Venerdì 5 luglio 2024

In quel tempo, Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».
Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Matteo 9,9-13).


Il pubblicano, secondo l’usanza dell’antica Roma, era un appaltatore delle imposte che pagava allo stato una certa somma come introito di una tassa, che poi esigeva per proprio conto in scienza e coscienza, talora, di esoso esattore. Per questo non godeva speciale simpatia nell’immaginario popolare. 

Il termine pubblicano ricorre con frequenza nei Vangeli, spesso in abbinamento con i peccatori e le meretrici, ma è famoso per la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio (cfr. Lc 18, 9-14). In essa Gesù afferma che il secondo, per la sua preghiera, umile e sincera, tornò a casa giustificato, a differenza del fariseo superbo e vanitoso. 

Pare che Gesù, ferma restando la sua opzione preferenziale per i poveri, certamente non motivata da comoda strategia ideologica rivoluzionaria, non disdegnava la frequentazione e l’amicizia di uomini e donne che assistevano il suo gruppo con i loro beni, ed aveva séguito anche fra peccatori e peccatrici di vario genere che intraprendevano la via della conversione, puntualmente festeggiata nel pranzo conviviale, naturalmente affollato da sinceri amici e simpatizzanti, nonché dagli antipatizzanti farisei, che nonostante tutto non riuscivano a smarcarsi. 

In questo contesto oggi ci troviamo anche noi, come presenti al momento decisivo della chiamata di Matteo da parte di Gesù alla sua sequela, fra quelli che formeranno il gruppo dei dodici. Colui che è chiamato è un pubblicano quindi un peccatore e un malato, che può essere salvato solo dalla misericordia di Dio (cfr. Os 6,6). Matteo si sente chiamare da Gesù che passa, mentre svolge il suo mestiere di esattore delle imposte: «Seguimi». Si alza e lo segue immediatamente. La chiamata di Gesù a Matteo si trasforma presto in un dono di comunione da parte di Gesù, visibile nel banchetto in casa del peccatore come sigillo della sua guarigione di uomo perdonato. 

Come ha insegnato Benedetto XVI (2005-2013) nella sua Catechesi all’Udienza Generale di mercoledì 30 agosto 2006, a proposito di Matteo, è importante innanzitutto ammirare la sua adesione immediata alla chiamata fattagli da Gesù, lasciando la discutibile occupazione lavorativa. Cresce poi ancora in noi lo stupore per la fruttificazione ecclesiale apportata dalla grazia di Dio, che ispirò a Matteo la redazione del primo Vangelo, che porta il suo nome. Queste le parole del Papa di felice memoria:

«La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa, soprattutto di ciò che gli garantiva un cespite di guadagno sicuro, anche se spesso ingiusto e disonorevole. Evidentemente Matteo capì che la familiarità con Gesù non gli consentiva di perseverare in attività disapprovate da Dio. Facilmente intuibile l’applicazione al presente: anche oggi non è ammissibile l’attaccamento a cose incompatibili con la sequela di Gesù, come è il caso delle ricchezze disoneste. Una volta Egli ebbe a dire senza mezzi termini: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel regno dei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21). È proprio ciò che fece Matteo: si alzò e lo seguì! In questo ‘alzarsi’ è legittimo leggere il distacco da una situazione di peccato ed insieme l’adesione consapevole a un’esistenza nuova, retta, nella comunione con Gesù. 

«Ricordiamo, infine, che la tradizione della Chiesa antica è concorde nell’attribuire a Matteo la paternità del primo Vangelo. Ciò avviene già a partire da Papia, Vescovo di Gerapoli in Frigia attorno all’anno 130. Egli scrive: “Matteo raccolse le parole (del Signore) in lingua ebraica, e ciascuno le interpretò come poteva” (in Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. III,39,16). Lo storico Eusebio aggiunge questa notizia: “Matteo, che dapprima aveva predicato tra gli ebrei, quando decise di andare anche presso altri popoli scrisse nella sua lingua materna il Vangelo da lui annunciato; così cercò di sostituire con lo scritto, presso coloro dai quali si separava, quello che essi perdevano con la sua partenza” (ibid., III, 24,6). Non abbiamo più il Vangelo scritto da Matteo in ebraico o in aramaico, ma nel Vangelo greco che abbiamo continuiamo a udire ancora, in qualche modo, la voce persuasiva del pubblicano Matteo che, diventato Apostolo, séguita ad annunciarci la salvatrice misericordia di Dio e ascoltiamo questo messaggio di san Matteo, meditiamolo sempre di nuovo per imparare anche noi ad alzarci e a seguire Gesù con decisione».

 

Comments are closed.