di don Pietro Cantoni
Il recentissimo libro di Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia (1), ha subito sulle pagine di Vita Pastorale, a firma di padre Rinaldo Falsini una stroncatura radicale(2). Io sono al contrario convinto che ci troviamo davanti ad un ottimo libro, suscettibile di dare l’avvio ad una ampia riflessione sul valore e il significato della liturgia. Qualcosa che si potrebbe anche chiamare un nuovo movimento liturgico. Teso immediatamente non all’introduzione di cambiamenti nella prassi liturgica, quanto piuttosto ad una visione più profonda, di carattere teologico, spirituale e pastorale della liturgia e del suo ruolo nell’esistenza cristiana. Ratzinger non è nuovo a questo argomento, perché alla teologia della liturgia ha già dedicato altre due opere: La festa della fede, Saggi di Teologia liturgica, Milano: Jaca Book, 1983 e Cantate al Signore un canto nuovo, Milano: Jaca Book, 1996. La teologia liturgica, come la concepisce il teologo tedesco, non si limita a giustapporsi alla liturgia, ma mantiene con essa un collegamento vitale, guarda volentieri alla concreta prassi liturgica e non disdegna dall’avanzare critiche e proposte. Il rischio è quello di recepire solo questi aspetti più appariscenti, tralasciando il contesto teologico da cui procedono e in cui si inseriscono. Il rischio è soprattutto quello di non cogliere la proposta di fondo: una rinnovata meditazione sulla realtà della liturgia per una rinnovata vita liturgica. Tutto sembra ruotare attorno all’altare rivolto ad Oriente e alla preghiera eucaristica recitata sottovoce dal sacerdote.
Considerando l’argomento di grande importanza per la vita della Chiesa, vorrei portare un modesto contributo di chiarezza e di serenità, cercando di mettere a fuoco soprattutto l’oggetto del contendere, perché ciascuno possa farsi una opinione fondata. Vorrei chiarire cioè dove propriamente si situano i problemi.
1. Il Concilio Ecumenico Vaticano II non c’entra. La costituzione Sacrosanctum Concilium non dice proprio nulla sulla celebrazione versus populum e sul modo di recitare la preghiera eucaristica.
2. Neppure la riforma liturgica è messa in discussione in quanto tale. Caso mai alcune sue espressioni, che non costituiscono affatto ciò che in essa vi è di più sostanziale.
Il punto di partenza teologico delle proposte di Ratzinger sta in due concetti che dovrebbero essere condivisi da tutti i teologi e i liturgisti cattolici.
1. L’orientamento della celebrazione è al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo.
2. La ‘figura’ (Gestalt) propria della Messa non è il convito ma l’eucaristia, cioè la preghiera di lode e di azione di grazie sugli elementi materiali del pane e del vino.
Sul primo punto non vale la pena spendere tante parole, se non sottolineare che la tesi di Jungmann, secondo cui la preghiera indirizzata a Cristo è stata gradualmente introdotta nella liturgia solo dal IV secolo in avanti, è stata confutata, senza che peraltro risulti intaccata la concezione di un fondamentale orientamento della preghiera liturgica al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo..
Sulla ‘figura’ della celebrazione il discorso può apparire più problematico, posto che uno dei padri del movimento liturgico, Romano Guardini, ci ha lasciato la formula che la Messa è “un sacrifico nella forma del banchetto”. Formula assolutamente ortodossa dal punto di vista strettamente dogmatico, ma che è stata ormai abbandonata per la sua intrinseca fragilità. Appare infatti ovvio che la forma deve esprimere il contenuto e che, se un sacrificio implica sempre un pasto come conseguenza, un banchetto non implica di per sé un sacrificio. Ratzinger aveva dedicato ampio spazio a una riflessione sulla ‘figura’ della celebrazione eucaristica, mettendola in connessione con il sacrificio ebraico della Toda in La festa della fede. Qui riprende il tema più succintamente, sottolineando come la Messa cristiana rappresenti la realizzazione perfetta della loghiké Thusía, cioè del sacrificio ‘secondo il Logos’, sacrificio perfettamente spirituale, che qui però è sacrificio del Logos fatto carne. È una autentico azione sacrificale, compiuta però solo con una preghiera – la preghiera eucaristica -, che non è solo preghiera di lode e di ringraziamento per il sacrificio già offerto da Gesù, come condanna il Tridentino, ma è ri-presentazione misterica dello stesso sacrificio che diventa in quell’atto anche sacrificio della Chiesa. Quest’atto nasce certamente nel contesto dell’ultima cena, ma dice riferimento al sacrificio del Tempio, di cui rap-presenta e ri-presenta il compimento sul Golgota. La liturgia cristiana ha conservato la memoria dell’ultima cena nell’agape fraterna che anticamente accompagnava l’eucaristia, ma ha ben presto assunto una figura propria, che non è quella del convito. La strutturazione dell’assemblea eucaristica cristiana ha avuto due fondamentali punti di riferimento: la Sinagoga e il Tempio. Già la Sinagoga era orientata al Tempio, come d’altra parte lo era la cena pasquale, in cui si consumava l’agnello sacrificato al Tempio. Nell’eucaristia cristiana Sinagoga e Tempio sono raccolti in sintesi. Il che si esprime anche a livello architettonico.
