettere obiettivamente le divisioni non significa rinunciare al tentativo di superarle. Ma questo non può avvenire “mediante artifici esegetici”. “Se allora la divisione si produsse mediante esperienze religiose contrapposte, che non poterono trovare posto nel seno della dottrina ecclesiastica tradizionale, così anche ora non è possibile costruire la unità mediante dottrina e discussioni a sé stanti, ma soltanto mediante, una forza religiosa. La indifferenza è solo apparentemente uno strumento di unione”.
L’accenno all’indifferentismo porta a prendere in considerazione il pluralismo. Infatti, il pluralismo in teologia – sia nella teologia cattolica che in quella protestantica – non è stato, forse, un motivo di avvicinamento?
Anche a questo proposito il cardinale Ratzinger osserva che è necessario chiarire i termini. L’avvicinamento è un dato di fatto: soprattutto in campo esegetico, l’assunzione in comune del metodo storico-critico ha prodotto un avvicinamento tale che “l’appartenza ecclesiale dei singoli esegeti non ha quasi più importanza per le loro conclusioni”. Si tratta, però, di un fatto positivo da tutti i punti di vista? L’unità così raggiunta, cioè l’unità dei “risultati scientifici”, è “per sua natura continuamente sottoposta a revisione”. Ma il fedele ha bisogno di certezze, non di ipotesi scientifiche, che si accavallano e si contraddicono; e proprio nel luteranesimo si devono cercare le radici della sopravvalutazione della esegesi storico-critica.
“Lutero – precisa il porporato – aveva tolto i confini fra dottrina della Chiesa e scienza teologica. Una dottrina della Chiesa che si contrappone alla evidenza esegetica non è più, per lui, una dottrina della Chiesa. Per questo il suo dottorato in teologia ha costituito ai suoi occhi, per tutta la sua vita, una decisiva legittimazione della sua impugnazione dell’insegnamento di Roma”.
Permangono, dunque, fra cattolici e protestanti, differenze che costituiscono ancora fattori di divisione? “Che vi sono ancora, come prima, differenze che dividono, lo mostrano proprio i documenti di consenso”: questi ultimi anni hanno visto il moltiplicarsi di documenti emessi da commissioni dottrinali miste cattolico-protestantiche, con dichiarazioni dottrinali comuni: ebbene, sostiene il cardinale, sono proprio questi documenti a mostrare il permanere di sostanziali punti di divisione.
Quali sono questi punti di divisione, ancora oggi permanenti? “Scrittura e Tradizione, e quindi Scrittura e potere magisteriale della Chiesa, con la questione strettamente connessa del sacro ministero, della trasmissione apostolica come forma sacramentale della Tradizione e il suo riassumersi nel ministero di Pietro; carattere sacrificale della Eucarestia e il problema della trasformazione delle offerte ,e, quindi, dell’adorazione eucaristica al di fuori della messa (mentre sulla presenza reale di Cristo nell’azione sacra vi è unità di fondo): il sacramento della confessione; vedute differenti nel campo della morale cristiana, a proposito delle quali, naturalmente, torna ad avere importanza il problema del magistero, ecc.”.
E possibile ricondurre alla unità tutti questi particolari punti dottrinali, identificare, cioè, il Grundentscheid, la “opzione fondamentale” del luteranesimo, che regge tutto il suo organismo dottrinale? Si torna ancora al problema dell'”equivoco”. Se questa “opzione fondamentale” può essere ricondotta nell’alveo della tradizione cattolica, allora le sue conseguenze possono essere sciolte come altrettanti equivoci; altrimenti ci troviamo di fronte alla “differenza fondamentale”, attorno alla quale soprattutto si deve discutere e, come abbiamo visto, non solo discutere.
Il cardinale Ratzinger tratteggia il problema con ironia, ricordando un episodio: “Quando, in occasione della celebrazione della Confessio augustana (1980), il cardinale Willebrands disse che, nelle divisioni del secolo XVI, la radice era rimasta comune, il cardinale Volk fece, nello stesso tempo umoristicamente e seriamente, questa domanda: “Vorrei sapere se nell’esempio di cui si parla si tratta di una patata oppure di un melo. In altre parole: quello che è venuto fuori dalla radice sono tutte foglie oppure è proprio la cosa più importante, cioè l’albero?””.
