Catechesi liturgica 28 aprile 2013
“Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi” (Fil 2, 10).
Orientamento della preghiera e della vita
di Emanuele Borserini
Introduzione
Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica pone la precisa domanda “che cos’è la liturgia?” e risponde: “La liturgia è la celebrazione del Mistero di Cristo e in particolare del suo Mistero pasquale. In essa, mediante l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo, con segni si manifesta e si realizza la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Cristo, cioè dal Capo e dalle membra, il culto pubblico dovuto a Dio” (n. 218). Da questa definizione, si comprende che al centro dell’azione liturgica della Chiesa c’è Cristo, sommo ed eterno sacerdote, ed il suo mistero pasquale di passione, morte e risurrezione con cui egli ha offerto al Padre una volta per tutte un sacrificio perfetto (cfr Eb 9, 28). Le nostre celebrazioni liturgiche devono essere trasparenza di questa verità teologica perché “se nella celebrazione non emerge la centralità di Cristo non avremo liturgia cristiana” (Benedetto XVI, Udienza generale del 3 ottobre 2012).
La liturgia è per definizione adorazione, cioè uscita da sé e dal proprio egocentrismo per riconoscere chi davvero ha il posto centrale nella vita, nella società, nell’universo e nella storia. La liturgia così intesa è scuola di vita privata e pubblica che apre al riconoscimento della signoria di Dio. “Adorare il Signore vuol dire dare a Lui il posto che deve avere; adorare il Signore vuol dire affermare, credere, non però semplicemente a parole, che Lui solo guida veramente la nostra vita; adorare il Signore vuol dire che siamo convinti davanti a Lui che è il solo Dio, il Dio della nostra vita, il Dio della nostra storia” (papa Francesco, Omelia del 14 aprile 2013, Basilica di San Paolo fuori le mura). A Dio si deve culto, te decet hymnus Deus in Sion (Sal 65 (64)), ma la bellezza del cristianesimo è che non si adora una vaga idea di Dio ma il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe (cfr a titolo di esempio per rimanere in contesto liturgico 1Re 18, 36) o meglio il Dio di Gesù Cristo il quale però proprio in Gesù Cristo si è dato a conoscere perfettamente. Egli è una Persona, un amico che si mette in relazione con noi attraverso un linguaggio specifico che è quello liturgico. Quello dell’adorazione, dunque. E per l’uomo il gesto che esprime l’adorazione è sin dalla più oscura antichità quello di piegare le sue ginocchia, nella genuflessione o addirittura nella prostrazione. “Gesù non è presente nel mistero eucaristico per essere adorato ma il fatto che sia presente impone l’adorazione” (Divo Barsotti, “Il mistero della Chiesa nella liturgia”, San Paolo, Alba 2007). La liturgia, inoltre, coinvolge tutto il cosmo: tutto ciò che si trova “nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,10), prosegue il versetto da cui abbiamo estrapolato il titolo di oggi. È previsto (cfr OGMR 275a) che durante la liturgia si faccia un inchino al nome di Gesù (da cui derivano gli altri inchini della Messa cioè al nome delle tre Persone divine e di Maria), a quel nome che “al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2, 9) perché “in nessun altro c’è salvezza, non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato gli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4, 12). La Bibbia stessa, dunque, attesta che davanti a Gesù, al solo suo nome, ogni ginocchio si piega, addirittura chi è all’inferno (questo significa “sotto terra”) è ormai costretto a piegarsi davanti alla sua potestà. Non è un vago riconoscimento, ma vera e propria adorazione, piegamento di ginocchia, quindi liturgia. La liturgia che noi celebriamo sulla terra non fa che aiutarci a vivere qui e ora questa verità cosmica, non è una velleità questo piccolo segno del capo al sentire il nome del Salvatore.