Questo dato della corretta ‘figura’ della celebrazione da rinvenirsi nella preghiera eucaristica come ‘cuore’ e ‘culmine’ della celebrazione(3), può essere considerato come acquisito. Ecco come si esprime il prestigioso Nuovo Dizionario di Liturgia delle edizioni S. Paolo, oggi in edizione aggiornata e aumentata:
“La “figura” della celebrazione, se proprio vogliamo usare questa parola, non è il (semplice) convito e neppure un sacrificio materiale di pane e vino in quanto azione distinta dal sacrificio di Cristo, bensì il memoriale di ringraziamento sul pane e sul vino (elementi del convito) in cui diventa presente l’unico sacrificio di Cristo, quello da lui offerto in croce: sacrificio sacramentale, pieno di realtà”(4).
Sacrifico sacramentale vuol dire sacrificio nel segno efficace. Un segno deve esprime la realtà di cui è segno. Il segno di un sacrifico deve essere sacrificale. Qui il segno è – complessivamente – una preghiera su elementi materiali, perché è un sacrificio secondo il Logos fatto carne. Deve però essere una preghiera sacrificale per svolgere questa funzione. Quindi orientata all’adorazione non al convito, che è solo il contesto in cui essa avviene. Essendo preghiera sacrificale il convito non può che logicamente seguire, come conseguenza però, non come scopo.
Commentando quanto i Principi e le Norme per l’uso del Messale Romano dicono a proposito della Preghiera Eucaristica Neunheuser prosegue dicendo:
“”A questo punto ha inizio il momento centrale e culminante dell’intera celebrazione, vale a dire la preghiera eucaristica, cioè la preghiera di azione di grazie e di santificazione… Il significato di questa preghiera è che tutta l’assemblea si unisca insieme con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio”(5). Qui risulta chiaro che non basta parlare della figura di “convito” della messa“(6).
Il problema vero sta dunque tutto qui: quali possono essere le azioni liturgiche che meglio esprimono questo orientamento e questo contenuto teologico. Qui si inserisce la proposta di Ratzinger di ravvivare la tradizione liturgica della direzione della celebrazione verso Oriente, cioè verso il sole che sorge come simbolo di Cristo che viene. Ratzinger dà per scontato quello che ogni buon liturgista dovrebbe sapere: cioè che il dato dell’orientamento della preghiera liturgica verso Oriente è un dato comune della tradizione cristiana fin dai primordi. Nel libro in esame non entra nei dettagli, che ha invece affrontato altrove(7). È proprio questo “scontato” che viene invece messo in discussione.