Secondo il cardinale prefetto, su questo punto, in ultima analisi, si deve stare a sentire lo stesso Lutero, dal momento che è un vecchio vizio professionale degli interpreti sottovalutare la voce di chi si interpreta. Ebbene, “Lutero […] era convinto che la separazione dalla dottrina e dalla pratica della Chiesa papale, alla quale si sentiva obbligato, toccava proprio la struttura fondamentale dell’atto di fede”.
Insomma, ritorna il vecchio problema della giustificazione mediante la fede e mediante le opere. Oggi “è diventato abituale dire che non esiste più contrapposizione nella dottrina della giustificazione”, e questa convinzione si è fatta strada soprattutto a partire dall’opera di Hans Küng sul pensiero di Karl Barth. Ma, “dopo che Lutero ha fissato per tutta la vita la differenza centrale nella dottrina della giustificazione, mi sembra ragionevole, oggi come ieri, la supposizione che la differenza fondamentale si lasci trovare proprio a partire da questa posizione”.
A monte vi è, secondo il porporato tedesco, un atteggiamento religioso – si potrebbe forse dire, traducendo il suo pensiero, una tendenza… -, “perché religione può essere prodotta sempre, e soltanto mediante religione”.
“Alla base […] sta la paura di Dio, […] nella tensione tra ciò che Dio esige e la coscienza del peccato”. Questa esperienza fondamentale ha prodotto una “radicale personalizzazione della fede” e una “dialettica fede-legge”. Si tratta di due concezioni che, a partire dall’antropologia, hanno impregnato e condizionato tutto l’edificio dottrinale luterano. L’atto di fede si risolve nella certezza della salvezza personale, mentre le due immagini contrarie di Dio – Dio esigente – Dio misericordioso – danno origine a una dialettica, che si riflette nella dialettica Legge – Vangelo, Antico Testamento – Nuovo Testamento, ecc. Tutto questo è gravido di conseguenze enormi. La “radicale personalizzazione dell’atto di fede” porta. persino a un cambiamento nell’ordine delle virtù teologali, fede, speranza e carità. Se la fede “dà soprattutto la certezza della propria salvezza”, certezza della fede e certezza della speranza si identificano; la carità poi, che per il cattolico costituisce la intima forma della fede, ciò che rende viva la fede, è da Lutero estromessa dall’ambito della fede che salva “fino alla polemica formulazione del grande commento ai galati: maledicta sit caritas (sia maledetta la carità)”.
La sola fìde, su cui Lutero insiste tanto, vuole proprio dire questo: la esclusione dell’amore dalla questione della salvezza. “La carità appartiene al campo delle opere e diventa, dunque, “profana””.
Un atto di fede, poi, esclusivamente personale non è più quel “mitglauben”, quel “credere insieme”, al plurale, che postula necessariamente il dogma e il Magistero.
La dialettica conduce a una separazione tra l’antico Testamento e il Nuovo Testamento, nonché, all’interno del Nuovo Testamento, tra il Vangelo e le lettere di san Paolo.
E’ ovvio che simili radicali contrapposizioni non si lasciano superare da “un paio di operazioni di politica ecclesiastica”.
Spesso, in un certo linguaggio ecumenico, si parla di “riunificazione delle Chiese”: significa che si trovano di fronte due Chiese, quella di Roma e quella di Wittenberg? E ancora: in che senso si può parlare di ricomposizione della unità? E poi: la unità della Chiesa è da fare oppure vi è già?
Affrontare il problema ecumenico, in genere e nel suo specifico settore luterano, significa affrontare oppure riaffrontare questi problemi di fondo, che sono anche quelli sollevati dai documenti dell’ultimo concilio. A questo proposito il cardinale ripropone vigorosamente due punti di dottrina – desunti dallo spirito e dalla lettera del concilio stesso – che non dovrebbero mai essere persi di vista in questo genere di discussioni.