Il Santo Padre Francesco, sorprendendo tutti coloro che per asservirlo alle proprie ideologie lo hanno superficialmente giudicato esente da qualsiasi sensibilità liturgica (per usare un eufemismo), già nel primo mese di pontificato ci ha donato ben due catechesi liturgiche di altissimo livello. Peraltro, ha anche dimostrato di saper utilizzare sapientemente entrambi i possibili canali della catechesi liturgica. Nella prima, infatti, ha usato un’immagine liturgica per spiegare una verità morale, nella seconda, invece, ha spiegato direttamente una formula liturgica. Leggendo i suoi discorsi e le sue omelie si intuisce molto bene che al centro di tutto il suo pensiero ci sia il Signore Gesù Cristo crocifisso per noi, segno ineludibile dell’amore misericordioso del Padre. Egli si pone così, ma non serviva dimostrarlo, in perfetta continuità con i suoi immediati predecessori pur nella grande differenza di stili che li contraddistingue. Proprio per questa centralità di Cristo, egli è anche naturalmente disposto a fare catechesi liturgica. Ma lasciamo la parola a lui.
“Le vesti sacre del Sommo Sacerdote sono ricche di simbolismi; uno di essi è quello dei nomi dei figli di Israele impressi sopra le pietre di onice che adornavano le spalle dell’efod dal quale proviene la nostra attuale casula: sei sopra la pietra della spalla destra e sei sopra quella della spalla sinistra (cfr Es 28, 6-14). Anche nel pettorale erano incisi i nomi delle dodici tribù d’Israele (cfr Es 28, 21). Ciò significa che il sacerdote celebra caricandosi sulle spalle il popolo a lui affidato e portando i suoi nomi incisi nel cuore. Quando ci rivestiamo con la nostra umile casula può farci bene sentire sopra le spalle e nel cuore il peso e il volto del nostro popolo fedele, dei nostri santi e dei nostri martiri, che in questo tempo sono tanti! Dalla bellezza di quanto è liturgico, che non è semplice ornamento e gusto per i drappi, bensì presenza della gloria del nostro Dio che risplende nel suo popolo vivo e confortato, passiamo adesso a guardare all’azione. L’olio prezioso che unge il capo di Aronne non si limita a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge “le periferie”. Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio diventerebbe rancido e il cuore amaro.” (Omelia del Santo Padre Francesco per la Messa crismale, 28 marzo 2013).
“Cristo ha vinto il male in modo pieno e definitivo, ma spetta a noi, agli uomini di ogni tempo, accogliere questa vittoria nella nostra vita e nelle realtà concrete della storia e della società. Per questo mi sembra importante sottolineare quello che oggi domandiamo a Dio nella liturgia: “O Padre, che fai crescere la tua Chiesa donandole sempre nuovi figli, concedi ai tuoi fedeli di esprimere nella vita il sacramento che hanno ricevuto nella fede” (Colletta del Lunedì dell’Ottava di Pasqua). E’ vero, il Battesimo che ci fa figli di Dio, l’Eucaristia che ci unisce a Cristo, devono diventare vita, tradursi cioè in atteggiamenti, comportamenti, gesti, scelte. La grazia contenuta nei Sacramenti pasquali è un potenziale di rinnovamento enorme per l’esistenza personale, per la vita delle famiglie, per le relazioni sociali. Ma tutto passa attraverso il cuore umano: se io mi lascio raggiungere dalla grazia di Cristo risorto, se le permetto di cambiarmi in quel mio aspetto che non è buono, che può far male a me e agli altri, io permetto alla vittoria di Cristo di affermarsi nella mia vita, di allargare la sua azione benefica. Questo è il potere della grazia! Senza la grazia non possiamo nulla. Senza la grazia non possiamo nulla! E con la grazia del Battesimo e della Comunione eucaristica posso diventare strumento della misericordia di Dio, di quella bella misericordia di Dio. Esprimere nella vita il sacramento che abbiamo ricevuto: ecco, cari fratelli e sorelle, il nostro impegno quotidiano, ma direi anche la nostra gioia quotidiana! La gioia di sentirsi strumenti della grazia di Cristo, come tralci della vite che è Lui stesso, animati dalla linfa del suo Spirito!” (Papa Francesco, Regina coeli, 1 aprile 2013)