Per padre Falsini l’orientamento sarebbe di origine pagana, accolto unanimemente solo in Oriente, mentre per l’Occidente esso diventerebbe generale solo a partire dal secolo IX. Per corroborare questa tesi vengono addotti alcuni fatti, tra cui la presenza di tante chiese “orientate” a occidente proprio a Roma e la presenza di una rubrica nel messale tridentino che parla di celebrazione “versus populum”. In realtà quello dell’orientamento della preghiera è un dato comune a tutte le religioni(8). I cristiani ereditano l’orientamento dal giudaismo, solo che – lasciata cadere per ovvie ragioni teologiche la direzione del Tempio – la sostituiscono con quella del sole che sorge, simbolo di Cristo (cfr. Lc 1,78; Mt 24,27; Ap 7,2; At 1,11) e assumono così con estrema naturalezza la prassi pagana della direzione verso Oriente, cioè dell’‘orientamento’ in senso etimologico(9). I controfatti addotti sono già stati spiegati dalla letteratura scientifica in modo più che soddisfacente. Dobbiamo infatti accuratamente distinguere l’orientamento delle chiese e quello della preghiera. Anche nelle basiliche romane “occidentate” la preghiera era sempre orientata: è proprio così che si spiega il fatto che il sacerdote si poneva dietro l’altare e davanti al popolo. A ben guardare poi anche l’abside ad occidente rispondeva solo ad un diverso concetto di orientamento, per cui era la porta ad essere rivolta verso il sole che sorge, per influsso di Ez 8,16(10). Riassume bene i fatti Michael Kunzler: “Nella chiesa antica l’orientamento della celebrazione era verso oriente, non solo per il celebrante, ma anche per tutti i fedeli. Se la porta d’ingresso era ad oriente, in effetti il celebrante stava “dietro” l’altare rivolto verso la comunità, ma vedeva solo delle schiene, dato che per pregare anche la comunità si rivolgeva verso oriente. Dato che le chiese di nuova costruzione erano sempre in maggior numero rivolte verso oriente, ne risultò l’orientamento della celebrazione versus altare“(11).
Certo, si può obiettare, come ha fatto Nußbaum, che – quale che sia il dato tradizionale sul punto – l’orientamento non sarebbe capito dall’uomo d’oggi. Nel contesto postmoderno in cui viviamo questo è molto discutibile, posta la rinnovata sensibilità che si sta delineando per tutto ciò che ha valore “simbolico”. Pur tuttavia si può agevolmente sottolineare che, al di là dell’orientamento strettamente ‘geografico’, un comune guardare nella stessa direzione al momento della preghiera – in particolare della grande preghiera, la preghiera eucaristica – non risulterebbe affatto di difficile comprensione. Si tratterebbe infatti di evidenziare gestualmente il senso della preghiera in cui si realizza il sacrificio eucaristico, che è inequivocabilmente versus Deum. Ratzinger ravvisa proprio nella migliore distinzione delle diverse parti della celebrazione: liturgia eucaristica e liturgia della parola, uno dei meriti principali della riforma liturgica. Si tratterebbe allora di trarne tutte le conseguenze. Posto che la celebrazione – da cogliere sempre nella sua unità – è fondamentalmente composta di tre momenti: liturgia della parola, liturgia eucaristica e liturgia del convito, niente di più naturale che la liturgia della parola e il momento della distribuzione della comunione vedano il celebrante e il popolo faccia a faccia, mentre al momento della liturgia sacrificale sacerdote e popolo si volgano nella stessa direzione, verso il Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo.
Recentemente la Santa Sede, in stretta collaborazione con la chiesa cattolica Siro-Malabarese, ha portato a termine la riforma del suo antico rito liturgico, che si ricollega al rito siro-orientale o ‘caldeo’, riportandolo ad una maggiore conformità alle origini dopo le latinizzazioni subentrate nel corso della sua storia. In quel contesto si è discusso anche di questo problema ed è interessante ascoltare quanto dice un liturgista indiano a questo proposito riassumendo i dati scientifici e la mens della Congregazione competente:
“Secondo la tradizione comune bimillenaria di tutte le Chiese, la liturgia eucaristica si celebra versus Deum (ossia versus Orientem o altare), cioè il popolo e il celebrante guardano nella stessa direzione, aspettando il Signore che verrà dall’Oriente. Dopo il concilio Vaticano II, la Chiesa latina cominciò a celebrare la liturgia versus populum. Non si può dire, però, che la Chiesa latina abbia completamente abbandonato la tradizione di celebrare la Messa versus Deum. In alcune chiese e monasteri antichi si celebra ancora la Messa secondo la tradizione comune. Lo stesso Papa nella sua cappella privata – con la partecipazione di alcune persone – celebra la Liturgia dell’Eucaristia versus altare. Nella basilica di San Pietro presso i sette altari famosi e nelle altre basiliche romane presso gli altari antichi si può vedere ogni giorno la celebrazione della Liturgia dell’Eucaristia versus altare. Per l’influsso della Chiesa latina, qualche diocesi orientale cattolica ha abbandonato la celebrazione verso l’Oriente, ma la tradizione comune è fedelmente osservata da tutte le Chiese orientali non ancora in piena comunione con la Chiesa romana”(12).
