Sentiva gran consolatione in tener solo il calice nelle mani

Preghiera e liturgia nella spiritualità di San Filippo Neri

S-Filippo-Neri

 di Emanuele Borserini

Ogni proposta spirituale porta con sé un percorso peculiare per raggiungere l’unica meta comune a tutte che è l’unione con Dio. Tra le tante caratteristiche che si potrebbero elencare, il percorso disegnato da San Filippo ne ha una che non sarà forse la più grande ma certamente è necessaria per comprendere tutto il reso: la libertà. Come era solito fare il padre, il membro dell’Oratorio si propone di mettere a proprio agio, non costringere, lasciare che ciascuno manifesti l’originalità del suo pensiero e del suo carattere, rispettare l’originalità delle anime (cfr. Braudrillart, “Introduzione alla Vita di S. Filippo di Ponnelle e Bordet”). La pedagogia filippina consiste in un accompagnare a Cristo pedetemptim et suaviter (gradatamente e con garbo) attraverso tutte le manifestazioni del bello in modo che siano esse a suscitargli la libera adesione delle corde più profonde dell’animo umano. Esso incomincia con la ricerca discreta di un’amicizia spirituale che apra passo passo all’amicizia con Cristo. La sintesi più eloquente l’ha tirata un degno figlio di San Filippo da poco beatificato, il cardinale John Henry Newman, che scelse come motto cor ad cor loquitur. E “il beato Padre voleva che li suoi alunni s’avvezzassero a tal modo di parlare la Parola di Dio che ferissero più li cuori degli uditori che le orecchie” (Processo III, 43), racconta Pompeo Pateri. Questa è esattamente una delle caratteristiche più profonde della dinamica liturgica: parole e gesti che parlano ai sensi perché Dio possa giungere a toccare il cuore. La ragionevolezza di questo percorso l’ha sintetizzata in modo semplice ed eloquente Benedetto XVI nel primo punto della sua prima enciclica: “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona”(Deus Caritas est, 1). La preghiera stessa ha ragione di esistere in virtù della “relazione viva e personale con il Dio vivo e vero” (CCC 2558), nessuno prega un’idea o un’etica, per quanto belle e profonde possano essere.

La preghiera è anche l’“elevazione dell’anima a Dio” (CCC 2559). Letta superficialmente questa antica e poetica definizione potrebbe trarci nell’illusione di avere un qualche merito innalzando qualcosa di nostro a Dio. Ma il vero attore di questo movimento è l’unico centro di tutto l’universo: Gesù Cristo nostro Signore per mezzo del quale e in vista del quale tutto è stato fatto (cfr. Col 1,16). Non v’è altra via per giungere a Dio che il suo Cristo. Per iniziativa di purissimo amore, Dio ci ha creato e si è rivelato per chiamarci alla relazione con lui. E anche la preghiera è “dono di Dio” (CCC 2559 e 2561). Allora, potremmo chiederci, noi non facciamo proprio nulla? Per capire come possano restare uniti questi opposti guardiamo alla liturgia. Il suo unico attore non può che essere Gesù perché per definizione la liturgia è memoriale cioè la vera ripresentazione degli eventi salvifici sempre vivi e operanti. Per esempio, la Messa non è un semplice ricordo e nemmeno durante la sua celebrazione avviene un nuovo Calvario, siamo piuttosto noi che veniamo resi presenti a quell’unico e definitivo evento di salvezza. Siamo sottratti al nostro oggi passeggero per essere messi dentro all’oggi eterno di Dio e questo per una forza che viene dall’alto, non certo per l’energia con cui lo ricordiamo. Può darne un’idea la descrizione delle celebrazioni di San Filippo in cui “gli astanti molto ben si accorgevano che più tosto agebatur quam ageret” (Pier Giacomo Bacci, “Vita di San Filippo Neri fiorentino”). Commenta mons. Edoardo Cerrato che questa è “la più attiva e feconda passività dell’uomo” (“S. Filippo. La sua opera e la sua eredità”). Questo mistero stupendo di attiva passività è ciò che rende la liturgia così affascinante perché essa celebra la struttura di ogni incontro con Dio che sarebbe di per sé assolutamente passivo perché Dio è perfetto ma è anche attivo perché quel Tutto vuole avere necessità di una risposta chiara e consapevole da noi. La preghiera è insieme “azione di Dio e  dell’uomo” (CCC 2564) proprio come il suo protagonista che è insieme Dio e uomo e al cui culto perfetto e definitivo noi abbiamo la reale possibilità di partecipare godendone così tutti i frutti. L’iniziativa è sempre la sua, ma “Colui che ti ha creato senza di te non ti salva senza di te” (Sant’Agostino, Sermo CLXIX, 13) perché “Dio è amore” (1 Gv 4,8) quindi libertà.