“Fare di Cristo il cuore del mondo”
Si può dire che in tutto è in qualche modo impressa l’immagine di Cristo quindi tutto è potenziale simbolo di lui perché è per mezzo di lui e in vista di lui che tutte le cose sono state create (cfr Col 1, 16). Questa sacramentalità della realtà, poi, trova nell’Eucarestia il suo compimento e tutto il suo significato. È a mio parere affascinante constatare la pedagogia con cui Dio ci conduce a scoprirlo e conoscerlo sempre più attraverso l’approfondimento e la precisazione della dinamica del simbolo e del rito che è strutturalmente connaturata all’uomo in un procedimento che va dall’esterno verso il centro per poi tornare verso l’esterno. Mi spiego. Abbiamo detto che tutta la realtà è sacramentale, cioè immagine e in qualche modo simbolo di Cristo; non vi è nulla che esista fuori di Dio quindi completamente estraneo all’immagine del suo Verbo. Nell’insieme delle cose però ce ne sono alcune che più di altre portano in sé questa capacità di rimando in una ordinata e affascinante gradualità; ci sono elementi del cosmo più adatti di altri ad esprimere alcune verità su Dio. Pensiamo a tutte le immagini che popolano la letteratura biblica. Oppure pensiamo al trifoglio usato da San Patrizio per descrivere la Trinità. Senza scadere in un ingenuo panteismo (rischio oggi sempre meno infrequente), possiamo intravedere Cristo in ogni cosa, come del resto molti nostri santi e non di meno i profeti dell’Antico Testamento ci insegnano. Tra queste realtà ce ne sono alcune che oltre ad un’immagine portano con sé la capacità di veicolare anche una presenza di Dio: sono i sacramentali, quegli elementi o gesti naturali che il popolo di Israele prima e la Chiesa poi hanno assunto nei loro riti: l’olio, l’acqua, la benedizione … L’apice dei sacramentali è la parola di Dio scritta e in particolare il Vangelo. Da sempre i libri che contengono la sacra Scrittura e sono usati nella liturgia godono di una particolare venerazione, basti pensare all’evangeliario che viene portato in processione ed incensato. Inoltre, è certezza attestata dalla liturgia che il solo ascolto del Vangelo perdoni i peccati veniali, dice infatti la preghiera prevista per il sacerdote dopo la proclamazione del Vangelo: per evangelica dicta deleantur nostra delicta. Tra questi segni, sette riti ci sono indicati dalla Chiesa come certezza di contatto con l’opera efficace e salvifica di Cristo. Guardiamo la progressione. Per vedere il simbolismo della realtà basta l’intelletto umano, per i sacramentali è invece necessaria la fede di chi li amministra e di chi li riceve; infine, la responsabilità dei sacramenti è per così dire assunta direttamente da Dio il quale ci garantisce che attraverso la Chiesa l’uomo parla ma agisce Cristo, anche a prescindere dalla nostra fede. I sacramenti sono efficaci ex opere operato cioè per il fatto stesso che vengano amministrati. Gli esempi più immediati sono quelli del battesimo che può essere amministrato anche da un non cristiano a patto che faccia quello che con quel gesto intende fare la Chiesa, e della Messa che è valida anche se celebrata da un sacerdote indegno o scomunicato. I sacramentali lo sono, invece, ex opere operantis, si legano cioè alla fede dei credenti. Al di là di queste doverose sottolineature, proseguiamo ad osservare come il cerchio si sta stringendo perché tra i sacramenti ce n’è uno che non è solo presenza operante di Cristo ma sua presenza reale che rimane tale anche oltre la celebrazione. L’Eucarestia è il centro dei sacramenti, è come l’ultimo stadio possibile (dato a tutti, poi ci sono i doni mistici personalissimi) del percorso che abbiamo cercato di tratteggiare, la sua meta, il suo fine, il suo senso vero. Dalla più lontana immagine di Cristo si giunge fino a quest’ultimo velo il quale però è un velo che non nasconde ma manifesta Cristo stesso nell’unico modo a noi possibile da ricevere. È esattamente come la sua umanità che non nascondeva