Padre Falsini minimizza tutta la questione, facendo notare come i documenti della CEI in tema di altare non ne facciano menzione. Non cita però un importante documento della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, dell’anno scorso, che – per la sua oggettiva importanza – riporto integralmente in appendice.
Altra sorgente di confusione è il sovrapporre – come fa padre Falsini – al tema della direzione della preghiera il tema della centralità dell’altare. Sono due problematiche diverse. La centralità dell’altare non è messa in discussione da nessuno ed ha lo scopo di mettere in risalto la sacralità del luogo dove si compie il sacrificio e sono preparati il cibo e la bevanda celesti di cui la Chiesa è chiamata a nutrirsi. L’altare è simbolo di Cristo (altare, vittima e sacerdote) per cui è opportuno che sia unico, separato dalla parete e posto al centro dell’abside. Anche qui le assolutizzazioni vanno però evitate, così come dovrebbe essere evitata la distruzione di quelle autentiche opere d’arte e di pietà cristiana che sono spesso gli altari barocchi. Quello che qui mi preme sottolineare è che la centralità dell’altare non ha nulla a che fare con la posizione che il celebrante assume rispetto ad esso.
A livello metodologico, la discussione centrata sulla ‘figura’ della celebrazione eucaristica è di primaria importanza. Il teologo elabora il ‘contenuto’ teologico della celebrazione, tenendo in adeguato conto non solo il dato biblico, patristico e magisteriale, ma la liturgia come locus theologicus, in ossequio al detto legem credendi lex statuat supplicandi (la norma della fede è stabilita dalla norma della preghiera) costituisce un imprescindibile punto di riferimento di tutta la sua riflessione. Alla luce di questa, il teologo della liturgia cerca di enucleare le linee portanti della celebrazione, cercando di percepire la sua struttura essenziale, la sua ‘figura’ (Gestalt). Il liturgista si sforza di tradurre questa figura, letta sempre teologicamente in stretta connessione con il suo ‘contenuto’ (Gehalt), nelle forme che meglio gli convengono alla luce della storia liturgica, delle norme ecclesiastiche e delle esigenze pastorali. Così si delineano anche meglio gli ambiti delle diverse competenze. Qualunque altra strada confina la liturgia o nel positivismo legalistico, cioè nel ‘rubricismo’, oppure nell’arbitrio pastoralistico, che di volta in volta inventa quello che sembra più accattivante ed efficace. La proposta di Ratzinger credo debba essere letta in questa prospettiva. Mi pare invece che Falsini la veda come una bella digressione teologica ad argomento liturgico, da ammirare ma da lasciare ben separata dallo spazio riservato agli “addetti ai lavori”. Come se teologia e liturgia dovessero camminare su strade parallele e incomunicanti. Non è certamente questo l’insegnamento del Concilio.
