Martedì 14 maggio 2024

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri» (Giovanni 15,9-17).


Soltanto Giovanni nella sua intima amicizia con Gesù poteva parlare in questi termini. L’amore genera figli di Dio, amici del Cristo, cancella la paura che è propria del servo per far sbocciare l’intimità filiale o amicale. Nel discorso della montagna il Salvatore pone la radice del nostro essere figli di Dio nell’amore: «Amate i vostri nemici, perché siate figli del Padre vostro celeste» (Mt 5, 44-45). La Prima Lettera di Giovanni afferma: «Chiunque ama è generato da Dio» (4,7). Ma Gesù usa per i suoi discepoli il termine amico, che in precedenza era stato usato soltanto per Abramo (cfr. Gc 2,23). Adesso esso è esteso a tutti i credenti, perché l’amore di Cristo abbatte le barriere e le distanze e crea una comunione di segreti e di vita: «tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi».

Nel poema Il Profeta lo scrittore di origine libanese Khalil Gibran (1883-1931) scrive: «Quando ami Dio non devi dire: Ho Dio nel cuore. Di’ piuttosto: sono nel cuore di Dio». Una vita cristiana progredisce nella misura in cui si sviluppa dentro di noi il senso dell’amicizia con Dio, fino a diventare prevalente rispetto a ogni altra concezione del nostro rapporto con Dio. Finché rimaniamo attestati nel territorio della paura, come innanzi al Dio che ti terrorizza, consideriamo Dio come nostro padrone. Lo vediamo in un’ottica punitiva, avvertiamo il suo giudizio incombente, e ci collochiamo davanti a lui nell’atteggiamento di servi, secondo il senso negativo che comunemente si dà a questo termine.

Significa che non abbiamo inteso il progetto dell’amore di Dio nei nostri confronti. Possiamo dire di essere stati toccati veramente dalla grazia solo quando sentiamo morire in noi, o almeno attenuarsi, lo spirito di servitù. Il test dell’amicizia rimane fondamentale per l’autenticità del nostro cristianesimo.

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