Anzitutto non si può assolutamente parlare di “Chiesa di Wittenberg”. Infatti, Lutero non ebbe mai la intenzione di fondare una “Chiesa luterana”; inoltre – e questo è l’elemento più importante – le “Chiese” regionali protestantiche “non sono “Chiese” in senso teologico, ma soltanto forme organizzative delle comunità cristiane, empiricamente utili o anche necessarie, ma, in circostanze diverse, pure modificabili […]. Per i cattolici invece, la Chiesa cattolica, cioè la comunità dei vescovi fra di loro e con il Papa, è, come tale, una istituzione del Signore immutabile e insostituibile”.
Nella concezione cattolica “Chiesa” ha un significato sacramentale, mentre in quella protestantica soltanto funzionale: parlare senz’altro di “Chiese” protestantiche, senza un’adeguata explicatio terminorum, può, dunque, essere fonte di gravi equivoci.
E la unità? Esiste già, oppure è da costruire? Il cardinale ritiene che questa questione, che costituisce il nocciolo dell’ecumenismo, deve – a vent’anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II – essere impostata di nuovo.
Un punto del dettato conciliare è stato particolarmente equivocato: si tratta del n. 8 della costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, il cui testo approvato dice che la vera Chiesa di Cristo “sussiste nella Chiesa cattolica”, mentre lo schema proposto alla approvazione diceva “è la Chiesa cattolica”. La vera Chiesa sarebbe dunque, nella sua unità e unicità, una utopia, verso la quale si tende, ma che non esiste ancora? Niente affatto, afferma il cardinale Ratzinger: “La vera Chiesa è realtà, realtà esistente anche ora”. Ergo, il “sussiste” vuole solo dare ragione della oggettiva presenza di elementi di dottrina e di prassi cattolica anche fuori dei confini visibili della Chiesa – Scrittura, sacramenti validi, ecc. -, elementi che hanno un intrinseco carattere ecclesiale e spingono alla unità cattolica. Non si tratta assolutamente, quindi, di immaginare una super-Chiesa che si rifletta parzialmente in ogni singola confessione e che debba ancora realizzarsi integralmente.
In conclusione, dunque, il prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede vuole riportare l’ecumenismo alla sua responsabilità di fronte alla verità: nessuna “operazione di politica ecclesiastica” oppure “artificio teologico” può fare sì che la questione della verità, che si pone a questo proposito “in una chiara alternativa”, possa essere soffocata. Infatti, nessuna stabile unità può essere costruita sul compromesso a danno della verità: “Per me il pensiero che si possa costruire questa unità mediante un “concilio veramente generale (ecumenico)” è un’idea ibrida: questa sarebbe la costruzione di una torre di Babele che potrebbe finire solo con una confusione ancora maggiore”.
“Per me”, dice il cardinale Ratzinger parlando a titolo personale, da teologo. Ma la sua tesi trova autorevole riscontro nella esortazione apostolica Post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, dove il regnante Pontefice, concludendo la parte del documento dedicata al “dialogo” in genere e a quello “ecumenico” in specie, afferma che “in ogni caso, la Chiesa promuove una riconciliazione nella verità, sapendo bene che non sono possibili né la riconciliazione né l’unità fuori o contro la verità”, e che la “Chiesa di Roma […] cerca un’unità che, per,essere frutto ed espressione di vera riconciliazione, non intende fondarsi né sulla dissimulazione dei punti che dividono, né su compromessi tanto facili quanto superficiali e fragili” (2).
(1) Cfr. Luther und die Einheit der Kirchen. Fragen an Joseph Kardinal Ratzinger, in Internationale Katholische Zeitschrift “Communio” anno XII, n. 6, novembre 1983, pp. 568-582. Tutte le citazioni, salva diversa indicazione, sono tratte da questa intervista, che purtroppo non è stata ripresa nella edizione italiana della stessa rivista.
(2) GIOVANNI PAOLO II, Esortazione apostolica Post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, del 2-12-1984, n. 9.