L’umiltà è “il fondamento della preghiera” (CCC 2559), possiamo dire che ne è la condizione soggettiva. Nella liturgia il Dio onnipotente ed eterno si rende presente e opera la salvezza attraverso elementi umili e quotidiani, in un modo tanto vulnerabile da essere addirittura, nel caso supremo dell’Eucarestia, mangiabile. Il fondamento di tutto questo è il mistero dell’Incarnazione. Non ci sarebbe liturgia senza l’Incarnazione perché la gloria di Dio che viene celebrata si è resa visibile in una carne umana. Questa umiltà con cui Dio ci viene incontro non può che essere la stessa con cui noi ci lasciamo incontrare. Tutta la Scrittura è chiara su questo punto e San Filippo ne fece l’elemento determinante di tutta la sua spiritualità. Ci sono racconti meravigliosi in cui emerge quanto facesse, pur con la sua tipica ironia, per riportare continuamente se stesso e i suoi amici all’umiltà, fino a punte anche paradossali. Se sentiva dire che qualcuno lo riteneva un santo, cosa scontata per tutti durante la seconda parte della sua vita, iniziava a girare per Roma con un gran cappello rosso oppure con la barba fatta a metà affinché si convincessero che era soltanto un pazzo. Oppure chiedeva ai suoi di ripetere innumerevoli volte un sermone in cui si erano compiaciuti di se stessi. Anche il suo estremo riserbo va in questa direzione, secretum meum mihi (Processo II, 22, 23, 30) diceva di tutto quanto riguardasse la sua esperienza mistica. L’umiltà si definisce come la giusta collocazione di sé e di Dio lasciando a lui il posto centrale abitualmente occupato dall’io. “Dio è la somma Verità e l’umiltà consiste nel procedere nella verità” (Teresa di Gesù, “Il castello Interiore”, VI, 10, 7). Questa uscita da sé, con il conseguente riconoscimento della sovranità di Dio sull’io, è anche la definizione di adorazione e l’adorazione costituisce l’essenza della liturgia. Ci sono alcuni elementi liturgici che ci aiutano a vivere questo cammino: l’uso dei salmi in cui senza falsi pudori entra tutto ciò di cui il cuore dell’uomo è capace, l’atto penitenziale, l’inginocchiarsi, il genuflettere e l’inchinarsi.

C’è anche una condizione oggettiva che permette la realizzazione e l’esistenza stessa di qualsiasi incontro con Dio: lo Spirito Santo “per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (Rm 8,15). Lo Spirito di Dio è il vero agente della preghiera, egli “viene in aiuto alla nostra debolezza; non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26). La struttura dei sacramenti prevede sempre un’epiclesi, nome tecnico dato alla preghiera di invocazione dello Spirito Santo, perché, come la presenza storica di Gesù nel mondo avvenne per opera sua, così avviene anche per ogni sua presenza sacramentale. Le parole epicletiche sono sempre accompagnate da un gesto in sé semplice ma che ha radici lontanissime e che ritroviamo lungo tutta la storia della salvezza: l’imposizione delle mani. Nel linguaggio biblico lo stesso agire di Dio è rappresentato moltissime volte dall’immagine della sua mano, della sola destra o anche solo del suo dito. L’antico inno Veni creator definisce lo Spirito Santo come digitus paternae dexterae (dito della mano destra del Padre). La potenza dello Spirito Santo è infinita e multiforme ma il suo compito è anzitutto quello di renderci possibile il contatto con Cristo e, attraverso Cristo, di raggiungere il cuore del Padre (cfr. Gv 13; 14; 15; 16). Se la preghiera è un rapporto personale, bisogna conoscere l’altro soggetto della relazione e questo necessita di una frequentazione. Per noi oggi essa non è possibile se non sacramentalmente cioè nella liturgia dove agisce con certezza lo Spirito Santo. Ma questo incontro non dobbiamo pensare che sia meno vero dell’esperienza che ne potevano fare coloro che incontravano Gesù sulle strade della Palestina durante la sia vita terrena. Non solo incontriamo Cristo ma partecipiamo a tutti i misteri della sua vita vivendoli lungo l’anno liturgico. È una conoscenza mistica, per questo ne sono maestri i santi. San Filippo, poi, era inabitato anche fisicamente dallo Spirito Santo che gli infiammava il cuore aumentandone i battiti e le dimensioni fino a spaccargli permanentemente due costole, probabilmente sin dalla Pentecoste del 1544 presso le catacombe di San Sebastiano.

