Risposta a Padre S.M.Lanzetta, FI

Vede oggi la luce, nel giorno in cui la Chiesa fa memoria del grande San Tommaso, il Doctor Angelicus, questa nuova rubrica “Teologia in ginocchio” a cura di Don Pietro Cantoni, Moderatore generale dell’Opus Mariae Matris Ecclesiae.

Apriamo con il proporre una risposta alla recensione ad opera di Padre Serafino M. Lanzetta del volume Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo di Don Pietro Cantoni.

 

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SERAFINO M. LANZETTA, FI, Un “Anno della Fede” a cinquant’anni dal Concilio. Tra ermeneutiche in conflitto, in: Fides Catholica 6 (2, 2011), pp. 5-19

A un autore fa sempre piacere che si parli di un suo libro. Una recensione è qualcosa di normalmente e comprensibilmente ambito, soprattutto quando questa avviene su una rivista specialistica; così dovrei essere contento che padre Serafino Lanzetta FI abbia dedicato a me diverse pagine sulla rivista Fides Catholica, soprattutto se questa recensione ha addirittura il risalto di un “Editoriale”, che – di per sé – implica che tutta la rivista se ne assume la responsabilità.
Le cose cambiano un po’ se si guarda al tono e al contenuto della recensione che potrebbe essere definita, credo senza esagerare, una brutta “stroncatura”.
Non intendo qui rispondere a tutti gli attacchi, molti dei quali non mi sono affatto chiari e ai quali mi sarebbe quindi difficile, per non dire impossibile, dare una qualche soddisfazione. Mi limito allora a qualche punto che giudico però essenziale.
Prima di tutto il contesto. La mia posizione è presentata come una delle “ermeneutiche in conflitto”. Dopo il famoso discorso del 22 dicembre 2005, il papa avrebbe dato il via – secondo padre Lanzetta – a un “dibattito” in cui diverse ermeneutiche presenterebbero le loro credenziali davanti al mondo cattolico. La mia sarebbe una di queste.
Mi spiace che essa sia stata capita così, perché tale non è stata affatto la mia intenzione. Mi sono trovato infatti davanti ad una presa di posizione del papa, che non è un teologo tra gli altri – come padre Lanzetta sa bene – il quale in virtù del suo magistero ordinario ha affermato che uno dei problemi maggiori che compromettono la nuova evangelizzazione oggi assolutamente necessaria, è costituito da una errata interpretazione del concilio ecumenico Vaticano II, per cui « Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura” […]. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato […] ». Il Papa con queste parole non ha inteso avviare una discussione teologica se l’ultimo concilio ecumenico è in continuità o in rottura con il passato, ma indicare la via giusta e corretta che consiste in una ermeneutica della riforma nella continuità. In parole povere il Papa ci dice: molti purtroppo hanno interpretato il concilio come se fosse un nuovo inizio della Chiesa, per cui tutto quello che veniva prima doveva essere buttato e tutto doveva incominciare come da principio. Questa cattiva ermeneutica – che qui per semplicità e per paradosso retorico ho un po’ rozzamente esagerato – ha fatto scuola e ad essa si sono accodati alcuni che hanno sui contenuti un giudizio specularmente opposto: il concilio ecumenico Vaticano II ha rotto con la Tradizione quindi va criticato, sminuito, anzi – logicamente – abolito.
È evidente che io non mi presto a questo genere di “discussione” in quanto  mi riconosco in toto nelle parole del Papa. Il titolo del mio libro è significativo: Riforma nella continuità. Riflessioni sul Vaticano II e sull’anti-conciliarismo. Se di discussione si può parlare essa ha un carattere “apologetico”, in quanto il cristiano e a maggior ragione il teologo deve sempre essere pronto a dar ragione della propria fede. Se di “discussione” si parla si deve intendere una discussione tra teologi fedeli al magistero (nel caso concreto io e padre Cavalcoli) e teologi critici nei confronti del magistero – direi “del dissenso” – che cioè, approfittando del fatto che il Papa qui non parla ex cathedra, si propongono di confutare l’ermeneutica della riforma nella continuità. L’oggetto vero delle loro critiche non sono quindi tanto le “opinioni” di don Pietro Cantoni e di padre Giovanni Cavalcoli OP, quanto il magistero (ordinario) di Benedetto XVI.
