In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda». (Mt 18, 12-14)
Questa parabola di Matteo si può leggere parallelamente alle tre parabole della misericordia di Luca, di cui l’ultima – la parabola del figliol prodigo o meglio del padre misericordioso – è la più ricca di figure umane. Anche in questo passo di Matteo emerge la figura del pastore che non abbandona nessuna pecora, anche quella che nel peccato ha perduto ogni riferimento. La pecora è un animale che quando si perde, non è in grado di orientarsi e non sa ritornare all’ovile, a differenza di molte altre specie dotate di un incredibile senso dell’orientamento. L’esempio agreste utilizzato da Matteo, delucida il cuore confuso e devastato del peccatore. Se non fosse figlio di un padre buono, sarebbe perduto eternamente. Mosè ha pregato Dio per Israele – “popolo dalla dura cervice” (Esodo 32,9) – che gli era stato affidato. Sulla porta della casa del padre misericordioso, sta un figlio tanto inappuntabile quanto altezzoso, che ostacola l’amore del padre, ergendosi a giudice ferreo del fratello, che rientra a casa come peccatore pentito. Appartiene alla razza di quei farisei che, non avendo mai trasgredito un comando, con la sicurezza di essere nel giusto, nutrono disprezzo nei confronti degli altri, montano una guardia ringhiosa alla porta, e hanno la presunzione, non di assecondare come Mosè, ma amministrare, arginare e dosare la misericordia di Dio. Sono saccenti, ma non hanno appreso nulla dell’audace follia della carità. Sono i forti che non comprendono la debolezza della misericordia, di cui presto avranno bisogno anche loro, perché “la superbia parte a cavallo e ritorna a piedi”. La malattia peggiore, è quando non si sopporta che Dio sia più grande del cuore del peccatore (1Gv 3, 20). Il peccatore deve essere accolto, anzi cercato, amato. Ma a lui corre l’obbligo di pentirsi e convertirsi. Indispone una virtù che trasuda tristezza, durezza e zelo amaro. Talvolta si incontrano persone virtuose, che hanno l’aspetto di un grosso albero apocalittico, secco e tetro. Invece, la virtù è descritta nei salmi come un albero verdeggiante, piantato lungo i corsi d’acqua che porta belle fronde e frutti saporosi a tempo debito. Anche il virtuoso è chiamato a convertirsi. La virtù autentica è un tutt’uno con la vita, la fraternità, l’amicizia, il sorriso, la comprensione verso il debole. Quando la virtù si separa dalla festa, si separa dal Padre che mai ci abbandona nella tentazione.