Una delle più semplici ed esaurienti definizioni di liturgia è “la preghiera della Chiesa”. Quando la preghiera è il dialogo non solo dei singoli membri del corpo di Cristo con il loro capo ma anche dell’unica sposa con il suo Sposo, ecco che essa diventa propriamente liturgia perché “lo Spirito e la Sposa dicono: vieni!” (Ap 22,17). La preghiera personale e quella liturgica non possono mai essere contrapposte; il salmo 150 nella versione della Vulgata invita a lodare il Signore non solo in timpano ma in timpano et choro (Sal 150,4) cioè suonando il proprio strumento e suonandolo armoniosamente insieme agli altri. La liturgia è una grande e armonica architettura in cui ognuno ha il suo ruolo e si impara a collaborare perché la fatica di uno e la perdita di concentrazione che può derivare dell’esercizio dei ministeri sono ampiamente compensate dalla gioia degli altri che ne godono i benefici. L’uomo è un animale sociale per natura e con la fede possiamo comprenderne la ragione profonda: siamo creati a immagine e somiglianza di Dio che è uno e trino, in se stesso comunità di Persone. Una preghiera personale che non si confronti con la preghiera della Chiesa e da essa non si lasci illuminare è quantomeno pericolosa, perché il rischio di passare dal dialogo al monologo è sempre dietro l’angolo. La liturgia garantisce anche dalla tentazione di pregare con una mentalità magica perché la sua capacità di mostrare Dio in modo sempre misterioso attraverso simboli e parole arcane ci pone davanti alla grandezza di questo Mistero che può essere adorato, invocato, amato ma mai posseduto per servirsene. La liturgia ha il grande pregio di farlo attraverso segni visibili come la presenza del messale sull’altare perché anche il sacerdote che sapesse la Messa a memoria dipende da un Mistero che sempre lo supera. Dall’altra parte, una liturgia non sostenuta dal rapporto personale con Dio è un vuoto espletamento di prescrizioni che ben presto lascia il posto altre più interessanti attività. C’è un momento liturgico che rende visibile molto bene questo delicato equilibrio: il ringraziamento dopo la comunione. Un canto o la recita corale dell’antifona proposta dal messale e poi un congruo momento di silenzio. È un unico atto di ringraziamento ma la sua espressione è giustamente bilanciata tra una parte intima e una comunitaria, una in silenzio e una con l’utilizzo migliore della voce che è la preghiera insieme ai fratelli. Questo ci aiuta anche a comprendere l’importanza del canto nella liturgia: esso non è un semplice orpello o un riempitivo di momenti altrimenti vuoti di parole ma vera e propria preghiera. La comunione della voce con i fratelli presenti apre naturalmente alla comunione con tutta la Chiesa: “il cristiano, anche quando è solo e prega nel segreto, ha la consapevolezza di pregare sempre in unione con Cristo, nello Spirito santo, insieme con tutti i santi per il bene della Chiesa” (Institutio generalis de Liturgia horarum, 9). “Guardando al modello di preghiera che ci ha insegnato Gesù, il Padre nostro, noi vediamo che la prima parola è Padre e la seconda è nostro: apprendiamo dunque a pregare rivolgendoci a Dio come Padre e pregando con gli altri suoi figli, con la Chiesa … Non si può pregare Dio in modo individualista” (Benedetto XVI, Udienza generale, 3 ottobre 2012). Tanto nel silenzio quanto nella liturgia il rapporto con il Padre è misteriosamente mediato dal Figlio e di conseguenza, dalla totalità del suo corpo che è la Chiesa. La liturgia lo esprime in molti modi, invocando sempre gli angeli e i santi, pregando per i vivi e i defunti di tutto il mondo anche quelli quali solo Dio ha “conosciuto la fede” (Preghiera eucaristica Va) e soprattutto chiedendo la comunione con la sua gerarchia nominando espressamente il Papa e il Vescovo, perché l’individualismo può riguardare anche l’assemblea. In una sorprendentemente perfetta armonia tra intimità e universalità viveva San Filippo il quale da quei lunghi anni di solitudine nelle catacombe attinse la forza per diventare uno dei più grandi riformatori della storia della Chiesa. Come Santa Teresa di Gesù Bambino che dalla sua clausura e giovanissima età diventò patrona delle missioni. Lo vediamo nella sua preghiera di intercessione per i fratelli con la quale strappava le più impensabili grazie. Per esempio, per ottenere la guarigione dell’amico Cesare Baronio, lo sentirono dire con somma confidenza a Dio: “dammelo, rendimelo, lo voglio!” (Processo I, 137). Egli non scrisse quasi nulla se non qualche lettera e proprio in una lettera alla nipote suor Maria Vittoria Tregni ci consegna l’atteggiamento dell’intercessione: “così come dicono, tra le altre proprietà, che il pellicano suol fare quando vuol pascersi, che stando intorno alla riva del mare ingoia delle conchiglie marine che sono quelle cose che portano ne’ cappelli i pellegrini, che stanno serate come sassi duri, e dentro vi è l’ostrica e la tellina, e cuocendole nello stomaco le riscalda, e s’aprono da quella loro durezza, e le vomita, e così si nutrisce il pellicano di quella carne dell’ostrica, che stava prima duramente serrata. Voi questi duri ed ostinati peccatori mettetevegli nel cuore, e colla carità gridate a Dio, e fate per loro qualche disciplina, domandandone prima licenza; e Dio gli manderà la compunzione, e si apriranno al lume della grazia, e voi ne piglierete tanto gusto di questo esercizio, e vi scalderete tanto allo zelo della conversione delle anime, che vi liquefarete tutta in lacrime di dolcezza pensando al gaudio che se ne fa in cielo da Dio e dagli angioli della conversione del peccatore” (Giorgio Papàsogli, “Un secolo – Un uomo. Filippo Neri”). L’armonia e l’equilibrio con cui tutto regolava si esprimono al meglio in questa profonda penetrazione nel suo cuore della preghiera liturgia e personale; racconta il cardinale  Federico Borromeo, intimo amico di San Filippo come il cugino San Carlo, che egli “sentiva gran consolatione in tener solo il calice nelle mani”. Ma si sa, l’amore ha una forza dirompente e consegnato il cuore al Signore poi egli prende un dolce sopravvento su ogni cosa. Ed ecco che quando vennero traslate le reliquie dei martiri Papia e Mauro dalla chiesa di sant’Adriano al Foro romano alla nuova chiesa di Santa Maria in Vallicella, dovette mettersi a tirare la barba alle guardie svizzere per non andare in estasi. Questo è solo uno degli episodi più curiosi, ma negli ultimi anni della sua vita era normale che la sola vista delle cose di Dio lo rapisse immediatamente in Dio.