la divinità ma la manifestava nel modo che l’uomo può avvicinare. Nell’Eucarestia c’è Gesù con il suo vero corpo. Il percorso che abbiamo fatto è come un progressivo sollevamento di veli che pian piano ci porta al centro di tutto l’universo: Gesù Cristo, il Figlio di Dio davanti al quale ogni ginocchio si pieghi. Giunti a questo apice però non possiamo restare fermi a contemplarlo o meglio, senza smettere di contemplarlo, dobbiamo iniziare a seguirlo perché non è un centro statico ma è vita. Trovato il Signore, possiamo e dobbiamo seguirlo perché il suo amore è tanto forte che ci muove, “ci spinge” (2Cor 5, 14 che in latino è ben più eloquente: urget nos). È l’amore di Dio tanto forte che ci ha creati. E Gesù è il “Dio con noi”, il suo nome Emmanuele vuol dire proprio questo (cfr Mt 1, 23). Seguirlo significa andare con lui da questo centro a tutta la realtà fino alle sue “periferie”, come ama dire papa Francesco. Ed ecco che con lui potremmo rifare a ritroso tutto il percorso per portarlo e renderlo ovunque presente di una presenza che è riflesso della sua presenza reale nell’Eucarestia perché, come ha detto egli stesso: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20) e “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40). E, come nella visione finale del profeta Ezechiele (cfr Ez 47) dal tempio, il luogo proprio della liturgia, esce un’acqua che risana tutte le acque della terra, così nella nostra liturgia troviamo la presenza centrale di Cristo per portiarla a tutti e tutto perché tutti e tutto risani. La sua è un’acqua che veramente risana perché dove e gli regna, regna la salvezza (cfr il dialogo con la samaritana di Gv 4, 1-26).
Il cristocentrismo della liturgia è dunque segno efficace di quello che dovrebbe essere la regola di vita del cristiano. L’ “indole secolare” dei laici di cui parla il Concilio Vaticano II (cfr LG 31) consiste proprio in questo e risponde alla logica della creazione per cui all’interno di ogni realtà creata, pur ferita dal peccato, c’è il dito di Dio. Potremmo dire che non esiste un “profano” in senso stretto cioè qualcosa che cada totalmente fuori dalla potestà sacra di Dio. La sollecitudine missionaria della Chiesa che compete a tutti consiste nel far emergere l’immagine di Dio nelle cose del mondo, ripristinare il loro ordinamento verso Dio perché tutto ciò che esiste viene da Cristo, sussiste in lui ed è destinato a lui (cfr Col 1, 15-20). “L’indole secolare del fedele laico non è quindi da definirsi soltanto in senso sociologico, ma soprattutto in senso teologico. La caratteristica secolare va intesa alla luce dell’atto creativo e redentivo di Dio, che ha affidato il mondo agli uomini e alle donne, perché essi partecipino all’opera della creazione, liberino la creazione stessa dall’influsso del peccato e santifichino se stessi nel matrimonio o nella vita celibe, nella famiglia, nella professione e nelle varie attività sociali” (Giovani Paolo II, Esortazione postsinodale Christifideles laici 15). Porre Cristo al centro ci da la possibilità di ordinare anche tutto il resto. La liturgia ha questa potenza simbolica perché l’unica mediazione di Cristo passa necessariamente per la mediazione della Chiesa e dei suoi segni sacramentali. Cristo è il capo del corpo che è la Chiesa (cfr Col 1, 18), ma non è solo capo: “la Chiesa ha un corpo composto di varie membra, ma in questo corpo non può mancare il membro necessario e più nobile … la Chiesa ha un cuore, un cuore bruciato dall’amore” (Santa Teresa di Gesù Bambino, Manuscrits autobiographiques, Lisieux 1957, 227-229). Questo cuore è Gesù che la ama e la vivifica continuamente pulsando in essa e, attraverso di essa, in tutto il mondo il suo stesso sangue perché egli è Dio e “Dio è amore” (1 Gv 4, 16). Dice l’antifona al cantico (Ef 1, 3-10) dei Vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio: “Ora si compie il disegno del Padre: fare di Cristo il cuore del mondo”. Egli lo è e nella liturgia ci è mostrato: a noi renderlo tale per tutti gli uomini!