Le vere e proprie proposte concrete di Ratzinger, a ben guardare, si riducono a poca cosa. Il cardinale non ritiene opportuno procedere ora a nuovi cambiamenti nella liturgia, perché di cambiamenti ce ne sono stati già tanti e i fedeli rimarrebbero ulteriormente disorientati. La liturgia rischia di apparire come un campo di battaglia in cui i preti sfogano la loro litigiosità ‘teologica’ e i fedeli ne subiscono le conseguenze. Celebrare versus Deum è già possibile secondo il Nuovo Messale. Là dove non è possibile perché il santuario è già stato stabilmente ristrutturato, Ratzinger consiglia di mettere un crocifisso sull’altare (si tratta anche qui di una modalità prevista dalle norme vigenti). Davanti all’imbarazzo che i liturgisti denunciano nel rilevare la scarsa incidenza che ha la preghiera eucaristica, che pure dovrebbe essere il cuore della celebrazione e davanti alla situazione di impasse da cui si tende ad uscire fabbricando nuove preghiere sempre più banali o dando più spazio ad improvvisazioni che sono in realtà abusi, Ratzinger torna a proporre la recita della preghiera ‘sottovoce’. La proposta potrà apparire discutibile fin che si vuole. C’è però da riflettere su questo fatto: le moderne scienze umane hanno abbondantemente messo in luce che la comunicazione verbale non è l’unica forma comunicativa e non è neppure sempre la più chiara. A volte i silenzi parlano più delle parole…
In tutto questo però rischiamo anche noi di spostare l’attenzione lontano dall’essenziale. Scopo dichiarato del libro cioè non è quello di “ribaltare gli altari” o di “zittire il prete” ma di avviare una riflessione. Ratzinger ha di recente ribadito il concetto. All’intervistatore che lo incalzava nel senso di un cambiamento concreto della posizione dell’altare, Ratzinger ha risposto così:
“Tuttavia, questa dev’essere la conseguenza di una nuova presenza del sacro nei cuori. È stata cambiata la posizione dell’Altare perché vi era una nuova sensibilità, piú didattica, direi un po’ più razionalista. Si è pensata la Messa come fosse un dialogo col popolo. Tutto andava compreso, tutto doveva essere “aperto” per essere compreso. E si è perduta la percezione del fatto che comprendere la realtà della liturgia è cosa ben diversa dal comprendere le stesse parole della liturgia.
Una pia vecchietta può comprendere benissimo la profondità del mistero, senza tuttavia comprendere il significato di ogni parola.
Questo è quello che è accaduto dopo il Concilio. Il Concilio è rimasto ancora molto equilibrato, ma dopo il Concilio è prevalsa l’idea che occorreva aprire tutto, comprendere tutto, cosa questa che derivava da una superficialità circa il modo di comprendere la liturgia e il suo messaggio. Vero è che la liturgia, in questo modo, è annunciata, ma si tratta di un annuncio differente. È molto importante che i giovani chiamati alla vocazione riscoprano che una liturgia razionalizzata, una liturgia nella quale vige solo la preoccupazione di farsi comprendere dal punto di vista della ragione e dal punto di vista intellettuale, non ha più la profondità di quella realtà che tocca il mio cuore fino al livello della presenza di Dio in me.
Se si ritorna ad una visione molto più profonda della liturgia come mistero, nel senso che questo termine ha nel Nuovo Testamento, se ritroviamo l’essenziale in questo contatto tra il popolo e il prete, nel Signore, e se è il Signore stesso che ci tocca, allora il più importante è stato fatto. Penso dunque che una nuova sensibilizzazione nei confronti delle realtà della liturgia e del suo mistero, insieme ad una nuova educazione liturgica, siano le prime cose da fare. Non bisogna pensare innanzi tutto e subito a dei cambiamenti. Se si ritrova una più profonda comprensione, i cambiamenti seguiranno necessariamente”(13).
Dà sempre però un senso di profonda tristezza qualunque polemica attorno a quello che è e rimane il sacramento dell’amore.
Torniamo dunque al nocciolo, al cuore e al culmine della celebrazione, al momento in cui irrompe l’atto di amore assoluto del Dio fatto uomo: nella preghiera eucaristica l’amore infinito dell’uomo-Dio si fa infatti presente perché noi vi partecipiamo e la Chiesa lo fa suo, quindi ‘nostro’ davanti a Dio e ai fratelli. Quel momento supremo che lasciava assorto padre Pio, a volte per lungo, lunghissimo tempo, in un silenzio rotto solo dal bisbiglío incomprensibile ma eloquente delle parole del Canone…(14). In quel momento il sacrifico di Gesù non era solo ripresentato cultualmente, ma rivissuto, come d’altra parte è nella sua natura profonda. Il rito è infatti sempre mediazione, indispensabile mediazione tra la vita di Cristo e la nostra vita.
Oggi nelle nostre parrocchie è sempre più frequente assistere a celebrazioni dell’eucaristia absente presbytero. Io ho la netta impressione che l’unica differenza con la Messa colta dalla grande maggioranza dei fedeli è che l’una è celebrata dal diacono e questa dal sacerdote. Se in una celebrazione sparissero le letture o la comunione tutti se ne accorgerebbero. Ma se sparisce il suo ‘cuore’?
Note
(1) Cinisello Balsamo (MI): Edizioni San Paolo, 2001.