Questo spiega anche il secondo punto di contrasto. Padre Lanzetta infatti ritiene che « Alle tesi di Gherardini ha risposto in modo infuocato e con un fare quasi comminatorio di scomunica Don Pietro Cantoni. L’analisi di Cantoni, a nostro giudizio, sorvola il vero problema, e ci lascia amareggiati per il modo in cui tutto il libro viene organizzato: una stroncatura di una persona […] » (p. 12). Il padre rimane « amareggiato » perché io critico Mons. Gherardini. Io sono invece molto amareggiato nel vedere Mons. Gherardini (e coloro che lo seguono) che, da teologo della Scuola Romana, famosa per la sua fedeltà al magistero, si è trasformato in un « teologo del dissenso ». Leggo infatti, a proposito del n. 22 della costituzione pastorale Gaudium et spes: « […] l’affermazione che “ognuno, lo sappia o no, è redento in Cristo” per il fatto stesso d’esser uomo, non salva chi la pronuncia dall’ “error in fide”. Con maggiore coerenza teologica si potrebbe andar oltre e dire: non salva dall’eresia formale. È proprio possibile, allora, applicare l’ermeneutica della continuità a GS 22? » (BRUNERO GHERARDINI, Quod et tradidi vobis, Casa Mariana Editrice, Frigento 2010, p. 424). E questo è solo un esempio, forse il più significativo tra tante espressioni dello stesso calibro o comunque equivalenti. Per esempio l’espressione « l’uomo […] in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa » è definita « un testo assurdo e blasfemo » (IDEM, Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Lindau, Torino 2011, p. 36 n. 3). Ma a questi testi – lo ripeto – se potrebbero aggiungere tanti altri, cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento 2009, pp. 69-70.147.151.163. 180.188. 205.213.216.247-248).
Riguardo al problema dell’ infallibilità del concilio, che io non considero affatto un problema centrale, padre Lanzetta critica la mia posizione che consiste nel qualificare teologicamente i testi del Vaticano II – presi nel loro insieme – come doctrina catholica. Per far questo mi rifaccio a due teologi: Matthias Joseph Scheeben e padre Umberto Betti (cardinale dal 24 novembre 2007). Purtroppo nel campo delle qualificazioni teologiche non c’è un linguaggio comune. Io ho scelto questa terminologia che significa sostanzialmente il massimo di autorità al di sotto della definizione dogmatica. Essa non esclude di suo neppure l’infallibilità, perché essa non si restringe ai testi definiti solennemente: esiste cioè anche una infallibilità del magistero ordinario. Il padre si lamenta che io non entri nei particolari, non dica che cosa è infallibile e che cosa non lo è e mi mantenga quindi ad un livello generico. Ho due ragioni per farlo: prima di tutto il tempo. Forse è sfuggito un passo del mio libro, che per questo riproduco qui per intero: « Non intendo qui mettere a tema l’argomento in quanto tale, perché ciò comporterebbe uno studio approfondito dello statuto teologico del concilio stesso e quindi del suo valore dogmatico. Si tratta di un compito che – svolto secondo le corrette esigenze critico-teologiche – è veramente complesso » (p. 17). La seconda ragione è lo scarso valore che attribuisco alla questione in quanto tale: ciò che conta è che si tratta di magistero ordinario nel suo massimo grado di solennità, se poi qua o là ci siano anche delle affermazioni da equiparare, quanto all’infallibilità, a definizioni dogmatiche è una questione secondaria che di solito richiede tempo e quel distacco che solo il tempo può dare, per poter esser risolta. A meno che non si faccia propria la posizione (insostenibile) secondo cui è vincolante solo quanto è infallibile: « […] le […] dottrine [del Vaticano II], non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili, e dunque nemmeno vincolanti » (MONS. BRUNERO GHERARDINI, Concilio ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento 2009, p. 51). Che questa posizione non possa essere seriamente fatta propria da un teologo cattolico credo di averlo dimostrato nell’appendice seconda al mio libro, intitolata L’assenso al magistero ordinario nei documenti precedenti il concilio ecumenico Vaticano II (pp. 133-142).
Padre Lanzetta mi fa notare che Scheeben « non ha conosciuto il Vaticano II » (p. 16). Informazione preziosa che però non cambia molto il mio giudizio, in quanto la sua stessa posizione è condivisa da autori – altrettanto sicuri – che il Vaticano II lo hanno conosciuto. Basta scorrere il notissimo Compendio di Teologia Dogmatica di Ludovico Ott, dove i temi chiave della collegialità o della sacramentalità dell’episcopato sono qualificati come Sentenza certa (Marietti – Herder, Torino – Roma 1969, pp. 487.488.748), che nella terminologia adottata da Ott corrisponde al Doctrina catholica di Scheeben e Salaverri. Soprattutto però basta riflettere sul significato delle parole di Paolo VI, in cui dichiara, con l’autenticità propria al magistero papale, in quale direzione si deve muovere il teologo in questa ricerca: « Vi è chi si domanda quale sia l’autorità, la qualificazione teologica, che il Concilio ha voluto attribuire ai suoi insegnamenti, sapendo che esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, impegnanti l’infallibilità del magistero ecclesiastico. E la risposta è nota per chi ricorda la dichiarazione conciliare del 6 marzo 1964, ripetuta il 16 novembre 1964: dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’ autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti » (PAOLO VI, Udienza generale del mercoledì 12 gennaio 1966: Insegnamenti di Paolo VI, vol. IV [1966], p. 700). Dire che un insegnamento ha l’autorità del supremo magistero ordinario significa ipso facto attribuirgli la qualificazione teologica massima al di sotto della definizione solenne, sia essa doctrina catholica o sententia certa.