Cristo “altare, vittima e sacerdote”
La liturgia pone al suo centro il Signore Gesù Cristo perché egli è “sempre vivo per intercedere per noi” (Eb 7, 25). Anzi, la liturgia esiste proprio perché c’è una fondamentale mediazione di Cristo. Ma questo va inteso bene: egli non è un semplice mediatore come gli eroi della grande e preziosa mitologia dei popoli antichi. Ricordiamo che questa esperienza religiosa originaria è importantissima ed è anch’essa ordinata a Cristo perché “in Cristo il mito si è fatto storia” scrisse una volta J. R. R. Tolkien all’amico C. S. Lewis suscitandone la conversione. Egli non è un intermediario ma un vero mediatore, è Dio stesso fatto uomo (sulla differenza cfr papa Francesco, Omelia per le ordinazioni sacerdotali, 21 aprile 2013). Abbiamo descritto più volte la liturgia nei termini della comunicazione tra l’uomo e Dio. Nella liturgia cristiana però c’è molto di più perché da quando il Verbo si è fatto carne, nulla può essere più lo stesso in questo dialogo: alla parola di Dio che chiama e dell’uomo che risponde (sostanzialmente la struttura della rivelazione veterotestamentaria), subentra una sola Parola che è insieme parola di Dio e dell’uomo, Cristo Gesù, la Parola nella quale l’uomo e Dio divengono davvero uno. Il dialogo d’amore che nell’eternità si svolge tra il Padre e il Figlio, attraverso il Figlio, è partecipato anche a noi. Dio si comunica a noi attraverso il Figlio e anche per noi l’unica possibilità per comunicare con Dio è, di conseguenza, il Figlio stesso. L’unicità di questa mediazione è tanto vera che il prefazio VII del Tempo Ordinario può poeticamente dire a Dio Padre: “hai amato in noi ciò che tu amavi nel Figlio”. Cristo sta al centro di tutto e non può che essere così. Questo però non esclude ma, anzi, comporta che attorno a un centro ci sia un contorno. Un centro è tale proprio perché è centro di qualcosa altrimenti sarebbe un punto solitario ma non un centro. Ed ecco allora che attorno a questo cuore vive un corpo che è la Chiesa, quindi ognuno di noi. Possiamo dire a ragione che quando partecipiamo ad essa siamo “protagonisti” della liturgia ma con ciò affermiamo implicitamente il motivo per cui lo siamo: l’incorporazione a Cristo. Diversamente saremmo protagonisti di una penosa farsa, come abbiamo ampiamente visto nella catechesi sulla libertà. L’orientamento adorante di questo corpo verso il suo cuore ci aiuta anche a capire meglio la necessità dell’incorporazione a Cristo cioè del sacramento del battesimo. È attraverso questo momento liturgico che entriamo a far parte del corpo di Cristo, la Chiesa, la quale proprio per questa con-corporeità con Cristo può unirsi e unire tutti i suoi membri al sacrificio perfetto di Cristo. Come una volta entrammo nella Chiesa per mezzo dell’acqua del battesimo, così ogni volta che entriamo in chiesa siamo invitati a prendere l’acqua benedetta dalla pila e segnarci con il segno della croce. Questo principio dell’alleanza stabilita personalmente il giorno del battesimo viene poi rinnovato ogni domenica, giorno del Signore a cui tutti gli altri sono orientati, con il rito (purtroppo facoltativo) dell’aspersione domenicale sul popolo di Dio radunato per la celebrazione dell’alleanza eterna. Il segno di croce fatto con l’acqua benedetta ha anche un valore catechetico enorme perché appena entrati in chiesa facciamo memoria delle due verità fondamentali della fede che anche i due motivi per cui siamo lì: la Trinità e la croce.