Sembrerà strano non aver ancora trattato dell’argomento che è passato alla storia come il segno distintivo di San Filippo e della sua spiritualità: la gioia. Va specificato che c’è una differenza tra l’allegria esteriore e la perfetta letizia che risiede nella profondità del cuore ma San Filippo curava attentamente entrambe perché ben sapeva che siamo ontologicamente sacramentali. Cor ad cor loquitur: il cuore parla al cuore, ma perché ciò avvenga è necessario passare per i sensi esterni perché Dio stesso ci ha voluti e creati così. Affinché Giovanni esultasse nel grembo di Elisabetta (cfr. Lc 1,41) era in qualche modo necessario che Maria, che portava nascosto in sé Gesù, parlasse fisicamente alla parente. Ecco allora tutta la pedagogia filippina dell’umiltà e della carità attraverso il servizio ai pellegrini e ai convalescenti. Come ricorda Giovanni Paolo II, “il cosiddetto quadrilatero – umiltà, carità, preghiera e gioia – resta sempre una base solidissima su cui poggiare l’edificio interiore della propria vita spirituale” (Lettera Pontificia per il IV centenario della morte di S. Filippo Neri, 7 ottobre 1994). Preghiamo dunque San Filippo che “risuoni sempre nel nostro spirito la divina liturgia che celebriamo con le nostre voci” (Orazione dei Vespri del Martedì della IV settimana del Salterio).

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