(2) Canone a voce bassa e verso Oriente? Risposta a Ratzinger, Vita Pastorale 89 (4, 2001), 47-48 e L’ orientamento di chiese, altare e preghiera, Vita Pastorale (5, 2001), 50-51.
(3) Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1352.
(4) Burkhard Neunheuser, voce Sacrificio, in: Domenico Sartore, csj – Achille M. Triacca, sdb – Carlo Cibien, ssp (a c. di), Liturgia, Cinisello Balsamo (Milano): S. Paolo, 2001, p. 1778.
(5) Principi e Norme del Messale Romano, nn. 54-55.
(6) Ibid., p. 1779.
(7) La festa della fede, cit., pp. 129-135.
(8) Johann Figl, “Ostung. I. Religionsgeschichtlich”, Lexikon für Theologie und Kirche 7 (19983), 1211-1212.
(9) Jürgen Krüger, “Ostung. II. Christentum”, Lexikon für Theologie und Kirche 7 (19983), 1212-1213.
(10) Senza nessuna pretesa di esaustività ecco la bibliografia essenziale. Lo studio fondamentale rimane: F.-J. Dölger, Sol salutis (Liturgiegeschichtliche Quellen und Forschungen 16/17), Münster, 1972/3ª ed. (la prima edizione è del 1925). Quindi sono importanti: J. Braun, Der christliche Altar, München, 1932; J.A. Jungmann, S.J., Missarum Sollemnia. Eine genetische Erklärung der römischen Messe, 2 voll., Freiburg-Basel-Wien, 1962/5ª ed.; J.A. Jungmann, S.J., Liturgie der christlichen frühzeit bis auf Gregor den Grossen, Fribourg, 1967; Erik Peterson, “La croce e la preghiera verso oriente”, Ephemerides liturgicae 49 (1945), 52-68; Cyrille Vogel, “Versus ad orientem”, La Maison-Dieu 70 (1962), 67-99; Cyrille Vogel, “Sol Æquinoctialis”, Revue des sciences religieuses 36 (1962), 175-211; Cyrille Vogel, “L’ orientation vers l’est du célébrant et des fidèles pendant la célébration eucharistique”, L’Orient Syrien 9 (1964), 3-37; Cyrille Vogel, Noël, Épiphanie, retour du Christ (Lex orandi 40), Paris: Cerf, 1967; Louis Bouyer, Le rite et l’homme (Lex orandi 32), Paris: Cerf, 1962; Louis Bouyer, Architecture et liturgie, Paris: Cerf, 1967; Erik Peterson, Die geschichtliche Bedeutung der jüdischen Gebetsrichtung, in Erik Peterson, Frühkirche, Judentum und Gnosis, Freiburg, 1959, p. 1-14; Erik Peterson, Das Kreuz und die Gebetsrichtung nach Osten, in Erik Peterson, Frühkirche, Judentum und Gnosis, Freiburg, 1959, p. 15-35; O. Nußbaum, Der Standort des Liturgen am christlichen Altar vor der Jahre 1000. Eine archäologische und liturgiegeschichtliche Untersuchung, 2 voll., Bonn, 1965; Klaus Gamber, Tournés vers le Seigneur, Le Barroux 1996.
(11) Michael Kunzler, La liturgia della Chiesa (AMATECA 10), Milano: Jaca Book, 1996, p. 229.
(12) Paul Pallath, La liturgia eucaristica della chiesa siro-malabarese (Quaderni di Rivista Liturgica 1), Padova: Messaggero, 2000, p. 125.
(13) Intervista rilasciata da S. E. il Card. Joseph Ratzinger a don Claude Barthe sul periodico Spectacle du monde, n° 464, gennaio 2001.
(14) Conservo ancora l’indimenticabile ricordo della Messa di padre Pio a cui ho avuto la grazia di partecipare nell’agosto del 1968. Forse una delle ultimissime.
Massa, 15 maggio 2001
Appendice
Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti
Risposta pubblicata in Notitiae, organo ufficiale della Congregazione
Prot. N° 2036/00/L
Quaesitum
È stato richiesto alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti se l’enunciato del § 299 dell’Institutio Generalis Missalis Romani costituisca una norma in base alla quale si debba considerare esclusa, nel corso della liturgia eucaristica, la posizione del prete versus absidem.