È Cristo colui che presenta la nostra offerta al Padre perché in lui gli elementi del sacrificio sono contemporaneamente presenti: egli è insieme “altare, vittima e sacerdote” (Prefazio pasquale V). Questi sono nell’esperienza religiosa universale i simboli della mediazione: il sacerdote è colui che rappresenta Dio davanti al popolo e il popolo davanti a Dio, la vittima è il sacrificio il cui odore che sale al cielo mette in comunicazione l’offerente e Dio stimolandolo a rivolgergli la sua attenzione, l’altare poi è lo spazio dove questa propiziazione si svolge nel tempo. Non esiste altra via per presentare un’offerta al Padre che gli sia gradita: “nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14, 5). Una facile obiezione è qui che il rapporto personale con Gesù si vive nel cuore, a tu per tu, non in chiesa, quante volte l’abbiamo sentito … tuttavia, le due cose non solo non sono in contraddizione ma sono necessarie l’una all’altra: una preghiera personale che non si confronti con la preghiera della Chiesa (= la liturgia) e da essa non si lasci illuminare è quantomeno pericolosa perché il rischio di passare dal dialogo al monologo è sempre dietro l’angolo.
Tutte le preghiere liturgiche terminano esprimendo il nome di Gesù: “Per Cristo nostro Signore” oppure “Per il nostro Signore Gesù Cristo tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli”. Questa è la struttura fondamentale di qualsiasi preghiera anche inconsapevole: ogni domanda o lode è rivolta al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo perché la forma sostanziale della liturgia è l’offerta del Figlio al Padre nello Spirito Santo. Questa struttura liturgica è la stessa che costituisce la comunione, chiave di lettura e termine tecnico preciso per tutti i rapporti dell’uomo con Dio e con gli altri uomini. Tutto per il cristiano tende non alla sottomissione degli altri o di Dio (magia) e nemmeno alla fusione indistinta con essi (panteismo) bensì a una relazione precisa che risponde al nome di comunione: perdersi per trovarsi proprio come Gesù sulla croce. Essa si attua “con il Padre, per Cristo, nello Spirito Santo” (Congregazione per la dottrina della fede, Lettera Communionis notio 4). Uno è Cristo, una è la Chiesa e una è l’Eucarestia, per questo la comunione ecclesiale ha il suo centro visibile nell’Eucarestia, sacramento del centro di tutto che è Cristo. La centralità di Cristo e quindi del sacramento dell’Eucarestia spiega anche perché così spesso liturgia è sinonimo di Eucarestia, apparente confusione che spesso si incontra anche in questo testo; il motivo è proprio la centralità di Cristo resa visibile primariamente dall’Eucarestia, poi dagli altri sacramenti e poi da innumerevoli altre cose. L’unione sempre più profonda, che la partecipazione all’unica Eucarestia alimenta tra gli uomini stringendoli tra loro, li stringe anche sempre di più verso il centro di questo ideale cerchio. “Dal lasciarsi attirare nelle braccia aperte del Signore ne consegue l’inserimento nel suo corpo unico e indiviso” (Ibid. 11). La comunione non solo all’interno della Chiesa visibile ma anche di essa con quella trionfante (i santi in Paradiso) e purgante (le anime del Purgatorio) la cui intercessione è continuamente ricordata nella liturgia con le formule e le feste del calendario si fonda nell’unica intercessione di Cristo a favore delle sue membra (cfr Eb 7, 25). La celebrazione eucaristica non può mai essere di un singolo o della sola comunità ma, proprio per l’unione a Cristo, è anche sempre universale ed in essa è presente la Chiesa universale perché tutta è orientata a questo centro. Lo sentiamo nella preghiera più importante della Messa, la preghiera eucaristica, allorché nomina espressamente il papa e il vescovo, “tutto il clero e il popolo che tu hai redento” (Preghiera eucaristica III).