Ma c’è ancora un altro punto da chiarire, che forse è il più importante di tutti. Se le cose stanno così, siamo poi in grado di escludere in assoluto la presenza di una eresia in un testo che – comunque – non gode della suprema garanzia magisteriale? Già Mons. Gherardini aveva evocato la fantomatica questione di un “concilio eretico” (cfr. Valore “magisteriale” del Vaticano II, http://disputationes-theologicae.blogspot.com/2009/05/presentation_05.html consultato il 12 gennaio 2012). È noto che soprattutto nel medioevo i teologi e i canonisti hanno discusso animatamente sulla questione se il Papa potesse cadere in eresia. Questo possibilità potrebbe indurci a riflettere ulteriormente e a considerare che non sempre un pronunciamento che gode della qualificazione teologica massima, al di sotto del solennemente definito, è tale da escludere la possibilità dell’eresia. In altra sede (PIETRO CANTONI, Può la Chiesa variare veramente? Trasmissione, cambiamento, continuità, in: ASSOCIAZIONE CULTURALE CENTRO STUDI ORIENTE OCCIDENTE [a cura di], Romano Amerio, il Vaticano II e le variazioni nella Chiesa cattolica del XX secolo, Convegno di Studi in Ancona, 9 novembre 2007, Fede e Cultura, Verona 2008, pp. 109-135) avevo già fatto notare che qui il caso (già di per se ipotetico) assumerebbe dei tratti veramente “apocalittici”. « Gli ecclesiologi sono sempre stati consapevoli che non è possibile escludere a priori che il Papa, come persona privata, possa cadere in eresia e sul punto esistono teorie teologiche varie e complesse. Non bisogna però dimenticare che il nostro Ernstfall, il nostro caso serio, è veramente “serio”. Trattandosi di un concilio che ha raccolto l’unanimità quasi numerica dei vescovi cattolici, con una adesione totale ai documenti promulgati (anche Mons. Marcel Lefebvre e Mons. Antonio de Castro Mayer, i due vescovi che sono all’origine dello scisma di Ecône, hanno firmato tutti i documenti, senza eccezioni), non si tratterebbe più soltanto della, già non proprio “inoffensiva”, quæstio de papa hæretico, ma di una, ben altrimenti inquietante, quæstio de magisterio hæretico… » (pp. 128-129).
Qui non posso esimermi dal citare Mons Richard Williamson – sperando di non essere accusato di essere un lefebvriano, come già sono stato accusato di essere un “conciliarista” per aver utilizzato il termine di anticonciliarismo usato da papa Benedetto XVI… Williamson fa un esempio molto grossolano, ma molto chiaro e – a mio avviso – molto centrato (cfr. http://gloria.tv/?media=29234 consultato il 18 gennaio 2012). Se ad una mamma donassero una torta per il suo piccolo, dicendogli: “è molto buona, c’è solo il rischio, veramente assolutamente trascurabile, che qua e là ci siano anche delle tracce di veleno. Ma stai tranquilla sono solo voci poco sicure, sospetti, niente di certo…”. Che cosa farebbe la mamma? Getterebbe tutta la torta nel bidone della spazzatura. La metafora è semplice e lampante e credo anche schiacciante nella sua ovvietà.
Se nel Vaticano II, al di là della nota dogmatica che gli vogliamo attribuire, al di là della possibilità che qualcosa in esso sia addirittura anche infallibile, siamo disposti ad ammettere la presenza possibile di una qualche eresia, dobbiamo avere il coraggio di tirare da questa possibilità tutte le conseguenze ecclesiologiche del caso: tutti i vescovi della Chiesa cattolica, nella loro qualificante maggioranza morale, hanno sottoscritto ad un testo contenente un insegnamento eretico. Questa è la ragione che spingeva i nostri padri nella fede a non ammettere la possibilità di un concilio eretico (cfr. pp. 91-97 del mio libro).
Né vale – è forse inutile (?) – aggiungerlo, ricorrere ad uno scandalizzato: “ma questo è sedevacantismo, che noi rifiutiamo in radice”! “Si tratta di una posizione estremista”. Il problema è che la verità non conosce estremismi di sorta. Conosce e rifiuta una sola cosa: l’errore.

Don Pietro Cantoni

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