La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, re mature perpensa et habita ratione dei precedenti liturgici, risponde:
Negative et ad mentem, per la quale di deve tenere conto di diversi elementi.
Innanzi tutto occorre ricordare che il termine expedit non costituisce una forma obbligatoria, ma un suggerimento, che riguarda sia la costruzione dell’altare a pariete seiunctum, sia la celebrazione versus populum. La clausola ubi possibile sit tiene conto di diversi elementi come, per esempio, la topografia del luogo, la disponibilità dello spazio, l’esistenza di un precedente altare di valore artistico, la sensibilità della comunità che partecipa alle celebrazioni nella chiesa in questione, ecc.
Si ricorda che la posizione versus populum sembra la piú conveniente nella misura in cui rende piú facile la comunicazione (cfr. l’editoriale di Notitiae n° 29 (1993), pp. 245-249), ma questo non esclude l’altra possibilità.
Tuttavia, quale che sia la posizione del celebrante, è chiaro che il Sacrificio Eucaristico è offerto a Dio Uno e Trino, e che il prete principale, Sovrano ed Eterno, è Gesú Cristo. È Lui che opera attraverso il ministero del prete che presiede visibilmente come Suo strumento. L’assemblea liturgica partecipa alla celebrazione in virtú del sacerdozio comune dei fedeli, e quest’ultimo, per esercitarsi nella Sinassi Eucaristica, ha bisogno del ministero del prete ordinato.
È necessario distinguere la posizione fisica, particolarmente relativa alla comunicazione tra i diversi membri dell’assemblea, dall’orientamento spirituale e interiore di tutti. Sarebbe un grave errore supporre che l’azione sacrificale sia orientata principalmente alla comunità. Se il prete celebra versus populum, cosa legittima e spesso consigliata, il suo atteggiamento spirituale deve sempre essere rivolto versus Deum per Iesum Christum, in rappresentanza dell’intera Chiesa. È la stessa Chiesa, che assume la sua forma concreta nell’assemblea dei partecipanti, ad essere tutta volta versus Deum, cosa questa che costituisce il suo primario moto spirituale.
Comunque la si voglia giudicare, l’antica tradizione, anche se non fu unanime, prevedeva che il celebrante e la comunità in preghiera si volgessero versus orientem, punto da cui proviene la luce, che è il Cristo. Non sono rare le chiese antiche la cui costruzione è “orientata” in maniera tale che il prete e il popolo, nel corso della preghiera pubblica, si volgessero versus orientem.
Si può ritenere che in presenza di certe difficoltà dovute allo spazio o ad altro, l’abside rappresentasse idealmente l’oriente. Oggi, l’espressione versus orientem equivale spesso a versus absidem, e quando si parla di versus populum non ci si riferisce all’occidente, bensí alla comunità presente.
Nell’antica architettura delle chiese, il posto del Vescovo o del prete celebrante si trovava al centro dell’abside, di modo che egli ascoltava la proclamazione delle letture volto verso la comunità. Ora, questa sede presidenziale non era relativa alla persona del Vescovo o del prete, né alle sue doti intellettuali, né tampoco alla sua personale santità, ma era relativa la suo ruolo di strumento del Pontefice invisibile, che è il Signore Gesú.
Inoltre, quando si tratta di chiese antiche o di grande valore artistico, occorre tenere conto della legislazione civile riguardante i cambiamenti e le ristrutturazioni. Un altare posticcio non sempre può essere una soluzione idonea.
Non bisogna dare importanza eccessiva a degli elementi che nel corso dei secoli hanno subito dei cambiamenti. Ciò che rimane fermo è l’avvenimento celebrato nella liturgia: esso è manifestato attraverso dei riti, dei segni, dei simboli e delle parole, i quali esprimono diversi aspetti del mistero, senza tuttavia esaurirlo, poiché il mistero li trascende tutti. Irrigidirsi su una posizione e “assolutizzarla” potrebbe tradursi nel rifiuto di alcuni aspetti della verità che meritano rispetto e accoglienza.
Vaticano, 25 settembre 2000.
Jorge A. Card. Medina Estévez, Prefetto.
Francesco Pio Tamburrino, Arcivescovo Segretario