Ecce lignum crucis in quo salus mundi pependit
Il sacrificio di Cristo che ci ha procurato la salvezza si è consumato in un luogo preciso: la croce. Il versetto di intronizzazione della croce il Venerdì santo la presenta appunto come il legno da cui pende la salvezza del mondo facendo questa perfetta identificazione tra la salvezza e il Signore Gesù. La celebrazione della salvezza trova dunque il suo significato nella celebrazione di Cristo. Da molti secoli il segno scelto dalla Chiesa per l’orientamento del cuore e del corpo durante la liturgia è la raffigurazione di Gesù crocifisso perché egli stesso ha detto “quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12, 32) dando compimento alla profezia che dice: “volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Zc 12,10; Gv 19, 37; Ap 1,7). San Paolo ci ricorda un’esperienza che tutti prima o poi facciamo nella vita, quella cioè di scoprire che “passa la scena di questo mondo” (1Cor 7, 31). Ma se tutto passa, c’è qualcosa a cui possiamo aggrapparci? Solo la croce ci può dare un orientamento stabile e sicuro, stat crux dum volvitur orbis recita il motto dei monaci certosini. Ecco perché, seppur in solo giorno all’anno, il Venerdì santo, si parla di vera e propria adorazione della croce e davanti alla reliquia di essa tradizionalmente si fa la genuflessione come per l’Eucarestia. “La croce è l’unico sacrificio di Cristo, che è il solo “mediatore tra Dio e gli uomini” (1 Tm 2, 5). Ma, poiché nella sua Persona divina incarnata, “si è unito in certo modo ad ogni uomo” (GS 22) egli offre “a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (ibid.). Egli chiama i suoi discepoli a prendere la loro croce e a seguirlo (cfr Mt 16, 24), poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme (cfr 1 Pt 2, 21). Infatti egli vuole associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari (cfr Mc 10,39; Gv 21,18-19; Col 1,24). Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre, associata più intimamente di qualsiasi altro al mistero della sua sofferenza redentrice (cfr Lc 2,35). “Al di fuori della croce non vi è altra scala per salire al cielo” (Santa Rosa da Lima; cf. P. Hansen, Vita mirabilis, Louvain 1668)” (CCC 618).
Il fatto che la liturgia ponga Cristo al centro significa che pone al centro la verità perché egli è “la via, la verità e la vita” (Gv 14, 6). Questo ci spinge a fare continuamente anche la verità su noi stessi che è poi la vera umiltà. “Una volta stavo considerando quale poteva essere la ragione per cui nostro Signore ama tanto la virtù dell’umiltà … Deve essere perché Dio è la somma Verità e l’umiltà consiste nel procedere nella verità” (Santa Teresa di Gesù, Castello Interiore VI, 10,7). Ci sono almeno due esempi nella liturgia che ci aiutano a tradurre in pratica e a crescere in questo “fare” la verità su di sé. Anzitutto l’invito a riconoscere i nostri peccati e a confessarci peccatori proprio all’inizio della Messa con l’atto penitenziale, il quale non è certo il sacramento della riconciliazione ma è un ottimo esercizio per i discepoli della Verità. E poi il massiccio impiego della preghiera liturgica dell’Antico Testamento, i Salmi nei quali nulla è tenuto nascosto, nemmeno i sentimenti più turpi che passano per il cuore dell’uomo; si pensi alla forza delle immagini dei Salmi definiti “deprecatori”. La verità ci porta a riconoscere la necessità continua che abbiamo di conversione. Secondo le ricostruzioni archeologico liturgiche la struttura a più navate delle chiese deriva dal fatto che i fedeli stavano in quelle laterali mentre la navata centrale era riservata alle processioni dei ministri. Questo comportava che fossero per lo più rivolti verso il centro della navata, c’era però ad un certo punto l’invito, probabilmente fatto dal diacono, conversi ad Dominum (Agostino, Sermone 183), nel momento in cui tutti, sia i fedeli sia i ministri si rivolgevano all’altare per la parte sacrificale della Messa. Da questo esercizio liturgico di lasciare ogni altra distrazione e porsi nella direzione verso il Signore nasce la conversione continua della vita. La vita cristiana è tale non perché si fanno cose straordinarie ma, al contrario, perché possiamo fare le stesse cose di sempre “tenendo fisso lo sguardo su Gesù” (Eb 12, 2).
Oriens nomen eius
“Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei sulla terra e sotto terra”: tutto il creato si unisce alla lode del suo creatore innalzata da Cristo capo di tutto e in particolare della Chiesa suo corpo. Il creato tutto è una grande liturgia che con la sua sola esistenza proclama la grandezza del suo creatore. In un mondo che vaga disperso in un antropocentrismo falso e che si illude di essersi fatto da sé, la riscoperta della verità della creazione è fondamentale. Anche l’edificio sacro anticamente accoglieva in sé il cosmo perché era costruito verso est, dove il sole simbolo di Cristo sorge, invitando così anche il sole, che ci è necessario alla vita, ad essere segno della lode a Dio e del mistero di Cristo. Nella Liturgia delle Ore, il cantico delle Lodi della domenica della I settimana del salterio (Dn 3, 57-88) è proprio un invito a tutto il cosmo in ogni suo grande e piccolo componente affinché lodi il Signore “e lo esalti nei secoli”. Questo pregare verso est che rende il cosmo simbolo di Cristo e quindi ambito della preghiera fu nei luoghi di riunione dei cristiani ben presto sottolineato da un segno di croce sulla parete orientale. Inizialmente come segno di Cristo che ritorna ma assunse nel tempo sempre di più il riferimento alla passione storica del Signore: il precetto della forma straordinaria secondo cui sull’altare deve stare una croce ha come sfondo di riferimento questa tradizione cristiana primitiva. Interessante a questo proposito è la quinta antifona maggiore, O Oriens, che fa riferimento alla profezia di Zaccaria oggi tradotta come “si chiama Germoglio” mentre la Vulagta riportava “Oriente è il suo nome” (cfr Zc 6, 12): “O astro che sorgi, splendore di luce eterna, e sole di giustizia, vieni ed illumina coloro che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte”. Le “antifone maggiori” o “antifone in O” sono delle antichissime invocazioni al Messia chiamato con vari titoli (Sapienza, Adonai, Radice di Iesse, Chiave di Davide, Oriente, Re delle genti e Emmanuele) strutturate su parole dei profeti e assegnate agli ultimi sette giorni che precedono il Natale come antifone al Magnificat. L’invocazione a Cristo come Oriente richiama anche un passo del suo discorso escatologico: nella sua seconda venuta Cristo verrà dall’Oriente (cfr Mt 24,27). La celebrazione eucaristica è escatologica per definizione cioè viene celebrata donec venias, finché il Signore ritornerà. Ma è anche “escatologia realizzata” (cfr Joseph Ratzinger, “Escatologia. Morte e vita eterna”, Cittadella editrice 2008) perché il fine di tutta la creazione, Gesù, è lì realmente presente. La Chiesa dunque è tutta rivolta ad aspettare il suo Signore che tornerà definitivamente e anche fisicamente questa attesa era espressa dal celebrare verso Oriente. La tendenza della Chiesa a Cristo la pone nel già e non ancora perché egli è il fine di tutto e la liturgia rende presente questo fine: i giorni tra la prima e l’ultima venuta del Signore sono i tempi qualitativamente ultimi in cui l’Eucarestia ci da il già per vivere il non ancora. La liturgia è come una sosta in questo cammino, dice infatti una delle formule possibili per l’esortazione a pregare nell’Offertorio: “Pregate, fratelli e sorelle, perché il sacrificio della Chiesa, in questa sosta che la rinfranca nel suo cammino verso la patria, sia gradito a Dio Padre onnipotente”. Non solo la Chiesa lo attente ma tutto il cosmo perché egli è “sacramento universale di salvezza” (Colletta del martedì della II settimana di Pasqua). “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20): aspettiamo il Signore, egli tornerà da Oriente, ma non ci abbandona perché in modo sacramentale è continuamente presente nell’Eucarestia e abbiamo visto che questa presenza reale non è che il culmine degli innumerevoli modi in cui si rende presente.
Non è un bel pensiero da rispolverare nella liturgia ma stringente condizione per tutta la vita cristiana: “Gesù deve regnare” (1Cor 15, 25). È significativo che come conclusione dell’anno liturgico si celebri la festa di Cristo Re dell’Universo. La sua centralità stabile nell’universo e verso cui l’universo stesso è indirizzato lo rende signore di tutto. Cristo al centro, re della vita di ognuno di noi è anche l’unica garanzia di vera gioia se da lui ci lasciamo strappare alla schiavitù di noi stessi e ci apriamo all’amore. Questa è “perfetta letizia” (San Francesco d’Assisi) perché egli stesso ci ha promesso “cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna” (Mc 10, 30).